Dopo queste riflessioni sullo spazio, salto a raccogliere le opinioni circa il personale significato attribuito ai concetti di “trama” e “intreccio”, anche in senso non necessariamente teatrale.
Prende la parola Riccardo:
“Una parte di me è molto affezionata all’idea della trama, perché in qualche modo sia nel lavoro sia nella vita, in quanto esseri umani, siamo portati a scoprire, a cercare anche dove non c’è un nesso causale tra le cose, il senso, le ragioni, le conseguenze.
Il luogo della trama, dell’intreccio, da un certo punto di vista, è confortevole, perché ti rimanda all’idea di causalità, di consequenzialità. In realtà, mi sembra che la vita ci insegna che siamo in balia non della causalità, ma della casualità, di una relazione tra gli eventi che assomiglia di più all’idea di sincronicità, per come la intende Jung.
Questo mi interessa molto di più in questo momento, rispetto al concetto di dramma e di intreccio tra elementi che si sviluppano causalmente. La fisica quantistica dice che tutto è collegato attraverso una costante vibrazione che mette in relazione ogni cosa e quindi le cose possano risuonare anche a distanza.
Mi piace più immaginarci come parte di una trama simile a quella di un tessuto, di un tappeto dove tutti i punti sono collegati tra di loro da linee che non mettono le cose in fila secondo l’ordine di importanza, o di obiettivo.
La drammaturgia oggi si sta interrogando e sta mettendo in questione il fatto che si possa costruire una struttura drammaturgica secondo certi canoni, quando la vita intorno a noi sempre più sta dimostrando che non è così.
Sono molto affezionato a questioni come il crescendo, gli acmi. Allora mi chiedo come preservare quella dimensione e una forma di trame di intreccio più orizzontale. E’ possibile non mettere in fila le cose, non ordinarle secondo un criterio di causalità di importanza, di finalità?
Prima Claudia parlava delle “Tre sorelle”: è una maniera più queer e femminile entrare in relazione con il mondo senza pensarlo sempre come una serie di obiettivi da raggiungere ma come una serie di elementi che convivono e con i quali poter divertirsi, entrare in relazione con modalità diverse, inedite, inaspettate.
Alla fine la parola stessa, trame ci rimanda a una dimensione orizzontale di tessiture. Mi viene in mente il gioco dei fili che si fa con le mani, dove ogni movimento produce qualcos’altro, completamente inaspettato, legato al gesto che fai, impossibile da prevedere. Si creano sempre figure nuove a seconda dei movimenti.
A questo tipo di intreccio mi sembra si riferisca anche Donna Haraway riguardo a queste figure di fili che producono immaginazione, visioni e che sono sempre una scoperta a seconda di come li muoviamo.”
Chiedo a Riccardo di parlarmi del rapporto con il pubblico.
“Il pubblico siamo noi stessi. Facciamo questo lavoro per creare in noi stessi uno stato emotivo più alto e più caldo rispetto a quello della vita, quindi il primo pubblico siamo noi.
Siamo noi i primi che vogliamo creare mondi che ci emozionano. Per noi l’idea di emozione o comunque di relazione sensibile, è molto importante, è il primo modo. Il concetto e la razionalità arrivano sempre dopo.
Siamo noi che come spettatori di quello che produciamo, anche in prova, dobbiamo emozionarci, cioè sentire, renderci conto. Il tentativo è quello di creare lavori dove la dimensione estetica cessa di essere la questione principale.
Quest’ultima diventa invece l’aver passato del tempo con qualcosa che ti ha spostato emotivamente rispetto all’abitazione quotidiana dello spazio, del tempo. Qualcosa che ti proietta in una dimensione emotiva, sentimentale, sensibile altra.
Mi sento parte del pubblico mentre lavoriamo, quando lo vediamo. A volte sento il pubblico più vicino degli altri artisti con i quali collaboriamo. Faccio tanta fatica oggi a utilizzare la parola “pubblico”. Preferisco il termine “singoli”, nel senso di “singole identità che entrano in relazione”, perché è sparita l’idea di collettività.
Esistono comunità sparse. Il teatro continua ad attivare relazioni uno a uno. I migliori spettacoli riescono a fare una cosa straordinaria, parlano al singolo individuo, all’essere umano. Le idee di comunità, di cerchie cominciano a starmi molto strette.
Secondo me, la crisi in cui si trova l’arte deriva dall’aver creato troppo spesso riserve indiane di riferimento. Invece, credo molto nella mescolanza dei pubblici, degli spettatori. Il pubblico dell’arte contemporanea, quello del teatro, del cinema continuano incredibilmente a essere distanti e separati.
Da spettatore mi emoziono quando incontro un’opera che mi fa sentire parte di un tutto più grande e al contempo mi parla direttamente, in maniera molto personale.In generale, tutto quello che facciamo avviene perché incontri un pubblico, altrimenti sarebbe un gesto non fertile, narcisistico, pensare che basta farlo per sé.
Noi crediamo che cadiamo in una profonda depressione ogni volta che non viene concesso il tempo a un lavoro e il modo di incontrare più pubblico possibile. Si tratta di una questione fondamentale sulla quale dovrebbe responsabilizzarsi tutto il sistema del teatro italiano, dal ministero fino all’ultimo dei teatri comunali.
Ovvero, come ricreare in maniera forte la necessità di questa relazione tra il teatro, – da sempre un luogo profondamente politico nel senso bello – e la sua comunità di riferimento?
