Fra i diversi settori di ricerca che caratterizzano i lavori di Emilio Fantin (Bassano del Grappa il 22 maggio 1954), dedichiamo una particolare attenzione a quello riguardante i rapporti fra luoghi e persone, in particolare in alcune opere-chiave che possono essere incluse in una ricognizione della drammaturgia degli spazi e, nello specifico nell’ambito della drammaturgia rurale.
Soprattutto poiché l’artista considera lo spazio come un luogo di relazioni, un nodo dove avvengono scambi e interazioni fra persone, anziché una dimensione “assoluta” e astratta, ci troviamo d’altra parte a considerare le opere di un autore strettamente legato all’arte relazionale.
“Trekking dell’arte”
Formatosi all’Accademia di Belle Arti di Bologna (città dove vive), ci sembra interessante mettere in luce l’attenzione mostrata da Emilio Fantin innanzitutto verso il territorio in cui vive e agisce, fin dal “Trekking dell’arte”, realizzato il 22 novembre 1992, sui colli bolognesi, nonostante la carriera internazionale che lo contraddistingue.
La “passeggiata” organizzata in collaborazione con la galleria Neon di Bologna si realizza grazie alla partecipazione di un centinaio di invitati costituiti da artisti e critici, ovvero addetti ai lavori nel campo dell’arte contemporanea.
L’idea di base era quella di intrecciare relazioni fra i diversi individui per dare vita a eventuali nuovi progetti, interventi, stimolare incontri e mescolare energie. In particolare “con l’intento ci modificare i rapporti comunicativi nell’arte e il ruolo del pubblico.” come chiarisce l’artista stesso. Il fatto è che queste relazioni non sono cercate in una dimensione cittadina, nella quotidianità degli spazi urbani, bensì in quelli naturali fuoriporta.
Infatti l’idea di unire in un’esplorazione di una zona collinare, con una vista esteticamente appagante, diverse individualità, solitamente chiuse nei propri studi (e ancora più sovente in competizione più o meno accesa), apre una catena di relazioni e di modi nuovi di guardarsi attorno, anche a livello letterale.
Nel senso che i partecipanti al trekking raggiungono un punto panoramico e possono osservare dall’alto, a perdita d’occhio la pianura ai loro piedi, grazie anche alle condizioni favorevoli sul piano meteorologico, nonostante la stagione.
“Vi era un sole quasi irreale, luminoso e caldo allo stesso tempo, quasi un miracolo, se si pensa come le normali condizioni meteorologiche novembrine dovrebbero dispensare piuttosto nebbie e freddo…” (Renato Barilli)
Non si tratta quindi di estraniarsi dalla città, semplicemente per andare a vedere un bel panorama, o di fare una gita fuoriporta, fini a se stessi. L’idea di “assemblare” un numero cospicuo di persone e di orientare i loro percorsi verso una meta precisa, di impiegare tempo a raggiungerla, si intreccia con la possibilità di dialogare mentre si cammina, confrontarsi mentre si osserva il paesaggio in una dimensione di “gruppo”, di comunità e di comunità piuttosto numerosa per il luogo dove quest’ultima si dirige.
Significa cogliere associazioni di pensiero suggerite dalla presenza di più elementi in uno spazio aperto, lontano dalla città e vicini alla natura, rappresentata in questo caso da un paesaggio molto dolce e morbido. D’altra parte il trekking non è stato organizzato in un ambiente alpino. L’idea della passeggiata nell’orrido o nel sublime romantico, nel contatto con la natura nella sua dimensione estrema è estranea a questo contesto.
Non la piazza di città, non il parco cittadino, non la montagna aspra e faticosa, ma una piacevole e panoramica passeggiata condotta su un territorio famigliare e “innocuo”, mentre si parla con colleghi noti o sconosciuti, si condividono idee, fuori dall’assordante traffico urbano e dallo smog. Senza nemmeno indulgere nella dimensione di “isolamento” bucolico, posto appunto l’alto numero di partecipanti che annula di fatto la possibilità di un dialogo più intimo e introspettivo con la natura.
Il “Trekking” di Fantin, come in generale le sue opere pongono moltissime questioni e si mostrano complesse e in realtà meriterebbe un’analisi più accurata di quella che dedichiamo in questo momento.
I fondi per il progetto sono stati raccolti grazie alla vendita di cinque opere degli artisti-trekker, chiuse in uno zaino. Si potrebbe dire “arte da viaggio”, dove chi compra si accolla il “peso” del lavoro sulle spalle e lo porta potenzialmente in giro. Arte viaggiante.
Pausa
Rispetto alle evoluzioni successive della ricerca artistica di Fantin, in quegli anni (“Arrivederci Roma”, “Atto di Assenza”) l’elemento “viaggio” compare insieme ai concetti di “pausa”, di “tempo” e di spostamento del punto di vista, del contesto in cui si agisce d’abitudine. Il viaggio in sé, d’altra parte rappresenta tutto questo in modo metaforico.
In “Arrivederci Roma” (1992) l’artista chiede a una hostess di presentare tre viaggi con differenti mezzi di trasporto, in aereo verso New York, in treno verso una città europea, in taxi nella dimensione notturna.
Non solo, il percorso da una parte all’altra dei colli bolognesi evoca anche la dimensione di “pausa”, di allontanamento volontario dalla fitta e densa trama di rapporti che contraddistinguono gli abitati densamenti popolati, le città.
Si tratta di una dimensione dove può essere condotta un’attività introspettiva, ma in questo caso è tutt’altro che solitaria, sono infatti coinvolte molte persone, come scrivevamo sopra.
Tuttavia, a ben guardare, poiché non si tratta di una folla eterogena – molto diversa quindi da un gruppo turistico tradizionale – ma di persone che svolgono la stessa attività (ovvero la pratica artistica) la natura di questa presenza multipla crea una condizione particolare.
Si tratta di una “moltiplicazione” del punto di vista delle singole individualità in meditazione, potenziata grazie alla presenza di individui che condividono scelte di vita molto forti e complicate, come quelle legate all’esercizio di progetti artistici, specie in Italia.
All’artista che riflette solitario, Fantin contrappone almeno per una volta un gruppo-comunità di artisti che si inerpicano tranquillamente sui colli bolognesi, confortati da una brezza autunnale e da un sole che piacevolmente li accompagna e li illumina.
La problematica della “pausa” torna declinata in altro modo in “Atto di assenza” (1994) per ArtBasel . In questo caso una chaise-longue schermata da un paravento ospita chi desideri fare una pausa durante la fiera, in dotazione sono previsti anche mascherina e occhiali.
Altre opere, fanno riferimento alla pausa, al riposo e allo stato mentale, come: “Il Modo” e “Pensare, Volere, Sentire” del 1996, composte rispettivamente da dodici e da tre sedie a sdraio.
(Continua)