Il dialogo di questa settimana è dedicato a Muta Imago, compagnia teatrale di ricerca nata a Roma nel 2006, guidata da Claudia Sorace (regista) e Riccardo Fazi (drammaturgo e sound designer). Premio Speciale Ubu 2021 con il progetto Radio India e il Premio Rete Critica.
In realtà non è per la loro attività teatrale in sé, per quanto notevole (si sono aggiudicati con il progetto Radio India il Premio Speciale Ubu e il Premio Rete Critica), ma per la loro doppia capacità di sperimentazione in esterno oltre che nello spazio tradizionale delle sale teatrali e per la modalità con cui utilizzano la voce, la parola nello spazio.
In questo blog infatti non ci occupiamo di teatralità vera e propria, per quanto sperimentale, ma di progetti che trascendono la dimensione definita e circoscritta del palcoscenico. Nei pochi casi in cui lo facciamo dirigiamo l’attenzione in particolare sull’uso della voce come “strumento” sonoro, strettamente legato alla dimensione dello spazio in cui risuona.
DRAMMATURGIA URBANA
In occasione della conversazione con Riccardo e Claudia, parto come al solito dalla domanda numero uno, riguardante la personale definizione di drammaturgia urbana, o di drammaturgie urbane. La risposta me la dà Riccardo:
“Non posso fare a meno di provare a definirla a partire da quello che abbiamo scoperto attraverso una serie di pratiche, di lavori che ci hanno portato nello spazio urbano. A partire dal 2012, abbiamo affiancato la nostra attività in teatro con progetti che ci portavano fuori nel mondo, dove poter fare scoperte da riportare, successivamente, dentro il teatro.
In quell’anno abbiamo realizzato infatti un lavoro ispirato a un’opera di Peter Handke che si intitola “L’ora in cui non sapevamo niente l’uno dell’altro”, al Goethe Institut di Roma in collaborazione con La Sapienza. Si tratta di un testo molto bello, costituito solamente da didascalie e che mette in scena una piazza di una cittadina. Il testo consiste solo in un elenco di didascalie di attraversamenti relativi a persone che passano, camminano, portano oggetti, cadono, si salutano.
In questa occasione ci avevano chiesto di realizzare un lavoro che abbiamo attuato in collaborazione con Michele di Stefano e Veronica Cruciani e che per noi è stato un seminale per quanto riguarda il nostro rapporto con la drammaturgia urbana. Desideravamo, infatti, riportare quel testo nello spazio urbano, nella fattispecie, cortili, lotti del quartiere Quarticciolo, una zona molto periferica, costruita negli anni Trenta.
Si tratta di uno dei primi esempi di edilizia popolare, ed è interamente composto da edifici che affacciano su questi lotti di terreno così che ci fosse una specie di controllo sociale del basso, dove tutti possono sempre vedere tutto.
A partire da quel lavoro ci siamo resi conto che esistono le drammaturgie urbane. E’ stata la prima volta in cui siamo partiti con l’imposizione di un testo “altro” sullo spazio urbano. I nostri primi gesti sono stati quelli dell’osservazione e dell’ascolto.
Per un mese, più o meno, siamo stati nei lotti, semplicemente a osservare e a trascrivere quello che accadeva da un punto di vista sonoro, visivo, termico, i cambiamenti atmosferici, come antropologi, come sensori acustico-visivi, insieme a un gruppo di studenti della Sapienza.
Così, per un mese, abbiamo trascritto quel che accadeva in un’ora precisa del giorno, il momento in cui si accendono i lampioni, quello in cui passa una signora…
Ci siamo resi conto che da quel momento in poi, abbiamo lavorato all’esterno o all’interno di contesti pubblici che hanno appunto una drammaturgia di eventi, di situazioni.
L’ultimo lavoro che abbiamo fatto negli spazi urbani è stato questa estate, in collaborazione con Daria Deflorian e Antonio Tagliarini. I lavori nello spazio urbano generano collaborazioni che in teatro sarebbe invece difficilissimo immaginare, per le differenze di estetica. Lo spazio urbano è anche uno spazio neutro, un terreno d’incontro possibile tra artisti, molto più del palcoscenico.
Quest’ultimo lavoro, “In una qualunque parte del pianeta” in qualche modo si collega al lavoro citato sopra di dieci anni fa, è collocato ancora nelle estreme periferie di Roma, in particolare Tor Bella monaca, Grotte Celoni, Torre Angela.
I tre luoghi scelti in questi quartieri sono molto diversi: un centro commerciale, un grande parcheggio di autobus e una piccola piazza di mercato. Anche in questo caso ci sono stati i gesti di osservazione, ascolto, trascrizione.
