Dopo aver passato quasi due anni a interrogare le persone circa il loro rapporto affettivo con il luogo in cui abitano in occasione del progetto “Nidi, nodi. Fluidi”, è da qualche tempo che conduco parallele riflessioni attorno a quello dove risiedo io.
Milano è la mia città. Le voglio bene. Anzi, la amo. Quando rientro dopo un periodo di assenza più o meno lungo scendo in metropolitana, o cammino per strada, penso “finalmente sono a casa”. Quel senso di protezione, accoglienza, apertura, benessere che si sente quando si arriva in un porto sicuro.
Ho iniziato a pensare a che cosa rappresenta per me questa città, a quando l’ho conosciuta e l’ho vista la prima volta, come mi è stata descritta e presentata, dai miei genitori, in particolare, quando ero piccola. A mio padre, innamorato delle grandi città piaceva molto, a mia madre no, perché un tempo preferiva il contatto diretto con il verde, ma adesso ha cambiato idea, la apprezza e si diverte.
Prima di starci stabilmente, Milano per me era una città sognata che stava al di là della mia visuale quotidiana. A seconda dell’età, era una proiezione fantastica, un luogo magico che visitavo di tanto in tanto. Un acquisto importante. Un’occasione speciale. Vedere spettacoli che hanno fatto la storia del teatro.
Salire e scendere dai cavalcavia con lo stomaco che salta come sulle giostre voleva dire entrare a Milano. La chiesa di mattoni rossi (Santa Maria delle Grazie) e il giro attorno a piazza Duomo per andare al parcheggio di via Santa Radegonda, o di via Rovello. Il Piccolo. Un vestito d’oro con le scarpe trasparenti per la Barbie. Negozi, regali, giochi nuovi, visite a Brera, a Palazzo Reale, nell’attesa che arrivasse l’ora di venirci a vivere davvero.
Milano al di là del lago, al di là delle colline moreniche. Più a sud, più a est. Alla fine del viaggio in macchina, sull’eurocity o sul regionale stravecchio, con sedili di legno o di velluto (lento, sempre lentissimo), per comprare i materiali da disegno, i libri, per cercare casa, per preparare il trasferimento. Viaggio dopo viaggio, la città sempre più vicina, sempre più familiare, sempre più casa.
Fra me è Milano c’è stato lo spazio di un conto alla rovescia durato diciott’anni quando finalmente l’ho raggiunta. L’Accademia di Brera e le viuzze intorno fra il 1988 e il 1992 erano la mia casa, Milano per me era l’Accademia in quel periodo. In Via Festa del Perdono andavo solo per andare gli esami, il luogo è bello, ma era grigio tutto quello che c’era intorno.
Il legame con la città è continuato a crescere nel tempo, sempre più forte, è l’unico posto in Italia dove mi piace e intendo abitare. Almeno allo stato attuale. Indipendentemente dalle persone che ci sono ora, molto diverse da quelle di trent’anni fa, il luogo in sé è carico di energie vitali. Penso sia il fatto che sotto le strade l’acqua scorre, non si ferma mai. Viene voglia di fare, di guardare, di ascoltare.
Nei primi anni Novanta alla Darsena c’era ancora la chiatta con la gru, la ghiaia, la sabbia, la nebbia. Nevicate farinose. Via Pestalozzie via Morimondo sembravano al confine dell’Universo e invece ora scopri che sono dietro l’angolo, uno dei luoghi più alla moda negli ultimi anni. Anche via Procaccini e via Sarpi erano ai limiti del mondo. Un mondo molto piccolo che all’inizio, appena arrivata, per me finiva più o meno con la circonvallazione interna dei viali.
Via Monti piena di alberi e d’ombra, Via de Amicis immersa nel traffico, il Parco Solari da attraversare tranquilla anche all’una di notte, Via Brera con negozi e bar quasi tutti diversi da quelli di adesso. L’Accademia con i muri scrostati, i corridoi in penombra e un odore tutto suo, forse di polvere, odore di Brera (c’è ancora).
L’idea di città come caos, disordine, rumore, confusione è estranea al mio immaginario. Forse perché sono disordinata…In ogni caso, in Italia i modelli che abbiamo a disposizione sono molto diversi da tutte le grandi realtà europee e ancor più da quelle di altri continenti.
Milano, alla fine, è quasi un quartiere rispetto a Londra o Parigi. Non passa giorno senza incontrare qualcuno che si conosce, almeno in centro. Nel mio palazzo fra vicini ci si saluta e ci si parla non solo alle riunioni di condominio, in alcuni casi ci sono amicizie di lunga data.
Dopo tutti questi anni trascorsi qui, il rapporto affettivo si è consolidato, anche se ci sono cose che mi infastidiscono nella convivenza generata dall’afflusso/concentrazione di molte persone (la gente che ti sbatte addosso perché non stacca gli occhi dal cellulare, o passa con il rosso, non dà la precedenza ai pedoni sulle strisce, urla ed è aggressiva, il caldo terrificante in agguato, l’invasività dei bar).
In compenso ci si sente liberi, di esprimersi, di fare, di vivere. Qualche anno fa un esperimento a questo proposito è stato chiarificatore: mi sono messa una parrucca azzurra e blu elettrico con i capelli lunghi, non era carnevale, ma un qualunque giorno feriale, in pieno giorno: nessuno si è girato a guardarmi, nessuno ha riso, o fatto espressioni stupite.
Ma il bello di una città è la possibilità di scegliere, di ritiagliarsi i propri spazi dove ci si sente bene, dove trovi sempre qualcosa che ti piace. Percorrere a piedi un luogo da esplorare, perdersi un po’ (perdersi davvero è difficile se ci vivi e hai senso dell’orientamento) è una delle attività necessarie per comprendere a fondo gli spazi, le persone che li abitano. Da Ovest a Est, da Sud a Nord. Con o senza macchina fotografica.
Percorrere con la mente i luoghi, con la memoria le strade e i ricordi della città, della sua evoluzione nel tempo, o con l’intenzione di fare un racconto della città osservata da punti di vista diversi, o dallo stesso punto di vista che osserva luoghi diversi.
Le parole che mi vengono in mente pensando a Milano sono: pace (interiore, perché ci sto proprio bene, soprattutto in autunno e in inverno, quando il cielo è un po’ grigio, pioviggina e tutto concorre ad aumentare la concentrazione), allegria, divertimento, stimoli, incroci. Un pasticcino rivestito di cioccolato fondente con una chiave di violino disegnata sopra. Interno di pan di spagna (pochissimo zucchero nell’impasto) con piccoli strati di crema al cioccolato che trovo solo nella mia pasticceria preferita.
Adesso piove. Piove da giorni. Una pozzanghera-lago sul lato della strada, l’acqua è fra il marrone e il grigio perché il cantiere della metropolitana è lì vicino e la terra emigra facilmente da una ruota all’altra.
Quanto tempo ha a disposizione un pedone per evitare di fare una doccia marrone-grigia? Dipende dal passo o dipende dalla velocità dell’auto che sta per arrivare. A volte non succede niente. Pericolo scampato, pericolo scampato, pericolo scampato, pericolo scampato. Pozzanghera superata.
Auto a tutta velocità. Splash. Per fortuna la zona critica è ormai alle spalle. A molti automobilisti andrebbe data la possibilità di guidare un aliscafo, così si divertirebbero a spruzzare acqua in mezzo al mare, dove di solito – tranne casi eccezionali – nessuno cammina a piedi.