Il lavoro del compositore e artista sonoro Alessandro Bosetti esplora il linguaggio e la dimensione della voce, elementi costitutivi di una parte importante della mia ricerca (sia teorica, sia pratica). Ho pensato così di instaurare un dialogo con Alessandro e chiedergli di rispondere al questionario che sottopongo agli artisti che mi sembrano lavorare attorno a ciò che definisco “drammaturgia degli spazi”, con le sue varianti specifiche (urbane, montane, rurali, marittime, domestiche….).
Chiedo quindi al nostro ospite, come prima domanda, di darmi una personale definizione del concetto di drammaturgia urbana e di drammaturgia degli spazi, ovvero di dirmi quello che gli viene in mente di getto a questo proposito.
Dopo qualche secondo di silenzio Alessandro mi risponde.
“Mi cogli alla sprovvista! Perché io mi sento abbastanza un analfabeta riguardo alla scrittura dello spazio. Avendo lavorato molto sulla creazione radiofonica è come se avessi spesso creato opere che prescindevano dal contesto visivo e da quello spaziale.
Per tanto tempo, è come se queste prospettive mi fossero sfuggite. Se dovessi parlare per associazione ci sono due elementi che mi vengono in mente: penso sovente alla cledomanzia, una forma di divinazione utilizzata dagli antichi romani, una fra le tante pratiche di questo tipo da loro attuate. Consisteva nell’interpretare le voci
sentite casualmente per la strada.L’ascolto di una “folata sonora” affidata alle voci è un fatto che
mi colpisce molto quando attraverso uno spazio urbano. Per
esempio: “A mio papà non piace il risotto ai frutti di mare.”, oppure “Si lui, ha detto Veronica Lario, che è malato di sesso”
A cui l’altra vecchietta di fianco risponde: “Sì, ma lui è malato di tante altre cose.” L’azione di attraversare lo spazio e quella di raccogliere queste schegge, voci che diventano marcatori dello stesso spazio, sintetizzano il rapporto che ho con il percorrere i luoghi…Recentemente, mi sono occupato soprattutto di loci mnemonici, quelli del palazzo della memoria…Sono luoghi
mentali che servono per fissare ricordi”.
Mentre Alessandro mi descriveva i frammenti delle conversazioni che gli si sono offerti all’improvviso, mi è corso un brivido, perché da qualche anno annoto sul mio cellulare alcune frasi che mi arrivano addosso e mi colpiscono per la loro singolarità, o la loro chiarezza sonora, mentre cammino. Così, mentre Alessandro mi parla, gli spiego che sto guardando il mio cellulare alla ricerca degli SMS che mi mando da sola, dove trascrivo questi “messaggi” ricevuti lungo la strada, o a volte sul treno, in autobus, al bar, in generale nei luoghi pubblici (“Comodo questo parcheggio”, oppure “Ma sai che mazzette si prendeva quello?”).Alessandro riprende il discorso:
“A me piace molto questo aspetto quasi magico, nell’incontro.
Mi ha accompagnato per tanto tempo. Ho lavorato sovente sulla raccolta di materiale, anche adottando una pratica più radiofonica, andandomene in giro con un microfono.In tutti i miei lavori faccio (quasi) sempre uso di un materiale originato da un’interazione, da un incontro. L’incontro di per sé è un luogo in cui si genera un processo. Non va mai come te lo immagini, c’è sempre qualcosa in più, un deragliamento.
Da lì nasce la possibilità di creare qualche cosa. Potrei parlarti di tantissimi lavori che vanno in questo senso. Mi viene in mente, per esempio, un progetto che ho creato e fatto proseguire per un paio d’anni, dal 2017.
In ogni luogo dove andavo intervistavo, o chiedevo alle persone che incontravo di dire la parola “Qui”, nella loro lingua madre. Sono le interviste più corte che abbia mai fatto, nel senso che ci mettevo più tempo a spiegare di che cosa si trattasse, che non ad effettuare una registrazione che spesso durava meno di mezzo secondo.
