Durante i dialoghi con gli ospiti nei primi due anni di attività di questo blog e le conversazioni di lavoro mi sono resa conto che in ambito artistico alcune parole “innocenti” del contesto teatrale generano fastidio, sdegno, imbarazzo.
Parole che sono considerate dall’interlocutore come un’entità molto sospetta, di solito perché identificate da costui o da costei come un derivato o un prodotto legato a qualcosa di “vecchio”, “abusato”, scontato, trito e ritrito.
Ho così scoperto, per esempio, che parole “neutre” come “Personaggio” o “Drammaturgia” sono percepite da alcuni operatori teatrali e delle arti visive come etichette da consegnare al robivecchi. I medesimi, spinti da interpretazioni personali,
li interpretano come elementi stantii, parte di una tradizione percepita come morta.
Mi chiedo quindi – e sarebbe interessante chiederselo in generale – da dove origini questo “odio”. Ho provato a darmi alcune risposte, ma lascio le possibilità aperte anche ad altre. Fra le ipotesi che mi sono venute in mente c’è un problema legato alla formazione, al tramandare notizie e saperi.
Forse durante il percorso accademico queste persone hanno interagito con insegnanti incapaci di veicolare il giusto valore di queste parole e l’interpretazione delle medesime, alla luce della cultura e del contesto di appartenenza.
L’idea di ritenere “fuori moda” alcune parole-chiave universali o quasi, alla base della teatralità stessa, quali appunto i termini “personaggio” e “drammaturgia” – come se fossero incapaci di indicare situazioni e significati applicabili a qualunque contesto contemporaneo teatrale ed extrateatrale – è bizzarra.
Ma è anche inquietante, poichè ciò mostra quali siano gli effetti collaterali di un teatro avvizzito e rinsecchito, fondato principalmente su lavori di repertorio come quello italiano.
Così, in questo contesto, capita di pronunciare la parola “personaggio” e il pensiero di alcuni intervistati corre subito al teatro pirandelliano e all’inflazione dei suoi relativi allestimenti all’interno dei cartelloni italiani. Così che sia poi difficile per queste persone sentirsi liberi di spaziare nelle definizioni, “depurate” dalle “sovrastrutture” o piuttosto dalle incrostazioni interpretative.
Anche la parola “drammaturgia” è identificata in molti casi nella sua accezione più stretta e riduttiva, di costruzione di testi teatrali pressoché in linea con i canoni della pièce bien faite. Se per chi si occupa di ricerca, in teatro, o in altri campi artistici, il tempo sembra essersi fermato ai primi del Novecento, ovvero a un secolo fa, a causa di un fraintendimento, disceso dall’ostilità verso un modo di allestire effettivamente antiquato, non è un bel segnale.
Dal mio punto di vista le parole “personaggio” e “drammaturgia” acquistano, invece, un significato molto più ampio, senza alcun legame con regole, schemi, riferimenti storici, posto che mi interessa esplorare uno spazio ibrido, esterno ed estraneo alle convenzioni del teatro vero e proprio. Altrettanta libertà di definizione ha il termine “spazio”.
Nella produzione di progetti di drammaturgia degli spazi la “finzione”, la “rappresentazione”, la mimesis sono assenti, perché si esplora e si entra in contatto con persone e luoghi veri. Al centro dell’attenzione sono posti le problematiche, i nodi della società contemporanea, le contraddizioni, le relazioni, i rapporti di potere fra le persone, le loro azioni, le loro storie. Ci sono gli spazi e i suoi abitanti. Non si “fa finta di”.
Non ci sono effetti di luce e colpi di bacchetta magica per stupire il pubblico ed “emozionarlo”, gli eredi diretti dei concetti elaborati dai gesuiti seicenteschi sono assenti.
In Italia un altro effetto collaterale dell’ossessione per la tutela della tradizione a ogni costo, o se si preferisce, per la fobia del nuovo, è il potere assoluto attribuito al teatro di regia che annulla la creatività autoriale, nonché il senso di responsabilità artistica, sostituiti da esercizi di stile su misura dell’ego dei registi.
Dietro questi atteggiamenti emerge la pavidità dei direttori artistici, terrorizzati all’idea di perdere l’incarico se gli introiti calano perché le sale si svuotano, nonché quella dei registi poco propensi al rischio di trasformarsi in autori.
A causa di questa mal gestita presenza della “Tradizione”, e sottolineo mal gestita, la parola stessa “teatro”, in un campo limitrofo come l’arte visiva diventa sinonimo di qualcosa di mortifero e artificioso.
Al contrario, in teatro l’immaginario dell’arte contemporanea si trasforma troppo sovente in “arredo” di scena; traveste l’incapacità di rinnovare i cartelloni con citazioni di artisti le opere dei quali si trasfigurano in scenografie alla moda “contemporanea”.
In quest’ottica di idiosincrasie personali scambiate per dati di fatto, si arriva facilmente alla difficoltà di accettare e di capire che ci si può esprimere con linguaggi diversi, techiche diverse, si può trasmigrare da un genere artistico ad un altro se si hanno le competenze per farlo, senza che questo pregiudichi la qualità del lavoro.
Non ci sono generi “alla moda” o “stantii”, ma persone che usano quei generi in un modo prevedibile e scontato. Il problema non sono i generi in sé, ma coloro che li propongono e li usano senza rinnovarli, senza adattarli al proprio contesto, senza in sostanza appropriarsene in modo critico e consapevole.