Spazio, suono, voci, incontri. Alessandro Bosetti. II

Dopo aver esplorato le relazioni fra spazio e suono nella parte precedente del dialogo con il compositore e artista sonoro Alessandro Bosetti, in questa seconda fase concentriamo l’attenzione su altri aspetti legati alla teatralità. Rimane infatti ancora da conoscere come egli si rapporti con i concetti di “personaggi”, “trama, intreccio” e “pubblico”.

Liquid Architecture, composizione di Alessandro Bosetti
Alessandro Bosetti: “Liquid Architecture”.

PERSONAGGI

Inizio così a chiedere che cosa siano per Alessandro i personaggi. Mi guarda e mi risponde rivolgendomi a sua volta una domanda. Ovvero, mi chiede perché mi interessano i personaggi. Lì per lì, rispondo che per me fanno parte dell’ambito teatrale. Nel senso che costituiscono una parola “chiave” del linguaggio teatrale convenzionale. In realtà, quello che mi interessa è capire come ognuno di noi interpreta questo concetto “personaggio”, di solito in modo diversissimo. Di conseguenza anche nel suo caso, desidero capire se questa parola gli interessa oppure no, posto che ci sono artisti intervistati che mi dicono esplicitamente che questo termine non gli significa alcunché.

Alessandro a questo punto si esprime:

“La parola personaggio non mi dice nulla. È una parola che non utilizzo mai, anche se mi fa subito pensare a questa mia ossessione di considerare le voci come esseri autonomi. È una sorta di finzione, forse un po’ controcorrente rispetto ai tempi.

Esiste un approccio – che non ho nessuna intenzione di criticare
– che considera la voce come il prodotto di un bios, un corpo, un
genere, e di tutta una serie di stratificazioni identitarie. É senza
dubbio vero che una voce non esiste senza un corpo. Detto questo però, cerco di fare un esercizio speculativo ad absurdum in cui penso alle voci come esseri autonomi, slegati dalle persone che le hanno emesse e dalle relative caratteristiche sociali, economiche etc.

Le penso come se fossero esseri, si tratta di uno sforzo di astrazione, simile al pensiero sul motivo musicale, riguardo al quale mi viene in mente l’esempio filosofico del modo in cui Henry Bergson tratta la melodia.

Sulla stessa scia e nella stessa tradizione filosofica, mi vengono anche in mente i motivi mnemici ( thèmes mnémiques ) di Raymond Ruyer.

Il fatto che una certa canzone, come un codice genetico, o un gesto, una postura persistano nonostante la materialità che le incarna sia fluida, sfuggente. Si fa spesso notare in questo senso che gli atomi che costituiscono il corpo di una persona nel corso di una vita vengono tutti sostituiti varie volte e pertanto l’identità della persona permane.
Lo stesso vale per un motivo, un motivo vocale che fa sì che quella voce continui a esistere nella sua unità — indipendentemente dai suoni che emette — e non si perda.  Questo mi affascina molto, questa forma di unità che percepisco attraverso la voce.

Se c’è qualcosa che assomiglia a un personaggio è la grana che tiene insieme e ti fa dire sì, è quella voce, la riconosco.

Alessandro Bosetti: "Plane/Talea" Danae Festival 2022, Milano.
Alessandro Bosetti: “Plane/Talea”, Danae Festival 2022, Milano. Credit: Michela di Savino

PUBBLICO

La domanda successiva che rivolgo ad Alessandro Bosetti riguarda il rapporto con il pubblico, come percepisce e come si relazioni con lo spettatore, che cosa gli interessa comunicare in generale, dal punto di vista dell’ascolto e più in generale che cosa gli venga in mente di dire a proposito di questo concetto.

“Sono molto grato al pubblico per l’ascolto. Il fatto che ci siano persone disposte ad ascoltare è per me una cosa preziosa e rara. È già un regalo. Inoltre, mi sono sempre chiesto come sia possibile “ascoltare l’ascolto”. Percepisco sempre una tensione nell’ascolto e l’ascolto fa rumore.

In qualche modo ci sono ascolti che fanno più rumore di altri.
Cerco di essere anch’io un buon ascoltatore e quindi di sentire quale rumore faccia l’ascolto prodotto da coloro che ho di fronte.

