Alberi-radici-cortecce

E’ trascorsa un’altra settimana e nel proseguimento della residenza artistica a Rassa ho avuto modo di fare alcune riflessioni attorno ad alcuni punti chiave. Uno di questi è la differenza nella considerazione degli elementi naturali e in particolare degli alberi fra chi vive in città e chi abita in un piccolo borgo alpino.

 Gli alberi in città abitano nei parchi, crescono lungo i viali, nella maggior parte sono stati piantati da umani, coltivati, potati, o abbattuti quando gli amministratori giudicano per svariati motivi che “danno fastidio”, o rappresentano un pericolo per l’incolumità pubblica. Sono presenze ornamentali, fanno ombra dove serve (o dovrebbe servire, un paio di mesi fa sono stata in un parco fuori Milano dove gli alberi sono stati piantati al contrario rispetto al passaggio del sole, così che nelle ore più calde l’ombra sia dalla parte opposta del sentiero….complimenti al direttore dei lavori).

I cittadini, dal canto loro, hanno rapporti con gli alberi più o meno buoni, a seconda della sensibilità personale e della lungimiranza rispetto al cambiamento climatico (non foss’altro perché producono ombra vitale nei mesi estivi sempre più caldi), li possono considerare creature da proteggere, da amare, o al contrario elementi di ostacolo alla vista, o pericolosi, in quanto possono abbattersi al suolo in caso di maltempo, travolgendo ciò che incontrano sul loro percorso.

In montagna, ho notato durante le domande che ho rivolto ai residenti, gli alberi sono innanzitutto l’espressione di identità culturale, in particolare presso i discendenti delle antiche popolazioni Walser – il larice è in questo caso il loro nume tutelare e la maggior parte degli intervistati lo eleggono loro albero preferito.

Il rapporto preferenziale e affettivo che instauriamo con un tipo di albero dipende in modo evidente dal contesto paesaggistico e climatico di residenza. Se in un Comune tipicamente di origine Walser come Alto Sermenza, l’albero più gettonato è stato il larice, eletto con una sorta di plebiscito come il preferito, a Rassa la situazione è radicalmente cambiata.

Non solo. Gli alberi, in montagna, sono considerati nella loro funzionalità assoluta, come materia prima per riscaldare le case e per costruirle.

Abbiamo attraversato la Val Grande e ci siamo spostati sulla sponda opposta del Sesia, all’interno della Val Sorba dove sorge il piccolo paese di Rassa (917 metri s.l.m.). La maggior parte della popolazione qui non è di discendenza Walser, o quanto meno, c’è una convivenza/stratificazione di origini e culture. Questo cambiamento emerge in modo abbastanza evidente proprio anche attraverso la scelta degli alberi preferiti.

A Rassa, le risposte riguardo questo punto sono state molto variegate, con una bella rosa di tipologie di alberi, dove fanno la loro comparsa anche specie “esotiche” (cedro del Libano) suggerito da un villeggiante di lungo corso. Il larice è presente, certo, ma non è il preferito in assoluto, compaiono invece molti altri nomi (abeti, betulle, pini, faggi, noci, ciliegi, castagni), con una preferenza accordata al faggio.

Il suo legno infatti è, come noto, fra i più pregiati e durevoli per riscaldare le case. Legna da ardere, legna da camino, il faggio è così visto come un elemento fondamentale nell’uso pratico quotidiano. Ciò non significa che gli abitanti considerino gli alberi esclusivamente una “merce” indispensabile, un mero dispensatore di combustibile.

Il rapporto affettivo con i faggi vivi, nei boschi è sempre molto forte, dove emergono anche il senso di rispetto e di ammirazione. Camminare in un bosco di faggi è un’esperienza che permette di percepire in modo diretto l’energia di queste creature, questo emerge nelle considerazioni della maggior parte dei residenti

Si può così osservare una convivenza contrastante e dialettica fra un atteggiamento di utilizzo funzionale degli alberi e di uno affettivo-emozionale. D’altra parte, la presenza dei boschi a Rassa è un elemento caratterizzante per il territorio e per lungo tempo anche un fondamentale punto di riferimento per l’economia locale.

Una testimonianza della centralità degli alberi sul piano economico è data dalla presenza della Segheria, ora parte della realtà ecomuseale. Si tratta di una struttura di archeologia industriale perfettamente conservata, visitabile su appuntamento, ubicata lungo le rive del torrente Sorba.

Data l’importanza di questo genere di attività per il sostentamento delle famiglie locali  ritengo altrettanto “necessario” pensare che anche la mia progettazione debba tenere conto di queste premesse nella fase della realizzazione pratica, sia sul piano logistico, sia nel processo creativo vero e proprio.

In questo contesto, ho anche fatto conoscenza in questi giorni con una serie di oggetti in legno estremamente affascinanti dal mio punto di vista. Si chiamano “careji” (carel al singolare), specie di navette di legno utilizzate per fermare le fascine, i basti dei muli e, in generale, tutto quello che ha la necessità di essere raccolto, tenuto insieme, legato in modo reversibile, ma saldo.

Questi piccoli oggetti, di dimensioni variabili comprese fra i sette e i quindici centimetri circa,  sono ricavati da essenze diverse di legno, realizzati a mano e talvolta impreziositi da decorazioni, iniziali pirografate. Li ho scoperti durante uno dei sopralluoghi + scambio di idee con Renato Calzino (attuale vicesindaco di Rassa e un supporto fondamentale per il mio lavoro in questi giorni) e sono stata folgorata dalla loro bellezza, semplicità, pulizia di forme e significato simbolico: tenere insieme, ma in modo reversibile e regolabile.

La loro presenza e la loro scoperta ha influito in modo determinante sulla produzione delle installazioni, perché mi sono stati di grande aiuto, sono diventati elementi imprescindibili, ricchi di potenziale. In sostanza li ho adottati e promossi sul campo a personaggi-chiave.

 

 

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