Fra le opere di Anthea Hamilton (1978), artista britannica, selezioniamo alcuni dei lavori dove la teatralità si sviluppa sia a livello di studio ed elaborazione degli spazi di accoglienza, sia su quello dei personaggi che abitano questi spazi.
La dimensione teatrale che utilizza Hamilton accoglie oggetti, immagini, personaggi e persone reali che interagiscono fra di loro, senza la “fissità” imposta dal medium del teatro vero e proprio, senza la costrizione dell’unicità del punto di vista assegnato allo spettatore-visitatore.
L’interesse per dettagli corporei femminili, nonché per l’uso del corpo stesso in senso performativo, sotto forma di personaggio è ricorrente nell’attività di Anthea Hamilton e declinato in modi differenti. “Sorry I’m late” (2012), esposta in origine nella galleria Firstsite di Colchester consiste in una stanza, dipinta di blu (fondo invisibile) come se fosse predisposta per accogliere la proiezione di un reality, nella quale è posta una sagoma di cartone pressato con sagome di gambe femminili, saltellanti e abbellite con fiori o decorazioni vegetali.
Questo materiale è successivamente rideclinato e rimaneggiato in diverse serie. In altri casi, come in Kar-a-Sutra o Mash up, o The Squash il visitatore si confronta direttamente con personaggi che si aggirano truccati con la classica maschera bianca da mimo (Kar-a-sutra, per Frieze New York, 2015), o con costumi derivati dalla reinterpretazione di zucche (The Squash, Tate Modern, 2018).
In quest’ultimo caso, si tratta di uno dei lavori più noti di Hamilton, commissionato dal museo londinese. Lo spazio a disposizione – la Duveen Gallery – è stato rivestito da piastrellone bianche da bagno o da cucina, su forme geometriche che fungono da piani di appoggio, di stazionamento e di percorso. Il corpo del mimo è invece coperto di costumi componibili a scelta entro una serie di combinazioni date dall’artista.
L’ispirazione nasce da un libro dedicato a improvvisazioni teatrali e a teatro partecipativo che raccoglie documentazione degli anni Sessanta e Settanta del XX secolo, elaborato dal coreografo statunitense Erick Hawkins, a sua volta ispiratosi alle immagini della zucca Kachina dei nativi americani Hopi.
Hamilton chiede al performer di interpretare l’immagine fotografica di partenza e di adottare il punto di vista “altro”; ovvero, nella fattispecie, di un vegetale e di scegliere di indossare un costume fra i sette disponibili e tenerlo durante tutto il giorno, negli orari previsti (dalle 10.00 alle 18.00). Squash in inglese indica le zucche oblunghe, a differenza del termine “pumpinks” che denota invece quelle tonde.
In un’intervista rilasciata su Art Review il 19 novembre 2021 a Ross Simonini, Hamilton ammette di essere interessata all’idea di performatività in un contesto espositivo e di adottare la restituzione come un momento performativo, poiché c’è una transizione dell’azione dall’artista al visitatore a cui spetta animare il lavoro.
I’m interested in the idea of performativity within an exhibition context. I like to use the endpoint as a performative moment, there’s a transition of performing from myself to the viewer and it’s over to them to animate the work.
Nella stessa intervista si riferisce anche alla propria attenzione per il pubblico e il suo coinvolgimento in rapporto allo spazio e alla comprensione di quest’ultimo. Da una parte quindi Hamilton pensa alla fisicità del pubblico in rapporto al luogo, al movimento nello spazio, alla sollecitazione di un certo tipo di fruizione “imposta” o prevista, preparata dall’istituzione ospite; dall’altra ai possibili visitatori, o a quelli che di solito non partecipano alle mostre, non solo per motivi/contesto sociale, ma esseri provenienti da altri ambienti, come gli animali non umani, o i vegetali.
And maybe they’re the ones most designated to understand how they’re functioning within that space. I’m recognising their physical behaviours – how people tend to move, how long they stay within a space, how they’re being invited to think about something via information offered from the institution – and then trying to use that as material, as a way to create a framework for how a work can function. But it’s also thinking about potential audiences or those who don’t tend to go to those spaces – my shows can be designed for uses that may never occur. I don’t just mean people who might be underrepresented in gallery-going statistics but people from other places, times, animals, vegetables, and so on.
La collaborazione con coreografi, mimi o in generale la condivisione di progetti artisti di campi confinanti e con colleghi è una caratteristica del modo di lavorare di Hamilton.
La serie “Love” è realizzata con Nicholas Byrne. Prevede differenti contesti di ambientazione e di materiali: First LOVE Kimono (2013), un set di animazioni (LOVE: Calypsos, 2009 e LOVE: LXVX, 2014) e grandi gonfiabili (Frieze projects East, 2012) e ripresi per il Padiglione Shinckel di Berlino (2012) iLove IV COld Shower.
“The new life”, presentato alla Biennale di Venezia, al Padiglione britannico è uno spazio claustrofobico giocato sulla presentazione del disegno “Hamilton” tartan usato sia per moquette, sia per i vestiti, o le coperte. L’opera nasce per una mostra realizzata in Austria, alla galleria Secession di Vienna nel 2018.
Come in altre progettazioni, Hamilton utilizza un’inversione di proporzioni e di scale, oltre che l’ambiguità del suo cognome e di quello del motivo composto sulla stoffa scozzese. Il “doppio senso” genera spaesamento e senso ironico.
I quadrati sono giganteschi e i colori (blu, rosso e viola) stesi su pavimento, pareti e soffitto contribuiscono ad aumentare la sensazione di disagio, mentre le linee del disegno imprimono un’accelerazione alla fuga prospettica. Ciò che si vede è una gabbia scenica simile a quella utilizzata sia in teatro, sia nei disegni architettonici per definire la costruzione degli ambienti.
In questo spazio sono inserite quattro farfalle giganti, in stoffa. Sono un elemento di trasformazione, rimandano al concetto di “instabilità”, sono un simbolo di cambiamento e al contempo rimandano all’idea di ambiguità, una caratteristica particolarmente apprezzata dall’artista.
Sui muri sono poste tre farfalle, mentre una quarta giace sul pavimento, forse schiacciata, ai piedi di una scultura che evoca il pattern stesso del tartan e al contempo un hashtag, quindi potenzialmente una griglia-prigione che blocca ogni tentativo di cambiamento.
D’altra parte le farfalle in questione sono “pesanti”, stampate su tessuto e non hanno alcunché di leggiadro ed aereo. Un rimando all’interesse per il teatro della crudeltà di Antonin Artaud a cui Anthea
Hamilton dichiara di essere interessata.