Questo pezzo è una ghirlanda, una recitazione ritmica. La lingua cambia rispetto al luogo in cui mi trovavo. Ho raccolto quasi 2000 testimonianze per un pezzo di 18 minuti.
Si intitola “Location series”.Per me si tratta di un attraversamento di luoghi, perché nel farlo ho raccolto l’impronta di tutte le voci, le lingue che cambiano. Per quanto, le lingue non siano necessariamente legate al luogo: puoi essere a Bologna e parlare a un rumeno, o a un cinese che ci vive o è di passaggio, per qualche ragione.
Mi piace molto questa fluidità, perché le persone, le voci e le lingue si compenetrano e viaggiano. Puoi avere una voce attraversata da una lingua, trasportata da un corpo che può trovarsi anche dove non ti aspetti. Nel senso che un francese non è detto che si trovi
soltanto in Francia.Quindi hai questa sovrapposizione di movimento. Anche il lavoro che ho presentato a Milano a Danae Festival “Plane/Talea” è fonte di incontri. In questo caso, più che essere io ad attraversare una città è la città stessa che viene ad incontrarmi.
Sto fermo in una stanza, le persone arrivano ad una ad una e dopo un po’, ho la sensazione di aver attraversato un luogo più vasto.
A me piace registrare la voce in stereo, ultimamente uso un
Audio-Technica BP4025, un microfono stereo.
Ha un campo abbastanza stretto, inadatto per Field Recordings più “ambientali” , ma combina una sonorità da iper-cardioide con una bella grana della voce e un certo dettaglio. Le voci sono secche, simili a quelle radiofoniche, ma senza quella pienezza e fissità propria di un microfono come il Neumann U87, rivelano qualcosa di più mosso.”
Le spiegazioni di Alessandro Bosetti circa l’uso della voce e i suoi effetti ottenuti grazie all’uso dei microfoni sono un motivo per chiedere ulteriori dettagli a proposito del rapporto fra spazio e suono, anche attraverso il ricorso a strumenti tecnici, come appunto il ricorso a un certo tipo di microfoni da lui apprezzati, o l’uso della spazializzazione. In sostanza gli chiedo di parlare di tutto ciò che desidera condividere circa il rapporto fra suono e spazio.
“Mi viene in mente una cosa che dico spesso ai miei studenti.”-
riprende il nostro ospite –
cioè sensibilizzarsi all’informazione spaziale che arriva con e
nei suoni, con le voci in particolare: siamo capaci di decodificare anche inconsciamente un’informazione spaziale,
inserita nella registrazione di una voce.Possiamo capire se è stata registrata in bagno o in un prato. Li metto in guardia sul fatto molte caratteristiche di un suono possono essere corrette, modificate, ma l’informazione spaziale, come un riverbero, o
un’eco incrostato su di una voce registrata sono impossibili da
rimuovere.
Anche se si tratta di una nuance molto sottile, il nostro orecchio la percepisce subito. Si tratta di una sensazione molto forte, molto pregnante a mio avviso. Allo stesso tempo vivo in una specie di metafora che mi viene, credo, dal pensare il suono in termini radiofonici e cioè cercare di immaginare dei suoni che non hanno spazio, suoni che non siano collocabili. Il che è impossibile nella realtà.
Eppure c’è questa tradizione in radio, soprattutto alla radio tedesca, per esempio (dove mi sono formato), famosa per richiedere una voce registrata col suono più “secco” possibile. Ovvero una voce che ti fa l’effetto di provenire dal centro della mente più che dall’esterno, quando l’ascolti.
È una finzione, naturalmente, perché quella voce è registrata in qualche luogo, per quanto anecoico possa essere l’ambiente in cui ciò avviene. Questa finzione mi affascina e sta un po alla base di una mia
“ossessione”: quella di pensare alle voci come esseri autonomi,che esistono al di là di un corpo, al di là di uno spazio.Perché il corpo è il primo spazio in cui una voce si genera. Sono conscio che questo sia impossibile nella realtà fisica ma, allo stesso tempo, non posso fare a meno di continuare a pensarci, immaginare finzioni sonore di questo tipo.”
