Il consumo del suolo non è un concetto stabile e “oggettivo”. Si evolve nel tempo ed è influenzato da fattori economici, da grandi e piccoli gruppi privilegiati detentori del potere economico in quel momento, in una zona, in un dato territorio. Questi gruppi sono orientati a tutelare i propri interessi economici che, di rado, coincidono con il bene pubblico.
Durante alcune ricerche preliminari in occasione della partecipazione a una residenza artistica montana la scorsa estate ho scoperto, per esempio, che ci sono state campagne denigratorie contro le capre, durante gli anni dell’Illuminismo, del periodo napoleonico e durante il fascismo.
In questi periodi, emerge una netta ostilità verso le capre, imputate di essere grandi “consumatrici di suolo”, ritenute responsabili di rovinare i pascoli, danneggiare la proprietà privata.
Fra Sette e Ottocento, si avvia una vera e propria campagna denigratoria, basata su “calunnie” diretta contro i caprini stanziati sulle Alpi, considerati creature capaci di danneggiare in modo irreversibile e pericolosissimo il suolo, nonché di mordere gli umani con esiti fatali, posto che il loro morso viene equiparato a quello delle vipere.
In realtà, ciò che si desidera tutelare sono gli interessi dei ricchi proprietari di allevamenti bovini, molto più remunerativi di quelli ovini e caprini, data la produzione di carne, latte e derivati, nonché le attività minerarie e le industrie di legname. La produzione casearia bovina ha, infatti, scalzato quasi del tutto nel corso del XIX e del XX secolo quella caprina.
La capra diventa un “capro espiatorio”, a causa di interessi economici, contrapposta agli animali “buoni”, perché più redditizi: gli ovini appunto (per la produzione di lana) e i bovini.
Attraverso una campagna denigratoria, basata su accuse pseudoscientifiche, lungo l’arco alpino ovini e bovini soppiantano i caprini, fino a spingere quasi all’estinzione alcune razze autoctone (fra le quali la capra orobica, o la capra Sempione). La Valtaleggio, per esempio, è rappresentativa della “sostituzione” a fini economici di una specie con l’altra.
Durante il fascismo, nel 1928, è pubblicato un editto contro le capre, sulla Gazzetta Ufficiale che prevede una forte tassazione su ciascun capo, con la giustificazione che questi animali siano la causa prima dell’erosione del terreno, senza distinzioni regionali, accomunando situazioni di degrado del suolo presente in alcune zone del meridione con le condizioni molto diverse del terreno presenti sull’arco alpino.
La “scomunica” delle capre per fortuna in questi ultimi anni è progressivamente decaduta: ora si considerano custodi dei pascoli, in quanto li “puliscono” da piante infestanti.
Da una ventina d’anni, ormai, le capre sono considerate dagli studiosi del settore paesaggistico e del territorio vere e proprie protettrici del suolo nell’arco alpino; dal punto di vista nutrizionale è ormai assodato che il latte caprino sia molto più digeribile e abbia una quantità inferiore di colesterolo di quello vaccino, di conseguenza anche i formaggi di capra sono più apprezzati (anche perché sono buonissimi).
C’è un altro aspetto fondamentale da considerare. Al di là della bassa redditività, o dell’identificazione della capra con l’elemento dionisiaco e demoniaco, sfruttate per screditare questi animali, un elemento di forte disturbo in relazione alla presenza delle capre era identificato nella loro tendenza a usare terreni altrui, a sconfinare fuori dal territorio, a usare risorse demaniali, o di proprietari terrieri.
Non solo. L’odio era incrementato dal fatto che i proprietari delle capre erano di solito le famiglie più miserabili del paese, le quali, non possedendo terreni propri, lasciavano che questi animali vagassero liberamente e quindi di fatto mettessero in discussione la proprietà privata, uno dei fondamenti della società borghese capitalistica, in contrapposizione alle tutele delle antiche tradizioni di solidarietà delle comunità montane.
Con la serie di lavori dal titolo “Dove sono le capre?”, sviluppate dal progetto-sorgente “Vuoti d’erba” (un percorso drammatico in Quattro Atti/Azioni) concentro specificamente l’attenzione su questa essenza sconfinante delle capre, sulla loro indipendenza e intraprendenza di scalatrici infaticabili dei territori più impervi delle Alpi.
In occasione del Premio Lissone di Pittura, organizzato dal Museo di Arte Contemporanea di Lissone, diretto da Francesca Guerisoli e alla mostra connessa alla quale partecipo nella sezione “Gran Premio” (per artisti mid-career), curata da Gabi Scardi e Noah Stolz, ho pensato di enfatizzare proprio l’essenza sconfinante e imprevedibile delle capre.
Ho organizzato un percorso a sorpresa, dove dieci esponenti di razze caprine tipiche dell’arco Alpino si sono avventurati fra i diversi piani della mostra. Potete quindi incontrare ritratti eseguiti a tempera su tela non intelaiata, degli esemplari più diffusi, come la capra camosciata delle Alpi, o quella alpina, rari (Frisa, Lariana, Nera di Verzasca, Valdostana, Colombina) o molto rari (capra Orobica, Sempione, Bionda dell’Adamello).
La mostra è aperta da sabato 13 maggio dalle ore 18.00 al 17 settembre.
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Il Giornale dell’Arte