A proposito di personaggi dedichiamo questa settimana alcune riflessioni sul lavoro di Laurie Simmons, artista americana, nata nel 1949 (vive e lavora a New York), riconosciuta a livello internazionale, ma poco presente in Italia, nonostante le sue opere siano note ed abbia esposto in grandi musei (dal Moma ad Amsterdam, alla National Gallery of Art di Washington, D.C., Stoccolma ).
All’inizio della sua carriera negli anni Settanta è inserita nel gruppo Pictures Generation, che comprende al suo interno anche altre artiste: Cindy Sherman, Barbara Kruger e Louise Lawler.

La sua serie di “bambole” declinate in opere fotografiche, video e in lavori di tipo installativo sono grottesche e surreali rappresentazioni di modelli femminili imposti dalla società patriarcale e consumistica che l’artista evidenzia in modo ironico, ma impietoso, fin dagli anni Settanta. Negli anni della Pop Art si è creata una personale “controcorrente”. Per citare direttamente le sue parole – tratte da un’intervista rilasciata per The Independent del 5 febbraio 2015:
I’m always shocked at how many problems are the same now as when I was in my Twenties. We are still fighting to hold onto our basic rights. We are still paid less than our male counterparts. And this is just in America. On a global level, the continuing violence towards and injustices for women are shocking and unacceptable.
Al centro dell’attenzione nel lavoro di L. Simmons il consumismo americano (e non solo, naturalmente), la vita di provincia, nelle periferie urbane benestanti dei quartieri residenziali, in espansione dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, dove la sovrabbondanza di elettrodomestici e mobilia si era estesa anche alla middle class.
Negli anni Settanta, Laurie Simmons crea set fotografici incentrati attorno alla “casa di bambola” dove si muovono donnine impegnate in cucine invase di cibi ed elettrodomestici, mobili dai colori pastello e caramellosi. Simulano ciò che avviene davvero in molte case e congelano quel tipo di immagini sociali, quella rigidità di divisioni di ruoli e di compito legati al “genere”.
In attesa del marito lavoratore – procacciatore del denaro e quindi del potere economico – la moglie cucina per lui, guarda la televisione, ascolta la radio, o si fa bella in bagno, pulisce la casa a misura di bambola. Se i primissimi lavori sono effettuati in spazi vuoti, in case di bambola disabitate, a un certo punto l’artista si rende conto che il “valore aggiunto” a quegli spazi domestici in miniatura è costituito proprio dalla presenza di bambole che, adeguatamente inquadrate, possono contribuire a creare un set dove la scala può diventare ingannevole e la realtà essere deformata grazie a un gioco di proporzioni e di angolature.
I first (reluctantly) introduced dolls in a series of pictures that I call “The Early Doll House Interiors” (1976-1978). I started making these pictures after moving to NYC and seeing the way conceptual artists used cameras in a more casual and unselfconscious way to document and record spontaneous acts of art making (artists like Smithson and Bochner and Levea). I’d set up empty interior spaces— miniature rooms and furnishings and lit them with direct sunlight or harsh contrasty theatre lights. I truly felt that they could be mistaken for real places and in this sense became enamored of the camera’s ability to tell lies rather than portray the truth. Whenever I found or bought old dollhouses they often came with dolls which I found uninteresting and threw aside. One day I decided to place a doll in one of the rooms. After looking at the first test shots I suddenly found myself more interested in the dolls than the empty spaces. I guess I’ve been a bit like a dog with a bone in terms of my subject. No matter where I go with my work I always come back to “woman in interior” and it’s generally some kind of doll figure.

Più avanti (dal 1987), Walking and Lying Objects la serie di “Walking houses” e degli oggetti con “le gambe” femminili che li sostengono utilizzano i cliché del varietà e della pubblicità dove il corpo della donna è reificato, diventa oggetto per aumentare le vendite (strategia mai tramontata e, anzi, sempre ripetuta e rinnovata con scarsa creatività e spirito di sperimentazione da parte del mondo del marketing e della pubblicità nella società di massa capitalista).