Domando ad Alessandro di continuare ad approfondire, se lo desidera, il rapporto fra spazio, voce, suono.
“La spazializzazione del suono è qualcosa che ho incontrato
spesso, me ne sono occupato molto. Gli ultimi lavori che ho
realizzato hanno tutti a che vedere con la spazializzazione in un modo o in un altro.In relazione al lavoro sul teatro musicale, ho progettato uno spettacolo che ruota attorno a un ensemble vocale in scena ( I Neue Vocalsolisten Stuttgart), ai quali si sovrappone un secondo ensemble vocale “virtuale”, formato da voci registrate dislocate nello spazio.
In quel caso lavoro con una tecnologia di spazializzazione. In “Plane/Talea”, invece, lavoro con una specie di “multi-mono”, al quale sono molto affezionato. Nel caso di “Plane /Talea” — una
specie di orchestra/archivio di voci anonime – dispongo una
quantità di altoparlanti nello spazio, in modo anche molto
caotico.Mi riservo il piacere di poter scegliere il giorno stesso del concerto dove metterli, a seconda dello spazio che trovo. In questo caso lavoro con un approccio diametralmente opposto a quello di un software come Spat dell’Ircam che uso invece nel pezzo di cui ti parlavo prima, in questo caso si tratta di una specie di multi-mono fatto da punti singoli.
A ogni altoparlante corrisponde una voce, un punto di emissione, così
scelgo poi dove posizionarli. Alcune volte mi è capitato di alzarmi per andare a spostare l’altoparlante, portarlo in giro durante uno spettacolo. In altri casi, lavoro con il mono e basta. Brutale.Mi viene in mente un altro esempio. Un mio solo intitolato “MaskMirror”. È una forma di ventriloquismo. Un monologo in cui vengo costantemente interrotto da frammenti della mia stessa voce organizzati sintatticamente.
In questo lavoro per me è molto importante avere una fonte sonora molto fedele vicina alla mia voce, alla mia bocca, il più possibile mimetica con la mia bocca ma, al tempo stesso leggermente sfasata rispetto a me, come nel gioco del ventriloquo. Come sai la nostra voce, per quanto l’ascoltiamo con due orecchie, dal corpo esce per cosi dire in “mono”. Quindi utilizzo una sola cassa, in genere una Genelec, in mono.
Un lavoro radiofonico del 2014, Mini golf e Maxi golf, si può, invece, considerare come una storia
d’amore con i microfoni a nastro che, invece di avere una membrana, hanno una lamella di metallo.
In quel caso sono partito dall’idea di costruire una composizione con un dispositivo che fosse simile a quello della radio degli anni Venti, una radio cioè che si faceva tutta attorno a uno più microfoni. L’esempio classico è “La guerra dei mondi” di Orson Wells, in cui l’attore principale parla vicino, alcuni artisti fanno rumori a una certa distanza. Quindi c’è un posizionamento più vicino e uno più lontano rispetto al microfono, a seconda dell’effetto desiderato.
Per Mini golf l’idea era quella di mettere un ensemble vocale in una stanza separata dal pubblico. Tutta la partitura era fatta in diretta, attraverso avvicinamenti e allontanamenti dal microfono così da creare diversi piani spaziali. Il pubblico ascoltava il tutto su di un altoparlante in un’altra stanza, non necessariamente contigua. In certi posti, era magari collocato tre piani sopra.
Nel finale con un trucco/espediente – che non rivelo, altrimenti sarebbe uno spoiler del lavoro – creo una circolarità fra i due spazi. In questo caso si trattava di ottenere un mondo e una spazialità sonora attraverso un unico microfono, in uno spazio il più asciutto possibile.Abbiamo lavorato con microfoni originali degli anni
Cinquanta e in un’altra ripresa ci siamo portati in giro una replica. Questi microfoni del peso di circa 3 kg, hanno proprietà interessanti, un effetto di prossimità in cui la voce ha
una pienezza spettacolare che ti riporta subito al suono radiofonico d’epoca. Per contro, hanno
piani sonori rigidi. Nel senso che, se usi un microfono Schoeps attuale appena ti allontani nello
spazio, senti la gradualità, la distanza, i piani molto definiti (il che a volte può essere problematico, perché magari li vorresti isolare). Invece, con i microfoni d’epoca è come se avessi solo tre piani: il primo tra i 20 e i 30 centimetri, quello medio a un metro e mezzo circa di distanza, infine una specie di fondo a cinque metri, dove non senti più niente.”
