Nel proseguire le riflessioni riguardanti i manichini usati nei negozi di abbigliamento, siano essi imprese indipendenti, grandi marchi di lusso, o di prodotti di massa, un aspetto su cui mi sembra interessante soffermarsi è la loro relazione con il luogo dove sono posizionati, con lo spazio che occupano, con ciò che rappresenta: la vetrina.
La quarta parete che in teatro è semplicemente un concetto, un’entità invisibile, benché presente, in un negozio è concretamente affidata allo spessore del vetro temperato, del cristallo che separa il dentro dal fuori.
La vetrina può essere usata a scopo di promozione commerciale, o semplicemente per enfatizzare la “bellezza”, il valore estetico, la particolarità, la rarità degli oggetti esposti, per il piacere di una ristretta cerchia di osservatori, nel caso dell’uso domestico, riservata ai padroni di casa e ai loro ospiti. E’ un teatro privato, di dimensioni ridotte.
La vetrina è una scatola scenica in miniatura, un palcoscenico, uno scrigno con un contenuto più o meno prezioso, interessante, desiderabile da mostrare agli sguardi altrui e ai propri, sia quella di un negozio, sia quella di un mobile di casa.
L’osservatore quindi è un compratore se si parla di un’attività commerciale; è un semplice visitatore, o un collezionista quando ci si riferisce al mobile deputato all’esposizione di oggetti da collezione, piatti del servizio buono, argenteria di famiglia.
In quest’ultimo senso può essere un elemento incaricato a rivelare lo status sociale della casa agli ospiti. Oppure contenere un concentrato di stranezze, particolarità, meraviglie, il mondo delle wunderkammer tardo rinascimentali e sei-settecentesche.
L’alto grado di teatralità della vetrina è evidente, il prestito che il settore abbigliamento ha tratto dal mondo dello spettacolo è sotto gli occhi di tutti. Ma è vero anche il percorso inverso.
In numerose performance, a diversi livelli, da quelle più commerciali a quelle di ricerca, attori e performer si sono installati temporaneamente in una o più vetrine per proporre i loro progetti.
Il corpo esibito può essere una denuncia dell’alienazione del corpo, dello sfruttamento del medesimo in alcuni ambiti e contesti della società capitalista e maschilista; o mero esibizionismo, frutto di inconsapevolezza da parte di chi esegue l’azione performativa di essere sfruttato come corpo-merce.
L’idea di lavorare sull’estetizzazione dei corpi-merce è uno dei tratti più riconoscibili del lavoro di Vanessa Beecroft, la sua opera si incentra su una “manichizzazione delle persone”, specificamente e non a caso, donne, giovani e belle, utilizzate per comporre tableaux vivants raggelanti.
Questi manichini umani rimandano in modo forte e chiaro del processo di disumanizzazione della donna e trasformazione in oggetto del desiderio, di prodotto da frigo da mantenere fresco attraverso manipolazioni più o meno invasive, attuata nei secoli.
Per un’impresa commerciale il “target” da colpire è fondamentale: chi è l’osservatore? Quali caratteristiche ha? E’ una massa o sono gruppi di individui appartenenti a una data classe sociale?
Una ricognizione fra le vetrine del Quadrilatero e fra quelle delle vie del centro di Milano individua alcune modalità con cui sono usati i manichini, modalità che cambiano nel corso del tempo, nel trascorrere delle stagioni, anche in coincidenza di grossi traumi epocali.
Così manichini fortemente androgini per caratterizzare una collezione, possono essere sostituiti un anno dopo da manichini decapitati; manichini molto caratterizzati con trucco, parrucche, o dettagli seduttivi da femme fatale possono essere sostituiti all’improvviso da sostegni neutri.
Uno dei prossimi obiettivi è osservare se ci sono stati grandi cambiamenti nell’uso dei manichini prima e dopo la pandemia, con un confronto rispetto al materiale raccolto fra il 2018 e il mese di febbraio 2020.
Il progetto al quale ho iniziato a lavorare riguarda la decostruzione dell’immaginario legato al fashion: lavora attorno a, ed evidenzia i meccanismi manipolatori della società dei consumi, rispetto ai quali il mondo della moda ha un ruolo molto rilevante, attraverso i mezzi di comunicazione di massa tradizionali e ancor più i social.
Quello che si rappresenta in una vetrina di un negozio – specie se si tratta di un grande marchio – è la costruzione di illusioni, con cui stimolare le vendite e sollecitare l’attenzione del compratore. Ma come avviene ciò dipende dal prodotto venduto/proposto.
