Per molto tempo e per la familiarità di contatto quotidiano la mia ricerca al di fuori dello spazio teatrale canonico, ovvero quello di una sala teatrale – seicentesca o ipermoderna la sostanza non cambia – si è concentrata soprattutto sugli spazi urbani, in particolare nella città di Milano.
L’idea che mi è venuta per prima riguardava, perciò, quel tipo di ambiente, tuttavia, quando ho esteso il territorio di ricerca anche “fuori” dalle mura cittadine, verso gli spazi naturali, in particolare verso la montagna, un territorio complesso e molto stimolante sul piano culturale, sociale, estetico, paesaggistico-ambientale, mi sono accorta che avevo bisogno di ricorrere a un’estensione del concetto di drammaturgia extraurbana.
Più precisamente, nel momento in cui mi sono iniziata a occupare di progetti legati alle Alpi, in particolare quelle occidentali, gli abitanti e i luoghi da loro frequentati e per loro significativi, è stato importante introdurre anche l’idea di una “drammaurgia montana”, con le sue specificità.
Durante le residenze artistiche finora effettuate in tre regioni alpine (Piemonte, Lombardia, Friuli) ho privilegiato luoghi a bassa presenza turistica, o piuttosto, Comuni dove il turismo di massa è per fortuna ancora assente e anzi, spero, non arrivi mai.
In questi luoghi è stato possibile entrare in contatto con gli abitanti, vivere una condizione privilegiata per una persona che viene “da fuori”, perché ho iniziato a capire come i residenti affrontano la quotidianità, vivono gli spazi che hanno a disposizione, si confrontano con gli elementi naturali, quale percezione abbiano del mondo a valle e della città.
A questo punto, ho capito che nessuna delle due precedenti classificazioni (drammaturgie urbane e drammaturgia montana) è sufficiente a definire la ricerca che sto portando avanti in questo momento e ho pensato di utilizzare un contenitore più ampio, ovvero la “drammaturgia degli spazi”. Spazi al plurale perché risalti l’idea della diversificazione degli ambienti e delle relazioni da esplorare.
Nel corso dei lavori “sul campo” – non essendo un’antropologa né una sociologa e non volendo di proposito adottare metodi scientifici, o protocolli preconfezionati – cerco di adeguarmi di volta in volta alle abitudini, alle usanze locali. Lo sforzo principale è capire il prima possibile come gli abitanti usino determinati luoghi, che significato e importanza attribuiscano agli elementi naturali, al paesaggio.
Qual sono gli assi viari preferiti, dove si concentrano i punti di incontro, dove invece sono poste le “zone morte”, gli angoli che le persone evitano di frequentare, i luoghi di passaggio dove non si sosta. In alcuni casi, i luoghi frequentati per tradizione fino ad alcuni decenni fa, sono stati sostituiti da altri.
Se in città i bar, ristoranti e le attività commerciali in genere sono solo imprese private che badano al loro profitto e come tali non sono particolarmente al centro della mia attenzione, salvo eventuali eccezioni (ancora non sperimentate), in una zona di montagna estranea al grande flusso turistico questa valutazione cambia radicalmente.
Nei piccoli paesi di montagna dove in inverno restano al massimo una ventina di persone e a volte anche di meno è importantissima la presenza di una piccola attività commerciale che di solito fa da spaccio alimentare e bar.
In questi locali i residenti possono incontrarsi in un luogo “neutro”, al di fuori delle loro case, dalle quali sono così “obbligati” a uscire per scambiare qualche chiacchiera anche con persone di passaggio, identificabili principalmente nei lavoratori della zona, impiegati nelle manutenzioni boschive, o altre aziende montane, qualche turista.
A questo proposito, se gli abitanti di una grande città desiderano andare in montagna, è molto più difficile che i residenti di un comune alpino sognino di trasferirsi in una grande città che definiscono caotica, inquinata, frastornante.
Anche se, in realtà, a seconda delle zone alpine considerate, il suolo e quindi le falde acquifere possono anche in montagna essere poco rassicuranti, perché alcune aree montane, come è noto sono state investite dalla nube di Chernobil,nel 1986 e neppure quarant’anni per il cesio sono un tempo ridicolo per estinguersi.
Per tornare alla drammaturgia degli spazi, al plurale, dal mio punto di vista, questa definizione riguarda esclusivamente l’esplorazione delle relazioni che si instaurano fra abitanti e luoghi, nelle loro diversificazioni, o fra me e alcuni ambienti e i progetti che ne discendono, realizzati con linguaggi diversi.
Non ne ho uno preferenziale, penso che ogni lavoro necessiti di una sua specificità comunicativa, o più spesso di una molteplicità di mezzi espressivi che possono comprendere installazioni, testi scritti, fotografie, disegni, brevi video, installazioni acustiche.
L’idea di drammaturgia intesa come copione da far recitare ad attori professionisti è una fra molte possibilità che si offrono, ma è molto più limitante rispetto la possibilità di sperimentare il contatto diretto con ambienti e persone, da coinvolgere in lavori mediati dalla presenza artistica, nel ruolo di elaborazione del progetto, della sua realizzazione totale o parziale, della responsabilità concettuale e formale.
Il lavoro di drammaturgia, dal mio punto di vista, nasce in effetti in primo luogo per riflettere su problematiche, o specifici concetti attraverso linguaggi diversi e più adatti a quello che si desidera comunicare ed esprimere, all’argomento, al contesto di ricezione, alla situazione organizzativa.
La flessibilità e la adattabilità della ricerca al contesto, in particolare, penso sia una delle caratteristiche della drammaturgia degli spazi, lo stimolo proviene dalla possibilità di individuare il materiale giusto per lo spazio a disposizione, sovente in condizioni “estreme”, quando si parla di ambienti alpini.
Non tanto per le condizioni ambientali dovute alla quota, ma per la mancanza, l’assenza di organizzazione preesistente, di collegamenti comodi con il fondovalle, per la lontananza dai luoghi in cui acquistare materiali.
RIsulta quindi molto stimolante per chi progetta confrontarsi con “l’assenza”, con la “mancanza”, con le difficoltà che si pongono quasi quotidianamente e che vanno risolte perché al contempo convivono con la presenza di persone da conoscere, di scambi arricchenti, di notizie e competenze nuove da acquisire.