Storie e Personaggi degli spazi abitati proposti da Sonia Arienta
Muta Imago. Drammaturgia di situazioni. II
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La prima puntata del nostro dialogo con Muta Imago, si è incentrata sulle riflessioni intorno alla definizione di “Drammaturgia urbana” dal punto di vista di questo gruppo di artisti. Questa risposta molto articolata, è un’introduzione ideale per alcune considerazioni attorno alla drammaturgia degli spazi, che chiedo di condividere a Riccardo Fazi.
“Per noi che lavoriamo in teatro, lo spazio è abbastanza tutto, nel senso che lo spazio è l’elemento fondativo, a partire dal quale generiamo e costruiamo le visioni, i castelli, le storie che vogliamo raccontare.
Soprattutto all’inizio del nostro percorso lo spazio era la relazione fondamentale della drammaturgia: nel momento in cui noi decidevamo di mettere in scena un determinato testo, o di affrontare una determinata questione, il primo gesto che ci veniva da fare – e che ci viene da fare ancora tutt’oggi – è chiederci quale tipo di mondo, di spazio-mondo proponiamo agli artisti – performer e attori – che poi dovranno abitarlo.
Ci chiediamo che caratteristiche abbia, in che modo già esso contenga i presupposti per lo sviluppo futuro del lavoro. Le questioni che vogliamo affrontare, la storia che vogliamo raccontare emergono da una relazione tra dei corpi e uno spazio che avrà determinate caratteristiche a seconda della storia da raccontare.
Per noi, cioè il teatro, pur essendo un luogo di ascolto è comunque un luogo di visione, anche nell’ascolto. Anche “Ashes” è un lavoro visivo, seppure abbiamo lavorato solo sul sonoro, è costruito in modo che ognuno possa produrre le proprie visioni in relazione a quello che ascolta.
Il fatto che siano assenti elementi scenici fortemente caratterizzanti è una scelta fortemente voluta, perché desideravamo che ognuno immaginasse il salotto della propria casa, quello che appartiene al proprio passato, alla propria famiglia, alla propria memoria. C’è stato un gesto di sottrazione rispetto a uno spazio definito.
Per noi tutti gli elementi con i quali entriamo in relazione nel momento in cui costruiamo uno spettacolo sono drammaturgia. La drammaturgia, per come la intendiamo non è un compito che spetta a qualcuno di specifico. Il mio ruolo nello sviluppo è facilitare la condivisione di una funzione drammaturgica; la drammaturgia deve essere il più possibile condivisa tra tutte le persone che partecipano a un progetto.
Tra tutti gli elementi che contraddistinguono un lavoro è ciò che tiene insieme i pezzi; collabora a una costruzione di un mondo condiviso così da creare qualcosa di coeso, di unitario e di condiviso appunto tra tutte le persone.
Da questo punto di vista gli elementi con i quali decidiamo di interagire procedono drammaturgicamente in parallelo, non c’è mai qualcosa di generativo rispetto ad altro. È come se tutti gli elementi, fra i quali c’è lo spazio, avanzassero insieme e nel dialogo si sviluppasse la loro drammaturgia parallela.
Già che sento nominare la parola “spazio”, non posso tardare oltre la formulazione di una delle principali domande di rito, ovvero, chiedere specificamente quale rapporto abbiano gli ospiti con lo spazio: come lavorano, come si confrontano con esso. La parola passa a Claudia Sorace.
“Il nostro punto di partenza sono i temi, le questioni, i concetti, quello che ci sta a cuore e si può esprimere nello spazio. E lo spazio in primo luogo credo sia luce. Uno spazio enorme, con una luce piccola e stretta, illuminato in un punto specifico, diventa piccolo, o racconta di una piccolezza.
La luce ti dà la percezione dello spazio. L’aspetto luminoso è sempre stato fondamentale nel nostro lavoro.
Un secondo aspetto riguarda il luogo dove si trovano ad agire corpi. Questa relazione va affrontata dal punto di vista della luce, degli oggetti di scena, delle costruzioni di scena, del modo in cui i corpi degli attori abitano lo spazio.
I nostri lavori non sono costruiti come una messinscena, ma a partire da una questione che ci sta a cuore, sviluppiamo un insieme di relazioni che crescono piano piano, andando tutte nella stessa direzione.”
Chiedo perciò di farmi degli esempi e di parlarmi dei loro lavori.
“In questo momento ci stiamo proprio chiedendo che spazio creare per “Le tre sorelle” che debutterà a maggio. Vogliamo lavorare soltanto con le tre sorelle, con tre donne, in maniera profondamente diversa rispetto all’esito scenico di Sonora Desert, anche se è un lavoro molto collegato.
Là, lo spettatore era immerso in un luogo che attraverso stimoli vibrazionali di luce di suono, lo portava a viaggiare nel tempo. Sono tutti i suoni che abitano in uno stesso luogo, attraverso il tempo.