Per un’ora al giorno proiettavamo sulle pareti degli edifici affacciati su questi luoghi la trascrizione in tempo reale in forma di didascalia di quello che accadeva nel luogo stesso. Al contempo, facevamo dialogare questa trascrizione del reale con piccolissimi interventi drammaturgici di azioni che, in qualche modo tematizzavano quello che accadeva, in direzione di quello che ci interessava investigare. Ovvero comunicare che qualsiasi luogo sul nostro pianeta è pari a qualsiasi altro (come rivela con tutta evidenza il titolo).
Questa drammaturgia sovrapposta alla didascalia di ciò che accadeva puntava a mettere in relazione quel luogo particolare con il pianeta intero, perché crediamo fortemente nel fatto che oggi una drammaturgia degli spazi non può prescindere da una riflessione sulla drammaturgia dell’unico spazio che abitiamo, cioè quello del pianeta terra.
C’è questa frase in un testo molto bello di John Berger – i nostri volti amore mio, leggeri come foto -.
Egli affronta la questione di cosa voglia dire fare casa, perché casa non ce l’ha (quindi gli esuli, gli emigranti, i migranti, ma anche ognuno di noi, in un momento in cui non riesce a far casa). Per il futuro l’unico modo di far casa possibile è perciò quello di considerare l’intero pianeta come casa, come la nostra casa.
Il testo risale agli anni 80 ma, secondo me, risuona molto oggi. L’unica nostra possibilità di salvezza è quella di cominciare a considerarci come abitanti di un unico spazio.
Drammaturgia urbana per noi rappresenta quindi le dinamiche di abitazione di uno spazio-tempo da parte di cittadini, o di chi quegli spazi urbani li abita quotidianamente.
Questo genere di lavoro ci spinge a uscire anche dalla nostra dimensione di artisti, come se facessimo un passo al lato per metterci in ascolto, in osservazione e il nostro ruolo non diventa più quello di sovrapporre una visione a ciò che già esiste, ma fare in modo che quello che già esiste emerga.
In sostanza, si rende più visibile alle persone stesse la dimensione in cui abitano ogni giorno, come se ci assumessimo il ruolo – non tanto di artisti, di qualcuno che arriva e sovrappone una visione all’esistente – ma quello di cercare in maniera delicata, discreta e, soprattutto, rispettosa di farla affiorare maggiormente agli occhi, senza sottolinearne la sua straordinarietà rispetto ad altro.
Si evidenzia, piuttosto, la natura particolare e universale allo stesso tempo.
Non c’è nessuna straordinarietà nella periferia, come non c’è nel centro, i due termini, ormai secondo me, nella mia percezione sono assolutamente superati rispetto al modo in cui abitiamo lo spazio oggi.”
Dopo le riflessioni a partire dalla personale definizione di drammaturgia urbana e drammaturgia degli spazi, chiedo ai nostri ospiti di condividere qualche pensiero riguardante la drammaturgia domestica, una domanda d’obbligo, in riferimento al loro recente lavoro “Ashes”, visto nel corso di Danae Festival 2022, a Milano, presso il Teatro Out Off. Passo la parola a Riccardo
“È proprio la questione sul quale stiamo lavorando adesso, seguito a un momento di ricerca che ci aveva portato verso “il fuori” e un estremo “fuori”, con “Sonora Desert”, per esempio, ispirato a un viaggio nel deserto di Sonora.
Ora ci stiamo concentrando molto sulla questione della casa come il luogo che noi costruiamo e l’idea di drammaturgia domestica. La casa è quella porzione di spazio che assomiglia a noi stessi e allestiamo come se fosse una nostra proiezione nel mondo.
Da questo punto di vista, è uno spazio da investigare interessante sia sul piano drammaturgico e sia come luogo del quotidiano, che accoglie tutti quei gesti, quelle azioni, quelle frasi che ripetiamo ogni giorno e ai quali non diamo importanza.
In realtà, questi ultimi si depositano nel tempo e finiscono per costruire e definire la nostra identità molto più di grandi azioni che pensiamo caratterizzino il nostro io, il nostro essere. Siamo fatti dei modi con i quali diciamo “Buongiorno” al mattino, o le ultime parole prima di andare a letto, o cuciniamo un piatto. La casa è un ricettacolo di tutto quello che tendiamo a non considerare importante, perché quotidiano e che invece ci definisce molto più di quello che crediamo.
È un campo molto interessante, in quanto è un luogo che costruiamo a nostra immagine e somiglianza, nonché un centro di sperimentazione sociale fortissimo. Spesso è un luogo di riscoperta del modo in cui entriamo in relazione con lo spazio, con il tempo rispetto a quello che ci che ci impone il mondo esterno.”