Nei lavori intitolati “Walking houses” convivono così la critica al capitalismo e quella al ruolo subordinato e decorativo della donna nella società americana (e non solo), ma la serie degli oggetti con le gambe prosegue con altri elementi: macchine fotografiche, oggetti, cibi (hot dog), torte, pistole.
In modo surreale e ironico, tuttavia, questi interventi, rendono gli oggetti stessi che camminano si trasformano in mostriciattoli dall’aspetto inquietante e “pericoloso”, con immagini che alludono al genere noir ma con un ribaltamento di senso (walking guns). La pistola diventa è montata su gambe femminili e si trasforma essa stessa in un essere ambiguo.
Oggetti che diventano “oggetti di scena”, attrezzeria trovano spazio sugli scaffali a casa dell’artista e sono usati a seconda delle occasioni e delle necessità come elementi da inserire nei set fotografici in miniatura, nelle installazioni, nei modellini e nei plastici creati per essere fotografati, con personaggi che li abitano, in scala.
Da questo punto di vista, Laurie Simmons a proposito degli oggetti dichiara: “we live in a blazingly consumer-oriented society, where the things around us control us. In Walking Camera I (Jimmy the Camera) (1987), una vecchia macchina fotografica a soffietto si erge su gambe umane.
Ma ciò che vuole restituire l’artista è la ricostruzione prospettica accurata che nasconda le microdimensioni, non è un’immagine surreale, ma realistica, l’osservatore dovrebbe essere ingannato dalla scala. “I’m not interested in a visual Magical Realism,” dichiara Simmons. “Given a chance, I’ll always go for accurate perspective and scale in the hopes that someone might believe the scene.”
Nel 1989 la Walking House custodita nella collezione fotografica del Moma di New York mostra una casa dotata di gambe femminili. La dimensione domestica coincide ed è sostenuta dagli arti di una donna che è anche imprigionata in essa. Nostalgia e la consapevolezza del peso di un destino terribile che sovrasta molte donne si mescolano: “I was simply trying to recreate a feeling, a mood . . . a sense of the fifties that I knew was both beautiful and lethal at the same time.”
Nei lavori degli anni Ottanta i formati fotografici crescono, si ampliano arrivano a sfiorare i due metri.

Fra gli anni Ottanta e Novanta Laurie Simmons inizia una nuova serie intitolata “Clothes make the man” dove i protagonisti sono manichini da ventriloquo, sono fotografati sia in piccoli tableau vivants, negli ultimi anni, invece riappaiono vestiti in modo differente ma con la stessa fattezza replicata più volte e appesi al muro, seduti, come oggetti-quadri da parete.
In 1994, I took the dummies from my Café of the Inner Mind and six identical chairs and hung them at eye level in a sculptural series entitled Clothes Make the Man (1990–92). All the figures are identical except for the suits of clothes that they are wearing. It was my look back on the whole 1950s “universal man” look, the man in the grey flannel suit, and this idea that identity needed to be neutralized for people to fit in. Conformity was something people would strive for.
Un gruppo di lavori che insistono sulla rappresentazione del sé e sul modo di porsi maschile, incentrati su bambole-manichini dalla faccia inquietante, vestiti accuratamente, nei minimi dettagli. Questa preferenza per declinazioni diverse di bambole trova uno sviluppo ulteriore nella serie Love Doll, dove una bambola giapponese per uso erotico, molto ben costruita da sembrare una donna vera, molto lontano dalla classica bambola gonfiabile, viene fotografata in momenti diversi, durante un periodo di tempo dato, come in un diario fotografico.

La serie “How we see” si concentra sulla manipolazione, sull’inganno percettivo, creato da un effetto tromp-l’oeuil: sulle palpebre chiuse di alcune modelle sono disegnati occhi in stile Barbie, più grandi del normale quindi, sovradimensionati. Chi guarda si trova quindi di fronte a un’informazione destabilizzante sul piano visivo.
Il viso della modella acquista la fissità di una bambola, proprio attraverso la negazione dell’attività visiva-percettiva (la palpebra come si scriveva è chiusa e diventa in sostanza un materiale da disegno sul quale agisce il truccatore). Questo lavoro si ispira al movimento sociale noto come Doll Girls, dove le interessate cercano di trasformare il proprio corpo per farlo assomigliare il più possibile a quello di una bambola, in particolare l’espressione del viso, gli indumenti, le posture.
Fra i lavori più recenti, vi sono quelli realizzati attraverso l’uso dell’AI nella mostra “Autofiction” presso YoungArts Jewel Box di Miami. L’artista ricorre a piattaforme come DALL-E e Stable Diffusion per riproporre scene di vita domestica, con bambole-androidi. In questo caso, la tecnologia rientra fra i materiali utilizzati per il lavoro, acccanto ai colori acrilici e al supporto di seta, al ricamo, al disegno.
Simmons, in sostanza, rielabora il materiale ottenuto con l’AI con il proprio intervento, lo rimodella, lo ricompone, utilizza in modo critico uno strumento che, se usato male, può essere alienante per la mente umana, oltre che pericoloso sotto molti profili.

Queste serie convivono con le Deep photos, vere e proprie installazioni dove modellini e plastici di abitazioni mostrano squarci di vita americana, con villette, piscine, automobili alloggiate in garage.
Il lavoro di SImmons si basa su personaggi particolari che simulano, replicano in modo deformato sul piano delle proporzioni il corpo umano. Sono replicanti con forti tratti teatrali, scenici, marionettistici. Non sono pupazzi da Muppets Show, restituiscono l’immagine critica di un mondo dove il consumismo, la società basata sul potere maschile e sul capitalismo modellano i corpi e gli abiti, in particolare quelli femminili, li rendono bambole, o spingono gli umani a voler diventare oggetti-bambola.