In un contesto in cui si tratta di drammaturgie urbane e drammaturgia degli spazi e dello spazio dedichiamo un focus ad Anthony Gormley, uno dei più noti scultori viventi (nato nel 1950 e premio Turner nel 1994) a proposito delle problematiche legate all’arte pubblica, alle installazioni permanenti in spazi naturali, delle reazioni alle opere pubbliche da parte dei fruitori, in particolare dei residenti o delle persone, in generale, che vivono stabilmente in loco.
La figura umana in una ben specifica declinazione – quella del corpo stesso dell’autore delle opere moltiplicato attraverso calchi – è al centro dell’attenzione di Gormley, come è noto. Personaggi silenziosi (Iron men, in ghisa più o meno numerosi) posti in uno spazio naturale, o urbano, gruppi di corpi (Critical mass), o figure umane pressate fino all’inverosimile racchiuse in uno spazio delimitato che si trasforma in ambiente claustrofobico (nelle sei versioni dei Field), a seconda delle fasi della sua progettazione.
L’importanza nel lavoro dell’artista britannico per l’attenzione, la consapevolezza delle dinamiche che legano il nostro corpo allo spazio e le implicazioni sociali e politiche retrostanti e sottostanti sono il punto di partenza sono un elemento fondamentale nel suo lavoro.
Le creature che popolano le sue opere sono corpi in ghisa (la scelta di un materiale industriale, particolarmente pesante, caratteristico di oggetti quotidiani come caloriferi e vasche da bagno fino al XX secolo), modellate sulle misure dell’artista in quanto essere umano, della specie homo sapiens, entrano in rapporto con il luogo in cui sono inserite e abitano ambienti urbani, spazi deserti, o parzialmente abitati.
I tetti degli edifici, piazze, spiagge, pareti di stanza interagiscono con queste presenze silenziose, a dimensioni reali, in quel che è un derivato di uomo vitruviano che esplora e misura lo spazio in via tridimensionale a partire dalle dimensioni del proprio corpo.
Nelle sue sculture il corpo e i corpi sono costruiti sulle misure di quello dell’artista, non perché si consideri il centro del mondo, ma piuttosto come elemento parte di un tutto, una forma di “campione umano” o campionatore umano. Il calco del corpo diventa elemento di misurazione, interazione, rapporto con lo spazio.
Questi corpi abitano spazi diversi, in posizioni diverse: in cima ai tetti degli edifici, sulla sabbia di spiagge, semisprofondati nella terra, o nell’acqua piegati e ripiegati, sospesi, capovolti.
Personaggi silenziosi in meditazione, rappresentati in atteggiamento pensoso, concentrato, ragionanti e riflessivi, colti in un atteggiamento che contraddistingue la nostra specie, risultano al contempo “invasivi” com’è l’homo sapiens da sempre, ma soprattutto negli ultimi cento anni.
Questa duplicità che emerge sposta l’attenzione su ciò che il lavoro di Grimley implica e genera: situazioni conflittuali e contraddittorie sul piano concettuale.
L’instaurare un rapporto nello e con lo spazio naturale attraverso la collocazione di oggetti “ingombranti”, volutamente “pesanti” provoca un impatto sul luogo in sé. L’opera d’arte è e resta comunque un oggetto, per quanto il suo valore estetico sia alto e riconosciuto internazionalmente, con un impatto specifico nel luogo in cui è collocato, a maggior ragione se questo suo “stare” dura “per sempre”. E’ il problema “quotidiano” di tutti coloro che devono realizzare un’opera di arte pubblica permanente.
Il confronto non solo con le problematiche dei materiali esposti alle intemperie, ma con le reazioni dei cittadini all’opera in sé, con l’accoglienza o la repulsione, in qualche modo con “l’imposizione” a tutti di un oggetto, seppur (potenzialmente) dotato di valore estetico.
Nel caso di Gormley, l’essenza di “oggetti ingombranti” emerge in rapporto alle sue opere in ghisa negli spazi esterni, specie naturali. Il materiale di per sé è ottimo per mantenere il calore, ha un cuore “caldo” nonostante la sua veste industriale, ma non è preziosa, né nobile. A differenza del bronzo è sprovvista dell’aura aulica codificata nella scultura monumentale ed è un elemento “estraneo” quando posta nel contesto extraurbano, negli ambienti naturali.
“Another place” è costituita da cento figure umane in ghisa ad altezza naturale (alte 1,89 m), modellate a partire come d’abitudine, sul corpo dell’artista. Pensata e realizzata per la spiaggia tedesca di Wattenmeer, Cuxhaven, nel 1995, esposta a Stavanger in Norway e a De Panne in Belgium, infine, emigra nel 1997 sulla spiaggia inglese di Crosby, vicina a Liverpool, per restarci definitivamente. Una spiaggia, quest’ultima, fra l’altro, non deputata alla balneazionec, come avverte l’avviso da parte delle autorità locali.
I personaggi disposti sulla battigia, dentro l’acqua, esposti alle variazioni delle maree e al mare mosso, quindi visibili in modo differente e a livello differente nel corso del tempo e del giorno, distribuiti lungo circa tre chilometri, sono descritti dall’artista stesso:
Depending on the fall of the land, the state of the tide, the weather conditions and the time of day the work will be more or less visible. The sculptures will be installed on a level plane attached to 2 metre vertical steel piles. The ones closest to the horizon will stand on the sand, those nearer the shore being progressively buried. At high water, the sculptures that are completely visible when the tide is out will be standing up to their necks in water.