Per “Le tre sorelle” il ragionamento che abbiamo fatto riguarda la volontà di confrontarci con una drammaturgia classica del teatro, Cechov è uno dei più grandi drammaturghi del 900. Quello che egli racconta è molto in linea con questo percorso, perché le sue tre donne guardano il mondo attraverso il salotto di casa loro.
Ci interessava capire quale fosse il rapporto con la casa, una casa che perdono nel corso del testo, perché il lavoro inizia con la loro casa, piena di ricordi, attraversata dall’immagine del funerale del padre, del loro arrivo, quando avevano undici anni e finisce con questa casa che non è più loro, diventano ulteriormente nomadi.
Muta Imago: “Sonora Desert”, Credits Andrea Macchia.
Perciò è come se elaborassero questo nomadismo. In questo caso noi ci stiamo interrogando sul rapporto che abbiamo con il luogo in cui abitiamo. Allo stesso tempo quel luogo, quella casa, è il luogo attraversato dal tempo, c’è tutto il tempo delle loro vite.
Quindi ci stiamo interrogando su che spazio creare, perché le tre donne possano esprimersi, possano raccontare questa complessità di vite che non sono assolutamente monolitiche. Anzi, è come se nel corso dello spettacolo, del testo imparassero ad abitare l’intero mondo come la loro casa.
Il percorso sembra questo: dalla necessità di stare in un luogo – quello con il tavolo, le sedie, e che rappresenti qualcosa anche per la società in cui abitano, in cui vivono – alla fine è come se il loro essere costrette ad essere esuli trovasse una ragione quasi esistenziale.
Ci stiamo interrogando su come possiamo costruire una scena mobile, capace di restituire questa mutevolezza. Per esempio, possiamo lavorare con i colori, facendo in modo che ogni atto abbia un colore diverso, perché ognuno di essi rappresenta un tempo e una stagione vera e forse una stagione delle loro vite.”
Per riportare il discorso alla specificità della drammaturgia urbana, chiedo come i Muta Imago si rapportino con lo spazio cittadino.
“Abbiamo realizzato molti progetti di questo genere, da una decina d’anni a questa parte. Abbiamo affiancato il lavoro nel buio della sala, a uno fuori da quest’ultima, sempre molto nutriente. La questione è sempre quella di partire da un grande ascolto, da un’osservazione vera di ciò che ci circonda.
Penso sia finito il momento dell’azione muscolare in cui l’artista arriva in un luogo e afferma se stesso, anziché la relazione con quel luogo. Questo atteggiamento non porta a nulla. Il primo gesto è quello di osservare, capire dove siamo.
Spesso accanto a progetti del genere affianchiamo una fase laboratoriale, come “In una qualunque parte del pianeta”, dove quello che abbiamo fatto, come dicevamo prima è stato osservare gli spazi, ascoltare i diversi suoni che si producono, capire effettivamente dove eravamo, mappare quelle traiettorie e gli attraversamenti di quei luoghi. Soltanto in seguito, si capisce che tipo di relazione con quei luoghi possiamo costruire.
In quel caso la nostra operazione è stata inserire alcune azioni e lavorare sul rapporto verità e finzione, ricostruire azioni credibili e giocare sulla sottile differenza di che cosa accade realmente e che cosa facciamo accadere noi. Il tutto affiancato da un testo proiettato che racconta l’esistente, mischiando i due piani, quello della finzione e quello della realtà.
In questo modo i passanti leggono questo testo e possono sentirsi parte di qualcosa di più grande, possono riguardarsi, guardare la loro vita, quello che li circonda, la strada, l’autobus che arriva e sul quale qualcuno sale pieno di valige e gli cade una cosa. Cioè possono riguardare quello che li circonda forse con occhi nuovi.”
Chiedo ai nostri ospiti se abbiano qualcosa da aggiungere a proposito degli spazi pubblici.
Riccardo riprende il discorso.
“A Roma e a Forlì abbiamo realizzato un progetto dove lavoravamo con gruppi di famiglie. Dopo aver individuato un luogo che ci interessava, nello specifico un condominio, il gesto artistico alla fine era semplicemente convincere le persone ad aprire le porte della loro casa ai visitatori. Lo spettatore in cambio di un dono da lasciare nella casa che avrebbe visitato, aveva la possibilità di passarvi una quindicina di minuti da solo.
Entrare nella casa di uno sconosciuto, rimanervi per un tempo molto limitato costituiva l’ingresso, ogni volta, in un “mondo”, un’entrata nell’intimità più profonda di una persona ignota che puoi solo immaginare e non vedrai mai. .