In quanto performer, musicista, o compositore mi rendo conto che la pedagogia dell’ascolto sia fondamentale, a chi vuole fare musica, o lavorare col suono in primis.

La qualità dell’ascolto è una cosa che si insegna attivamente, ma si trasmette anche per osmosi, condividendo l’ascolto. Se tu proponi situazioni in cui l’ascolto ha una qualità di un certo tipo, significa che con il tuo gesto dici “ascoltiamo insieme”.

L’ascolto può spingersi a un livello di profondità impensato. Nel far musica, e nel far musica insieme, la qualità è in gran parte data dalla capacità dei musicisti coinvolti di ascoltarsi tra loro. I grandi musicisti ascoltano, sono reattivi, hanno una capacità quasi commovente di mettersi in sintonia, di accordarsi con quello che hanno intorno.

Alessandro Bosetti: Plane/Talea, edizione di Chicago
Alessandro Bosetti: “Plane/Talea”, Chicago.

Provo senz’altro una grande fascinazione per come alcune persone ascoltano. Perché l’ascolto può essere una forma attiva di creazione sonora, quasi una forma compositiva. A questo proposito, i saggi di Peter Szendy mi hanno molto ispirato, in particolare Écoute : une histoire de nos oreilles ( Les Éditions de Minuit, 2001 ndr. ) nel quale si sofferma molto sulle trascrizioni, le citazioni, gli arrangiamenti come forme classiche del remix.

Szendy mostra per esempio che la citazione o la trascrizione musicale sono una forma di notazione dell’ascolto, un modo di comunicare agli altri come tu stai ascoltando l’opera a cui ti stai riferendo.

Ho affrontato temi di questo tipo varie volte e ho sempre a cuore la questione, ma in particolare, c’è un mio lavoro, un video che si chiama “The Listeners” del 2004 di cui desidero parlare. Consiste in una serie di brevi composizioni  elettroacustiche che ho creato e ho fatto ascoltare ciascuna una sola volta — in cuffia — ad una sola persona, mentre la filmavo, per poi distruggere  i nastri, cioè le composizioni stesse, delle quali oggi non resta più  traccia.

In sostanza, questi lavori sono stati ascoltati una volta sola da me che le ho create e da una sola altra persona. Ciò che resta è una traccia — visiva — di quell’unico ascolto. Dal punto di vista sonoro nel video non c’è granché, solo 20 minuti di silenzio, a parte il respiro appena percepibile, qualche cigolio della sedia. Della musica non c’è più nulla, le cuffie non lasciano trapelare nulla di quello che entra nelle orecchie dei Listeners.

Ci sono però i visi di coloro che ascoltano, le loro espressioni. È un lavoro realizzato durante una residenza alla School of the Art Institute di Chicago. Thomas Bruns, il direttore del Kammerensemble Neue Musik a Berlino, un ensemble di musica contemporanea, all’epoca aveva avuto l’intuizione di considerarlo un pezzo da concerto, inserendolo in un programma dell’ensemble.

Così, accadeva che uno dei brani del concerto era un video incentrato fondamentalmente su una “mancanza”. Si guardava gente impegnata ad ascoltare qualche cosa, ma il suono era stato sottratto, si “ascoltava l’ascolto”. Era una proposta abbastanza radicale.

Il pubblico era predisposto all’ascolto e questo ascolto, invece, veniva a mancare. Vedevi persone che ascoltavano qualcosa che non c’era. Nel video le persone indossavano grandi cuffie, per me all’epoca una specie di marchio di fabbrica, uno “strumento musicale” che usavo sempre nelle mie creazioni. 

Alessandro Bosetti: African Feedback
Alessandro Bosetti: “African Feedback.”

Appaiono anche in un altro lavoro che mi è stato richiesto spesso e ho riproposto a lungo : “African Feedback.”
In questo caso, avevo realizzato quella che per me era la parodia di una ricerca etnologica, di Marcel Griaule, sui Dogon del Mali negli anni 40 del Novecento.

Si tratta di una popolazione di cui Griaule ha descritto la cosmogonia in un libro famoso intitolato “Dio d’acqua. Incontri con Ogotemmêli”.