L’artista fornisce ulteriori dettagli riguardanti la costruzione e le scelte del luogo, il suo essere estraneo all’idea romantica di luogo remoto, rifugio ideale. La presenza di container per spostare le pecore rendono l’area molto aderente all’economia di quel territorio e anche alle pratiche economiche locali.
The sculptures are made from 17 body-casts taken from my body (protected by a thin layer of wrapping plastic) between the 19th of May and the 10th of July. The sculptures are all standing in a similar way, with the lungs more or less inflated and their postures carrying different degrees of tension or relaxation.’
The idea was to test time and tide, stillness and movement, and somehow engage with the daily life of the beach. This was no exercise in romantic escapism. The estuary of the Elbe can take up to 500 ships a day and the horizon was often busy with large container ships.
In the end, the piece stretched 2.5 kilometres down the coast and 1 kilometre out to sea, with an average distance between the pieces of 500 metres. They were all on a level and those closest to the shore were buried as far as their knees. The work is now permanently sited outside Liverpool on Crosby Beach, U.K.”
Fra le altre riflessioni dell’autore è importante evidenziare la volontà di estromettere ogni concetto di eroico o di ideale dal contesto, di evidenziare la “riproduzione industriale” di un corpo maschile di mezza età che cerca di rimanere in piedi e di respirare, mentre guarda l’orizzone e che si confronta quindi con la dimensione naturale, dove il tempo è scandito dalle maree:
The seaside is a good place to do this. Here time is tested by tide, architecture by the elements and the prevalence of sky seems to question the earth’s substance. In this work human life is tested against planetary time. This sculpture exposes to light and time the nakedness of a particular and peculiar body. It is no hero, no ideal, just the industrially reproduced body of a middle-aged man trying to remain standing and trying to breathe, facing a horizon busy with ships moving materials and manufactured things around the planet.
Nonostante le intenzioni e i concetti di base dell’opera, come accade a moltissime altre opere pubbliche, la presenza di Another time è inizialmente mal accolta dal pubblico locale. In particolare, in questo caso sconcerto e palese disfavore provengono da due categorie di persone direttamente coinvolte con l’utilizzo dell’acqua: pescatori e surfisti.
Da questo punto di vista la reazione degli abitanti della grande installazione sulla spiaggia rivelano il “malessere” suscitato dall’occupazione di uno spazio naturale da un elemento estraneo, artificiale, frutto dell’intervento umano, sebbene di una tipologia particolare e di una qualità particolare come quella di un’opera d’arte, una serie di elementi ai quali attribuiamo un valore estetico, ma per il resto delle specie resta comunque un’intrusione, un elemento paradossalmente “inquinante”.
Tuttavia, poiché pecunia non olet anche in questo caso, dopo aver osservato il volume di affari generato dall’indotto dell’opera stessa (a riprova che con l’arte si mangia eccome), le istituzioni locali hanno deciso di accettare la permanenza definitiva. In questo caso, il conflitto si ricompone grazie all’indennità economica, al guadagno quantificabile. Ovvero, al predominio del profitto, su quello dei benefici immateriali generati dalla fruizione artistica, più difficili da quantificare immediatamente in dati.
Dalla situazione vissuta da questa famosissima opera si generano alcune domande. Il valore aggiunto che si attribuisce al nuovo ambiente, arricchito dalla presenza di un lavoro installativo di questo genere è realmente tale per tutti o solo per alcune categorie di persone? Soprattutto è lecito “imporre” alla comunità (anche a chi non apprezza questo genere di lavori) queste presenze? E’ giusto imporle a tutti gli altri esseri viventi che abitano quel luogo, specie se si tratta di un ambiente naturale?
Nel guardare questi corpi, disposti in questa installazione di grande impatto visivo e di grande fascino, ci si chede: è lecito inserire in un ambiente naturale presenze fisse e durature, per quanto molto belle? Un/a artista ha diritto di imporre al paesaggio la presenza della sua opera in materiali industriali o che generano un impatto ambientale (plastica, vetro, cemento, metalli etc)? Che caratteristiche deve avere un’opera d’arte per essere posizionata in un ambiente naturale? E’ giusto considerare anche le reazioni di altre specie? Per esempio, che impatto genera un’opera come Another time, dal punto di vista di un gabbiano, che cosa gli rappresentano queste nuove presenze?
Accanto a questa serie di domande, se ne pone un’altra. L’idea da parte di un artista di sesso maschile di misurare lo spazio attraverso il proprio corpo che diventa al contempo campione ideale, racchiude potenzialmente sfumature involontarie di tipo sessista, non previste e non cosiderate? all’epoca, la questione non veniva nemmeno presa in considerazione.
L’esemplare proposto non il genere umano ma un uomo, un maschio con le proporzioni e la specificità di un dato corpo. Sorge la domanda spontanea. Non manca qualche cosa in questo desiderio di misurazione e di rapporto con lo spazio? L’uomo-artista rappresenta e incarna tutto il resto del genere umano? Ha il diritto di proporsi come tale in quanto artista-maschio? O per formulare meglio la domanda, il genere umano perché è sempre e solo rappresentato dal corpo maschile?
A questi dubbi di fondo, l’artista deve aver dato in qualche modo una sua risposta, poiché nel trascorrere del tempo le forme del corpo si sono trasformate e ora sono diventate molto più geometriche e universali.