Dopo questa panoramica di lavori incentrati sull’utilizzo dei microfoni in relazione allo spazio, Alessandro a proposito del rapporto fra suono e spazio mi racconta di un altro lavoro “The whistling republic” (2003) dove lo spazio è un autentico protagonista, realizzato.
Si tratta di un progetto molto particolare, realizzato grazie a un singolarissimo materiale sonoro: una lingua fischiata – utilizzata sull’isola La Gomera nelle Canarie (altri esempi di questo genere di “linguaggio” si possono trovare in Messico, e sui Pirenei).
Si tratta di un modo di comunicare a lunga distanza (“El Silbo Gomero”), anche fino a tre chilometri, in buone condizioni di vento; è una lingua sostitutiva che comprime le vocali e le consonanti dello spagnolo, in un numero più ridotto di segni fischiati.
Questo permette alle persone di comunicare in un paesaggio molto accidentato, ma con luoghi dove ci sono poderosi effetti di eco. Alessandro Bosetti spiega che le persone che usano questo linguaggio conoscono le proprietà acustiche del territorio e sanno dire per esempio che sulla spiaggia, il suono si propaga fino a duecento metri.
“Queste persone, inoltre, sono abituate a fischiare sempre negli stessi posti, perché magari sono agricoltori che lavorano nella loro terra, quindi conoscono come reagisce il suono nei diversi paesaggi, tanto che chiamano “campanas” alcuni luoghi particolarmente risonanti.
Sanno che in una determinata “campana” il suono viene proiettato a distanza. In generale, si tratta di un processo di comunicazione molto lento, i “parlanti” si interrompono costantemente per verificare la ricezione di ciascun passaggio del “discorso” (“Tu me entiendes? Bueno, bueno o non me entiendes?”).
C’è una specie di continuo ricorso al binomio trial and error, ma
potenzialmente si può parlare di tutto. È una lingua sostitutiva applicata allo spagnolo in quel caso, ma potrebbe essere applicata a qualsiasi altra lingua.Ho lavorato su questo progetto non appena ho avuto modo di leggere la descrizione di questa situazione e ne ho tratto una trasmissione radiofonica e una versione documentaria.
Il dispositivo che avevo scelto era scrivere brevi testi poetici, lavorare con i pastori che parlavano la lingua, con ragazzi che la imparavano a scuola ed elaborare giochi di telefono senza fili.In sostanza, chiedevo di trasmettere i testi che avevo scritto e raccoglievo quello che capivano. Poiché è una lingua usata per questioni molto pratiche (“ho bisogno che tu mi venga ad aiutare a scaricare”, “Ora sta per piovere.”), o serviva come allerta durante il franchismo, ci sono difficoltà nel tradurre
concetti più astratti.Perciò, quando le persone trasmettevano i miei messaggi si permettevano grossissime libertà di traduzione. Per esempio, le frasi “Il molle rompe il duro. Il morto porta il vivo” che avevo scritto, sono diventate nella traduzione “L’acqua, rompe la pietra.”
Con questi elementi ho elaborato una creazione radiofonica, un montaggio in cui la presenza, la spazialità del suono è presentissima. Il suono è nato in risposta alla morfologia dell’isola, è estremamente determinato dal contesto geografico, un fenomeno in cui spazio e suono sono completamente incastrati, uno nell’altro.
Cerco sempre un modo di comunicare anche agli studenti, quando parlo per esempio di teatro musicale o di performance sonora, per trovare forme di interdipendenza fra suono e spazio tra suono e narrazione.”
Prosegue….