Mentre lavoravo ad “African Feedback” mi sono chiesto, che cosa sarebbe successo se fossi stato io a recarmi da queste persone, con la mia cosmogonia musicale personale e avessi loro proposto di ascoltare alcuni estratti presi da una collezione di venti CD contenenti brani scelti da me, con le mie musiche di riferimento, prevalentemente musica sperimentale, contemporanea, noise…

Ho viaggiato in alcuni villaggi Dogon e Mossi in Mali e in Burkina Faso. In quell’occasione ho registrato gli ascolti in cuffia che proponevo alle persone, senza mai dire di che cosa si trattasse, senza usare mai le parole “musica” o “rumore”, per esempio, qualunque cosa la registrazione riproducesse.

Gli abitanti dei villaggi ascoltavano in cuffia, la musica spariva come in un calco con la cera a perdere, restavano i silenzi, i respiri, oppure varie forme di “feedback”, in alcuni casi venivano descritte vere e proprie visioni.

La parodia consisteva nel rovesciare la dinamica alla base di un libro famoso (il “Dio d’acqua”, appunto), basato su una ricerca di un etnologo famosissimo (il sopracitato Marcel Griaule, 1898-1956).
Griaule lavorava scortato dall’armata coloniale francese e conduceva una ricerca etnologica nell’africa occidentale e in particolare nei paesi Dogon.

Questi ultimi hanno scelto in modo piuttosto unico, rispetto ad altre popolazioni, di affidare a un anziano il compito di raccontare tutta la loro “Cosmogonia”, fino ad allora considerata segreta, oltre che sacra.

Quindi, in realtà, il risultato di questa operazione è un’etnologia atipica, costruita sul racconto fatto da un solo informatore — il modo in cui gli antropologi chiamano i loro interlocutori nella ricerche sul campo— un cacciatore cieco di nome Ogotemmêli.

Ciò ha avuto anche un grosso effetto, in quanto i Dogon hanno, in un certo senso, negoziato la loro identità culturale vis a vis della dominazione coloniale e attraverso di essa hanno generato un flusso di interesse, anche turistico, negli anni successivi.

Adesso purtroppo è diventato molto difficile andare in quelle regioni. Quello che Marcel Griaule ha scritto è entrato a far parte della cosmogonia e nelle credenze dei Dogon in una specie di feedback. Si è innescato un gioco di proiezioni reciproche, non scevro da relazioni di potere molto asimmetriche.

Io, un po’ ingenuamente in African Feedback — che risale a una ventina di anni fa — mi chiedevo quali sarebbero stati gli effetti se fossi andato ad andare in Mali a proporre la mia cosmogonia personale, piuttosto che a cercare di carpire i segreti della cosmogonia tradizionale di un popolo.

Le cuffie separano, tagliano una parte dell’ascolto: tanti altri lavori sono stati realizzati con questa modalità. Per esempio, un lavoro creato sulla musica di Gesualdo da Venosa (“Gesualdo translations” del 2007). In quell’occasione andavo in giro per Napoli, incontravo persone per caso e chiedevo loro di ricantare le tracce delle singole voci dei madrigali di Gesualdo — un compositore di musica polifonica che aveva vissuto in quella città. Avevo preparato le tracce su di un lettore cd e le facevo ascoltare in cuffia.

Le versioni ricantate le avrei poi rimontate successivamente, in sincrono. Di fatto una traccia o un residuo dei madrigali da cui ero partito permaneva, nonostante le polifonie fossero state completamente deformate dagli errori di voci non educate al canto, dagli incidenti di un ascolto improvviso e non preparato, veri e propri malintesi ( male – intendere).

Nel condurre queste operazioni e stratificazioni, c’è sempre qualcosa del vissuto e dei luoghi  incontrati che resta incastrato nel risultato finale.

Ho sempre avuto questa ossessione per le lingue, i linguaggi, le traduzioni e tutte e tre queste cose sono impregnate di vissuto e di contingenza.”

TRAMA INTRECCIO

Ormai, mi resta l’ultima domanda…chiedo ad Alessandro Bosetti che cosa pensi circa i concetti di trama e intreccio, che cosa rappresentano per il suo lavoro.

