Appunti per una drammaturgia degli spazi.
Nel contesto di opere, progetti che si occupano di drammaturgia degli spazi, una fase preliminare del lavoro, ovvero un momento importantissimo precedente al medesimo, comprende un’attenta osservazione delle zone che si ritengono interessanti sul piano sociale, relazionale, estetico, per svariate ragioni.
La macchina fotografica può essere uno strumento utilissimo, mezzo molto più immediato e rapido degli appunti visivi affidati al disegno, soprattutto quando ci sono architetture complesse, o si è in zone dove è impossibile fermarsi troppo a lungo, o trovare una postazione adatta alla permanenza necessaria all’uso di acqua, tubetti di colore e supporti cartacei.
Quando si considerano il territorio urbano e ancor più quello suburbano spazi da scoprire e da indagare è necessario percorrerli a piedi in un’esplorazione approfondita delle diverse realtà, alla ricerca di punti di vista inaspettati, di angoli dove sopravvivono relitti, memorie, tracce di passati recenti e antichi, di riconversioni, di “rigenerazioni”- termine molto di moda – sinonimo sovente di “speculazione edilizia”.
Durante questi viaggi che aprono mondi inaspettati a molti o pochi isolati da casa ci si addentra in una dimensione dove la capacità di sorprendersi, di stupirsi e di conoscere convivono con quella di immaginarsi come si vive al di fuori della propria zona e più metaforicamente fuori dalla propria “comfort zone”.
Ci si può immaginare come ognuno di noi vivrebbe in quartieri diversi da quello in cui si vive, o si è nati, chi sarebbe, come si trasformerebbe, che abitudini assumerebbe nel risiedere in altri luoghi della città. I balconi, le case, le vie raccontano molto non solo delle scelte urbanistiche, ma del vissuto degli abitanti, delle loro aspirazioni, dei loro desideri.
La facciata di una casa, non solo se questa è un’abitazione indipendente, ma anche se si tratta di un condominio, rivela molte cose di chi la abita, non solo sul piano sociale, ma in molti casi anche sul piano psicologico. La facciata è quello che vedono gli altri, l’espressione “di facciata” ce lo ricorda.
L’involucro esteriore delle abitazioni ha a che fare strettamente con il reddito, ma anche con il buon gusto, il senso estetico, l’educazione, la sensibilità per l’ambiente, il rispetto per gli animali umani e non di ciascun abitante.
Certo, scegliere di stare in un posto anziché in un altro può essere una scelta obbligata – da motivazioni diverse, economiche, sociali, famigliari – ma nella maggior parte dei casi si tratta di una situazione che può trovare soluzioni alternative, con un po’ di buona volontà, di sforzi.
Uno degli aspetti più inquietanti delle esplorazioni urbane che ho fatto finora è l’elevato numero di edifici esteticamente parecchio discutibili costruiti fra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta. Non è una novità naturalmente, ma fa abbastanza impressione che durante gli anni della ricostruzione e del boom si sia persa completamente di vista l’importanza di creare un paesaggio gradevole per sé e per le generazioni future soprattutto nei centri abitati, ovvero dove si vive per la maggior parte del tempo.
L’inurbamento forzato di milioni di persone, l’esodo dalle campagne verso città e cittadine sul piano paesaggistico ha cancellato la varietà e la bellezza di architetture preesistenti, realizzate in un arco di tempo che a seconda delle zone oscilla fra i sei, sette e i cinque secoli.
Nella maggior parte dei casi si è colonizzato il territorio senza alcun rispetto del lavoro e dei sacrifici sostenuti in passato, svalutando e screditando case costruite con tecniche e materiali capaci di offrire calore in inverno e protezione dal caldo d’estate, solo per sostituirle con edifici di pessima qualità sul piano materiale ed estetico.
Sono scomparse cascine, ville liberty, ville ottocentesche o anche precedenti, giardini, orti, parchi, sostituiti da condomini quasi sempre squallidi, visivamente mal composti perché le persone hanno accettato di andarci ad abitare.
La spinta verso i miraggi di benessere ha impedito di vedere quel che comportava questa “sostituzione”. Le villette hanno sostituito prati, brughiere, i condomini hanno riempito parchi, terreni colti e incolti.
In questa frenesia distruttiva, da horror vacui, sono quindi scomparsi edifici appartenenti a classi sociali diverse, la distruzione è stata “democratica”. Non si è infierito solo contro edifici rurali abitati da contadini e abitazioni effettivamente malsane collocate nei quartieri malfamati, o più popolari, ma anche su residenze signorili, lasciate andare in rovina per questioni ereditarie, liti fra famigliari, disinteresse, incuria.
Non sono le grandi città ad aver patito le conseguenze peggiori, non foss’altro per il fatto che in una città ci si aspetta di trovare “cemento” ovunque, anche se c’è modo e modo di distribuirlo. “Le mani sulla città” e tutti i film dedicati alla speculazione edilizia sono incentrati soprattutto sui centri maggiori della penisola.
II problema della cementificazione diffusa e sconsiderata, quella che ha veramente devastato il paesaggio in modo irreversibile, tuttavia, in realtà, riguarda soprattutto i centri urbani medio piccoli, le cittadine di provincia, infestate di villette e condomini che stridono con l’ambiente circostante, soprattutto in presenza di elementi naturali affascinanti (montagne, laghi, colline, mare).
Non si pensa solo alla Liguria, alla riviera romagnola e a tutti gli altri esempi dove ha colpito la speculazione edilizia a scopo turistico, ma alla molteplicità delle cittadine industriali del Nord, nella fascia pedemontana e in pianura, ai poli industriali sparsi per la penisola, con l’indotto di nuove residenze connesse (con in più l’aggravante dell’abusivismo).
Così, sul territorio patrio, allo stato attuale, non c’è zona che si salvi dalle infestazioni di villette, testimonianza concreta delle aspirazioni di promozione sociale dei loro proprietari-committenti. Nessuno di queste persone si è fermato a domandarsi se fosse più bella una cascina restaurata, ben mantenuta o una brutta, squallida villetta, con un giardino striminzito e i nani di cemento sguinzagliati fra l’erba.
In ogni caso, qualora l’abbiano fatto, hanno evidentemente scelto la risposta sbagliata. Questo insieme di brutture permanenti, monumenti all’avidità (da parte di amministrazioni e imprese edili, immobiliaristi), alla voglia di apparire, al senso di rivalsa sociale, al cattivo gusto diffuso, all’ignoranza visiva (degli abitanti) proprio per queste caratteristiche merita di essere messo al centro dell’attenzione e del dibattito.
La questione del consumo del suolo è sempre più spinosa e rivela sempre più la cattiva coscienza delle amministrazioni locali e nazionali, nella maggior parte dei casi si predica bene e si razzola male, la scappatoia si trova sempre nelle opere che coinvolgono molti denari, si scavalcano le valutazioni di impatto ambientale, attraverso escamotage più o meno furbi.
Come se fosse “furbo” devastare il territorio comune che in quanto tale è di tutti, quindi appartiene anche a chi lo devasta. Ma è probabile che questa categoria di personaggi abbia una troppo scarsa percezione della realtà per rendersene conto.