Sempre di più, dopo la pandemia, si percepisce la fatica di far uscire le persone da casa, di portarle in un teatro. Sono profondamente grato a tutte le persone che decidono di compiere questo gesto che fa fatica, perché ha un costo economico e anche questa è una questione. Da artista sento la responsabilità di dover rivolgermi il più possibile a chiunque.”
Siamo alla fine del dialogo e chiedo ai nostri ospiti di condividere qualche riflessione attorno al concetto di personaggi e di quel che rappresentano, di quel che sono per loro.
Riccardo pensa sia “una parola che si incontra raramente” e che la mia domanda sia “interessante perché ruota attorno a un termine che non usa più nessuno”, quindi decide di consultarsi con Claudia e di elaborare insieme le riflessioni.
“Il teatro di Roma ci aveva chiesto di sviluppare un percorso che fosse sia laboratoriale sia avesse un esito con gli allievi della scuola di perfezionamento dell’Accademia del Teatro di Roma sui “Sei personaggi in cerca d’autore” al Teatro Valle, dove lo spettacolo debuttò.
Ora, questo luogo da qualche tempo è un teatro fantasma, vuoto, utilizzato di rado per ospitare mostre, più mortifere rispetto allo spettacolo dal vivo.
Sul palcoscenico del teatro sembrava di essere circondati dai fantasmi del luogo, di parlare dei fantasmi di Pirandello. Il lavoro ruotava attorno all’idea di confessione, su quello che si può dire, o non dire a teatro, sullo scandalo dei sei personaggi, la sincerità più profonda messa a nudo, della meccanica teatrale, delle tematiche affrontate.
Per esempio l’incesto. Così abbiamo smembrato il testo e ci siamo concentrati sull’idea di confessione e ogni ognuno degli attori ha sentito che la sua identità risuonava maggiormente in relazione a un determinato personaggio.
Così, con ognuno di loro abbiamo scritto, composto una drammaturgia non di monologhi, ma di vere e proprie confessioni di trenta minuti l’una, dove il testo di Pirandello si mescolava a una loro riflessione.
Una persona diventa personaggio nel momento in cui la metti dentro una determinata cornice e viceversa, quindi è una questione di cornice più che di differenza effettiva tra personaggio e persona.
Credo che la ricchezza del teatro, rispetto al cinema è che si stia riflettendo tanto su questo, come sulla questione dell’autofiction forse anche addirittura un po’ superata.
Con tutta evidenza, in questo caso la parola “personaggio” è un nervo scoperto nella concezione teatrale dei nostri ospiti ed evidentemente soprattutto di colleghi da loro frequentati. Quello che mi colpisce in particolare è l’idea/concetto di legare un termine fondamentale quale quello di “personaggio” a un termine che “non usa più nessuno”….Mi piacerebbe sapere chi sono questi teatranti che rinnegano questa parola, perché la situazione mi pare paradossale e meriterebbe di essere approfondita.
Non penso che il concetto di “personaggio” sia dipendente da una moda, da un’abitudine, o che riveli l’essere più o meno “all’avanguardia”, o in retroguardia. Piuttosto mi sembra che l’istinto a identificare il termine con un modo di fare teatro polveroso e “vecchio” diventi una specie di rito scaramantico di chi si occupa di teatro contemporaneo con l’ossessione di fare terra bruciata di tutto, anche di termini basilari fraintesi a causa di “incrostazioni” accumulatesi negli anni e idiosincrasie personali. In realtà il personaggio esiste appunto non appena c’è una “cornice” e un qualcuno che osserva, guarda, ascolta una storia. Anche fuori dal teatro. A maggior ragione dentro….
Formulo l’ultimissima domanda e chiedo quali siano gli autori di riferimento, i pensatori, o gli artisti, che abbiano fatto fare loro “click”.
“Ogni volta che lavoriamo su un progetto ci sono incontri con le persone con le quali collabori e con gli autori che ti fanno fare clic è la bellezza di mettersi a lavorare su qualcosa, anche di lontano.
Ogni volta che entriamo in un percorso, in un progetto artistico, il lavoro di ricerca porta a nuove scoperte da questo punto di vista. La dimensione di avere qualche nume tutelare stabile, fisso appartiene a un’età della vita diversa.
Se mi avessi fatto questa domanda dieci anni fa ti avrei detto il cinema di Kubrick. Ci sono figure che continuano a essere sempre care, come vecchi amici, una me la porto appresso da quando avevo dieci anni ed è Ray Bradbury, un compagno, un vecchio nonno che mi accompagna con la sua visione stupefacente del mondo.
Lavorando su Sonora Desert, abbiamo incontrato Baudrillard, con i discorsi sull’iper realtà e il volumetto “America”, contenente il racconto del suo viaggio e della sua scoperta degli Stati Uniti. Ci ha aperto una visione incredibile proprio sul concetto, sull’idea di sparizione.
I nostri riferimenti vengono quasi tutti dalla letteratura, a livello di incontri, di innamoramenti, di stupori. Facciamo molta più fatica a trovare riferimenti nel cinema, nelle arti visive, o nella fotografia rispetto a quanti ne troviamo nella letteratura, anche se magari gli esiti del nostro lavoro non sono così letteraria.
Jack London è un altro autore, che almeno personalmente mi ha sempre dato tantissimo. Ci sono questioni provenienti dal 900 che ci risuonano ancora molto. Per tornare di nuovo al concetto di trama: ci sono intrecci di relazioni che non sono decise a priori e siano in un momento in cui ci piace scoprire ogni volta che lavoriamo su un progetto possibili nuovi incontri e possibili nuovi innamoramenti.”