“Per tanto tempo per me “trama/intreccio” ha significato dispositivo. La scrittura di un dispositivo, ha sostituito la scrittura di un intreccio. Il dispositivo genera nel tempo lo svolgersi di un processo che esiste come virtualità ma non è stato ancora fissato su una timeline. Più che una traccia lineare già scritta si tratta di un insieme di relazioni che si attivano e si accendono.

Diario di Bordo, di Alessandro Bosetti
Alessandro Bosetti: Diario di Bordo. Credit: Pierre Gondard.

L’intuizione mi ha sempre spinto a lavorare in questo modo. Allo stesso tempo sono un grande consumatore di trame, intrecci, perché sono appassionato di storie, di letture.
Mi interrogo su che cosa voglia dire scrivere in modo lineare, da A a B. L’unico intreccio su cui io abbia veramente lavorato è stato in un progetto di teatro musicale – Diario di bordo – iniziato con Danae Festival nel 2016 e poi prodotto dallo GMEM, Centro nazionale di creazione a Marsiglia, che ha girato tra il 2018 e 2019 e che abbiamo ripreso da poco al Festival Musica di Strasburgo.

Si tratta di un lavoro sul diario che mia madre ha scritto quando si è separata nel 1978 e ha deciso di partire in viaggio su una barca a vela per un certo periodo, un periodo che è rimasto come una sorta di buco nero nella mia infanzia e di cui non ho ricordi.

Anni dopo mia madre mi ha regalato questo diario e qualche anno più tardi ho deciso di ricantarlo, a partire da una registrazione che lei mi ha fatto nel 2015. Le ho chiesto se avesse avuto voglia di leggerlo, così ho registrato la prima lettura che ne ha fatto.

Ho trascorso anni a trascriverlo in notazione musicale, a imparare a ricantarlo io stesso e a scrivere una partitura strumentale che lo comprendesse. Di fatto è un monodramma della durata di un’ora e dieci minuti.
Il mio rapporto con il teatro musicale e con l’opera è contraddittorio, sono sempre stato molto lontano dal teatro, ho avuto sempre una sorta di diffidenza per tutto quello che era la scena, la macchina scenica, il visivo.

Tuttavia, in particolare riguardo ai miei lavori radiofonici, mi sono spesso arrivati feedback che li interrogavano sul mio rapporto con esso, mi è stato detto che il mio lavoro era molto simile al melodramma, all’opera e mi è stato chiesto perché non mi confrontassi con questa forma. Molti lavori a partire dal 2000 o 2001 appartenevano di fatto al teatro sonoro.

Se pensavo “Opera” sorgeva subito un grosso punto di domanda rispetto a ciò che potesse essere un “libretto” e, come ti dicevo sopra, ho sempre pensato che un libretto fosse da intendere come un dispositivo aperto, generativo.

Pensavo al Nouveau roman, a un libretto aperto senza contenuti, o al famoso libro a proposito di nulla di Flaubert, finché mi sono reso conto di avere già nel cassetto qualcosa di estremamente personale e se vogliamo anche più tradizionale dal punto di vista narrativo: questo diario di un viaggio in barca a vela di mia madre.

Ho lavorato quindi in questa direzione, lasciando sempre a comunque molta apertura per il pubblico a cui io, all’inizio dello spettacolo, do alcuni punti di riferimento, spiego che cosa sia questo testo, in che contesto sia stato scritto, che cosa significa per me ripercorrerlo.

Poi però — in un modo che trovo tanto bellissimo quanto banale — mia madre parla del mare, di quando si svegliava, del cibo, della navigazione e non parla dei drammi, di quello che sentiva in quel periodo. C’è una specie di vuoto che lascia allo spettatore lo spazio per costruire il proprio viaggio all’interno di quello di mia madre.

Diario di Bordo, di Alessandro Bosetti
Alessandro Bosetti: Diario di Bordo. Credit: Pierre Gondard.

Questo è un procedimento che all’inizio non padroneggiavo ma che ha funzionato in modo stupefacente con il pubblico. La musica ha permesso di appropriarsi di quel segmento, di farlo vivere.

Per questo mi viene da dire che, se trama o intreccio devono essere, ci vuole un legame quasi magico con tali trame e tali intrecci per farli vivere.”

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