Era molto bello, sia per chi lo faceva sia per le persone che lasciavano la loro casa aperta a questi attraversamenti: era un modo per consentire alle persone di guardare da un punto di vista altro ciò che avevano sotto gli occhi tutti i giorni. Immediatamente le persone si trasformavano in personaggi, quelle case diventavano scenografie di uno spettacolo che si sottraeva alla vista, ma del quale si vedevano le tracce.
Era un gesto di sottrazione, di sparizione finalizzato a far emergere ciò che è già presente/esistente. Anche il fatto di donare qualcosa, immaginare un regalo per uno sconosciuto, anziché pagare un biglietto, produceva incontri molto belli. Il titolo cambia a seconda del posto in cui le facciamo e mantiene soltanto la parola Lab, alla fine, per esempioto a Forlì, in una zona chiamata XATRE, si chiamava ex ATILabs, quindi è un titolo che dialoga con il posto.”
Chiedo a Riccardo quali criteri adottino nel selezionare le abitazioni. Ogni volta che realizzano questo progetto, in luoghi diversi, domandano al Festival, o al teatro, di intercettare una comunità sovente vicino al teatro: un condominio, una chiostrina, i palazzi che affacciano su una via particolare.
In ciascuno di questi spazi, si attiva un ulteriore lavoro di ricerca di singoli, di individui appartenenti a una comunità abitativa specifica (un condominio, appunto, o una via, una piazza). Al termine di questa “ricerca” di solito entrano in contatto con una decina le famiglie o si singoli individui che decidono di aprirsi.
Sono molto incuriosita da questa descrizione e chiedo ulteriori dettagli. In particolare mi interessa sapere se i proprietari, o gli inquilini escano di casa in modo da non incontrare i “visitatori”. Riccardo precisa che gli abitanti “spariscono dalla loro vita” per il tempo necessario della visita.
Muta Imago, Artyoulost, credits, Ilaria Scarpa.
Mi incuriosisce, inoltre, sapere se gli abitanti preparano un “set” da offrire al pubblico, posto che difficilmente le persone lasciano guardare le proprie case così come sono da un estraneo, ancor meno da uno sconosciuto. Per esempio, magari puliscono e mettono in ordine, in modo più o meno maniacale, a seconda della percezione di sé che vogliono restituire all’esterno.
Riccardo in effetti dice che la prima volta questo si è verificato, così nelle riprese successive prescrivono espressamente di lasciare la casa come se fossero spariti all’improvviso, come se avessero dovuto abbandonare il luogo tutto a unt ratto. Chiedono, in sostanza, di far sì che la casa sia il più possibile piena delle tracce di un vissuto recentissimo, magari con una tazzina di caffè ancora fumante sul tavolo.
Spiega Riccardo:
“La tensione delle persone, nelle prime edizioni del progetto, era proprio quella di allestire, di preparare la casa allo sguardo dell’altro. Si sentivano personaggi della loro vita e attivavano questa procedura, interessante da un altro punto di vista (come prepari la tua casa allo sguardo dell’altro?).
E’ una situazione, in fondo, che facciamo ogni volta che invitiamo a cena qualcuno e allestiamo la casa, a meno che non abbiamo come ospiti persone molto intime.”
Questa situazione rimanda alla questione delle maschere sociali posta da Goffman, centralissima a mio avviso nel momento in cui si lavora sulla teatralità nella vita quotidiana. Un aspetto che giudico molto interessante, proprio perché permette alle persone di “vedersi” o di non “vedersi” vivere, a seconda del grado di consapevolezza di recitare un “ruolo” e di adottare “maschere” a seconda delle diverse occasioni e dei diversi gradi di relazioni con il mondo esterno.
Chiedo ai nostri ospiti se hanno lavorato anche in altre tipologie di spazio nella dimensione reale, per esempio in ambienti isolati, rurali o montani. Mi risponde Claudia.
“Abbiamo lavorato quasi sempre in città, ma abbiamo fatto un laboratorio a Mondaino, un paese molto piccolo, insieme ad alcuni abitanti, intitolato “Una settimana della vita”.
Mondaino, Teatro dimora, credits Tonino Mosconi.
Avevamo chiamato dieci artisti ai quali abbiamo chiesto di andare ad abitare con dieci abitanti diversi per una settimana, per creare un ritratto del loro abitante.
Una dimensione circolare, nella quale si creava uno scambio in cui l’artista veniva ospitato e alla fine della settimana restituiva all’abitante un suo ritratto, inteso in senso ampio.
Ogni artista sceglieva il suo linguaggio, i suoi mezzi espressivi e l’esposizione dei ritratti è stata collocata nel teatro del paese, per cercare di restituirgli centralità.
Così, il teatro diventava una piazza come dovrebbe essere, un luogo di confronto. In effetti, ci avevano chiesto un progetto finalizzato a riallacciare la relazione fra quel teatro e gli abitanti, perché lo frequentavano poco. Da questo progetto è scattato qualcosa e i residenti hanno ricominciato a sentire quel luogo come “loro”.