Se si osservano le pose dei manichini e il contesto dell’ambientazione della vetrina, emerge con una certa chiarezza che generano volutamente stupore, meraviglia, sorpresa, soprattutto in un passante ingenuo, nel passeggiatore di massa.
Ovvero negli “esclusi”, in coloro che non si possono permettere di acquistare vestiti molto costosi, o costosissimi e che si limitano a “sognare” a occhi aperti davanti alle vetrine che esibiscono prodotti “irraggiungibili”. O, piuttosto a desiderare di comprare qualche frammento di “quel mondo magico”, alla portata delle loro tasche, così da sentirsi in qualche modo “parte” di quel contesto esclusivo. Ovvero parte proprio di qiel mondo che li esclude e li sfrutta economicamente.
La maggior parte delle persene può permettersi l’acquisto di piccoli accessori (portachiavi, portamonete, bigiotteria, occhiali, prodotti di profumeria, e un gradino più in su, borse), sui quali le imprese che producono beni di lusso basano una parte molto importante, per non dire quella più rilevante, del loro fatturato.
Oltre le questioni economiche si pongono anche le questioni di genere, in particolare per quanto riguarda la cristallizzazione o al contrario la ridiscussione degli stereotipi di genere, di ruolo, di immagini maschili e femminili. Anche da questo punto di vista ci sono molti aspetti da indagare.
Il manichino è una presenza discreta, così tanto discreta da passare pressoché inosservata o è un grande attore, un primo attore, una star che deve richiamare l’attenzione a livello più immediato? Dipende molto dalle strategie di vendita dei diversi marchi, non c’è una risposta univoca.
L’umanizzazione dei manichini è funzionale ad aumentare l’impatto emotivo attraverso la costruzione di piccole storie, di piccoli quadri da museo delle cere e quindi le vendite.
Per questo diventa interessante osservare come sono scelte le pose e gli atteggiamenti, quanto sono impattanti sul piano visivo, rispetto all’abito che indossano, quanto enfasi o contenimento, controllo dei gesti cambia con il variare del tempo, o delle stagioni, o delle evoluzioni di un marchio, o fra differenti livelli di marchi.
I manichini comunicano a un preciso target. Per esempio se si “parla” a una fetta di pubblico che desidera acquistare un capo che ricorda qualcosa di noto, familiare, senza sorprese e che mantenga un tratto di distinzione, ma a prezzi contenuti rispetto ai marchi di lusso, i manichini assumono pose rassicuranti per un certo tipo di clientela medio-borghese.
Questo immaginario si traduce, almeno nell’interpretazione dei manager che curano le vetrine- in atteggiamenti esasperati, caricaturali di una signora sofisticata, elegante trasmessi dagli scatti fotografici di dive del cinema e riviste di moda anni Sessanta.
Anche se a questo proposito occorre evidenziare che il costo di un manichino è proporzionale alla sua complessità di posa, al fatto che sia realizzato “su misura” secondo le richieste dell’impresa commerciale.
Risulta evidente che un negozio indipendente dispone di un budget minore rispetto a una grande catena, o a un grande marchio riconosciuto a livello mondiale. Per questo è interessante osservare come si comportano i singoli nella scelta dei loro “attori”.
Poiché nel mio progetto desidero evidenziare le pose dei manichini invece dell’abito, uno dei primi obiettivi che mi pongo è neutralizzare, anzi cancellare quest’ultimo.
Lo trasformo in sagoma anonima, gli tolgo colore, forma, volumetria, così da annichilire ogni potenziale di immaginazione, di magia legata a un abito, qualunque esso sia. Esiste solo una posa artefatta di un corpo di plastica.
Il vestito sparisce, l’attenzione si focalizza sul manichino. L’operazione annulla la forma dell’abito, lo stile, i tessuti di cui è composto. L’enfasi e l’attenzione ricadono invece sulla posa dell'”attore” immobile e silente che li indossa: è una decostruzione del messaggio pubblicitario, della superfetazione degli uffici marketing.
Ci troviamo di fronte a un manichino che esibisce se stesso su una superficie bidimensionale. Come nei vecchi manuali di recitazione ottocenteschi, per attori e soprattutto per cantanti lirici, si può osservare una sequenza di pose codificate più o meno grottesche e standardizzate, ancora in alcuni casi visibili sui palcoscenici.
Posso così ricostruire un manuale di pose da vetrina, funzionali a stimolare e a intercettare un immaginario di sogni di plastica e decido quindi di intitolarlo: “Prontuario di Pose da vetrina”.
Da questo punto di vista è anche interessante osservare come e se cambia l’immaginario da evocare nei passanti e negli acquirenti prima e dopo la pandemia.