Nel lavorare a progetti di drammaturgia degli spazi, la tridimensionalità dei luoghi reali è al centro dell’attenzione, ma questo non esclude l’importanza dell’uso della carta e della penna, o della matita nei lavori preparatori, così come non esclude la capacità di confrontarsi con l’utilizzo di materiali differenti nella realizzazione di installazioni da parte di chi pensa il progetto.
Poiché sono da sempre stata affascinata dallo spazio, dalla possibilità di agire in esso sono attratta da tecniche sovente diverse, che di volta in volta si adattino al meglio al luogo in cui agisco. Perciò, il primo passo che di solito compio è cercare il materiale più adatto al luogo e al percorso concettuale e progettuale al quale lavoro.
Per quanto mi capiti anche di usare il pennello, in linea generale, non posso certo dire di essere interessata in modo specifico alle problematiche della pittura da cavalletto, né a quelle della scultura tradizionalmente intesa. Il legame con il colore può svilupparsi in modo differenti, così come le preferenze per un dato elemento, colore o materiale.
Preferisco piuttosto utilizzare strumenti e dispositivi di volta in volta diversi, a seconda del progetto al quale lavoro. Scelgo tecniche diverse per adattarmi al contesto, sia in senso pratico (non sempre si possono trasportare materiali ingombranti), sia in termini concettuali.
Per esempio, negli ultimi lavori di drammaturgia montana, realizzati per il progetto “Nidi, nodi. Fluidi” attualmente aperto in sei Comuni della Valsesia, curato da Gabi Scardi, sto esplorando le possibilità date da un materiale povero e fragile: la carta velina.
Si tratta di un supporto adatto ad essere trasportato, richiede davvero poco ingombro, al contempo mostra in sé un’apparente delicatezza. In realtà si può lavorare anche con le tempere seppure con qualche accortezza nell’utilizzo ed è abbastanza resistente da poter essere cucito e sfogliato dalle persone.
La tempera su carta o eventualmente su tela non intelaiata costituisce uno dei mezzi che adopero per le installazioni più impegnative, dal punto di vista di stabilità e durata, soprattutto in allestimenti pensati per essere fruiti in modo articolato nello spazio. Non mi interessa produrre “quadri” che sento troppo circoscritti e legati alla bidimensionalità, preferisco invece creare installazioni che prendono vita anche a contatto, o per intervento dei visitatori. In alcuni casi, infatti, mi piace predisporre lavori interattivi.
L’installazione è direttamente legata allo spazio in cui è collocata, vive in quello spazio specifico. La specificità, il fatto che un’opera possa dialogare con l’ambiente circostante e con i fruitori in un preciso contesto è un elemento indispensabile, dal mio punto di vista, nel momento in cui mi occupo di drammaturgia degli spazi.
Individuare lo spazio, pensare ai rapporti con chi lo frequenta e lo vive, sono le azioni preliminari che precedono la selezione del materiale più adatto, il punto di vista da cui osservare e proporre un lavoro. Il passo successivo è annotare idee, intuizioni a matita, o con qualche intervento a colori, nei casi nei quali l’impatto cromatico viene si ritagli un posto di rilievo nella pianificazione del lavoro..
Per questi motivi resto piuttosto perplessa quando mi si dice che in alcuni licei artistici e in qualche Accademia tendano a scomparire dall’orizzonte visivo la copia dal vero, l’uso della matita, del carboncino, della carta da spolvero, a favore dell’onnipresente schermo di un pc con tavoletta da disegno.
Perdere la capacità di osservare la realtà e riportarla su un pezzo di carta è grave, perché si privano futuri professionisti dell’abitudine all’osservazione, alle proporzioni, all’utilizzo e alla scelta dei punti di vista dai quali osservare il mondo. Senza contare che lo stile passa dalla singolarità personale di esprimere con il segno – legato al pensiero – il mondo interiore del progettista, unitamente alla lettura del reale che propone.
Il pc è solo uno strumento, incapace di restituire la complessità del segno, della pressione, delle scelte legate a carte, supporti, pennelli, matite, grafite, colori in polvere o in tubetto (siano tempere, olio, acrilici), molto più adatto per la scrittura e la grafica. Ovvero per attività dove non è richiesta l’unicità del segno.
Da una parte la pittura da cavalletto offre possibilità molto ridotte in termini di rapporto con lo spazio rispetto alle installazioni, ma dall’altra in un contesto dove da decenni, è messa in discussione uno dei tratti caratteristici del lavoro artistico, ovvero l’unicità del gesto e del tratto (dalla pop art, al minimalismo), il ricorso al pennello è una risposta alla standardizzazione dei disegni realizzati al pc con la tavoletta, o con il tablet.
Sarebbe piuttosto “imbarazzante” dover tornare a occuparsi di pittura da cavalletto per ribellarsi all’omologazione sempre più invasiva, all’appiattimento brutale imposto dalle multinazionali della Silicon Valley…anziché cercare di muoversi in un ambito più complesso, come quello offerto dalla tridimensionalità degli spazi urbani, montani, marittimi…antropizzati o disabitati, dalla complessità dei rapporti fra abitanti e luoghi.
Spero che le persone con inclinazioni innate verso il disegno e creatività si rendano presto conto che l’intelligenza artificiale soppianterà molto presto tutti quei lavori omologati che il pc sa fare perfettamente meglio degli umani. Per questo usare il tablet, o la tavoletta collegata al pc per disegnare è molto pericoloso per chi si avvicina al mondo dell’arte da studente.
E’ una scorciatoia che porta dritto dritto fuori strada, ovvero all’esclusione dal contesto in cui gli studenti dei licei artistici e delle Accademie vorrebbero invece entrare! Questo è un paradosso che sarebbe opportuno spiegare immediatamente a ogni allievo. Prima si libera il cervello dalla schiavitù elettronica meglio è per le sinapsi e la creatività. Occorre pensare a dispositivi e soluzioni a bassa tecnologia e ad alti contenuti, anziché il contrario.