Festival Danae e drammaturgia domestica (ma non addomesticata)

Dopo anni pesantissimi di reclusione forzata, di arresti domiciliari imposti a milioni di persone le conseguenze sulla vita teatrale non si possono dimenticare, o fingere che non ci siano state.

Sopravvivere in questo periodo è stato ancora più difficile per chi opera in questo settore, rispetto ad altre categorie professionali, perché quello della cultura è già un campo precario, instabile, scarsamente considerato a livello governativo. Non (sol)tanto per mancanza di flussi di denaro, ma per chiare scelte e responsabilità politiche. La cultura è un settore scomodo, perché aiuta a sviluppare coscienze critiche, pensiero indipendente, autonomia di azione.

'Danae Festival 2022 - presentazione

Fra i sopravvissuti alla pandemia, grazie alla tenacia e alla capacità di porsi e di porre domande c’è Danae Festival, una pietra miliare nella vita culturale indipendente di Milano e italiana, alla sua XXIV edizione.  Fondato nel 1999 da Alessandra De Santis e Attilio Nicoli Cristiani, è caratterizzato da uno sviluppo contemporaneo in più luoghi, molti dei quali posizionati al di fuori dallo spazio teatrale e, in generale, estranei agli aspetti più tradizionali, pigri, di routine di tale dimensione. Quest’ultimo tratto induce a collocare questa realtà fra le più significative e originali del panorama italiano.

Abbiamo inaugurato questo blog con una loro intervista, mi sembrava quindi giusto e importante farne una seconda in questo momento di riappropriazione delle nostre vite e dei nostri spazi/tempi dopo un periodo di “stasi”, incubazione, galleggiamento coatto in una bolla sottovuoto.

Per questa intervista, abbandono le domande canoniche e ne preparo alcune più adatte al contesto della nuova edizione del Festival. Così la prima domanda che rivolgo ad Alessandra De Santis riguarda la richiesta di parlarmi del concetto di drammaturgia domestica, posto che il Festival quest’anno ruota attorno a quello di “casa”.

Muta Imago, Ashes, Danae Festival. Milano
Muta Imago, Ashes, Danae Festival. Milano. Credits: Claudia Pajewski

Drammaturgia domestica

Nel guardare il programma del Festival Danae 2022, in apparenza si può notare una scelta piuttosto insolita, relativa alle sedi ospiti dei diversi progetti artistici. Ovvero, c’è una netta maggioranza di luoghi al chiuso, di spazi teatrali veri e propri rispetto alla pratica di utilizzare luoghi della città. Un particolare che mi sorprende, anche se, in effetti, mi rendo conto che nel mettere al centro dell’attenzione “la casa” sia conseguente una ricerca di spazi chiusi.

Chiedo allora ad Alessandra di parlarmi di questa scelta e del rapporto con lo spazio che contraddistingue questa edizione, rispetto al “nuovo corso” del Festival rinato dopo il Covid.

“Veniamo da due anni e mezzo di sfacelo, come ben sai, per il settore teatrale in genere e, in particolare, per le piccole realtà come la nostra, ma forse con molti anticorpi perché abituate a fare con poco.

In questo periodo di per sé drammatico, abbiamo subito tagli, anziché essere supportati, siamo stati subissati di problemi e abbiamo dovuto cambiare molte cose.

L’anno scorso abbiamo fatto il Festival perché era una questione di sopravvivenza, perché ci vuole continuità, senza contare che volevamo mantenere il patto con gli artisti che avevamo dovuto bloccare l’anno prima a causa della pandemia.

Fino all’ultimo non si sapeva che cosa si potesse fare e che cosa sarebbe stato proibito e poi c’era l’imposizione della distanza e delle mascherine.

L’imperativo era perciò quello di mantenere vivo il festival, di farlo. Per l’edizione di quest’anno ci siamo presi il tempo del pensiero. È stato necessario porsi delle domande che avevano a che vedere con il senso del nostro lavoro.

Cosa abbiamo da dire ora e come vogliamo dirlo e come possiamo riconquistare il legame, la vicinanza con lo spettatore?” ma soprattutto: “Che cosa vogliamo sia questo Festival? Qual è la direzione? Che cosa possiamo fare con quello che c’è, con quello che abbiamo?” Sicuramente vogliamo che questo Festival sia una casa, un luogo non solo fisico, dove si possono accogliere gli artisti, le artiste, i progetti, ma dove si possano creare le condizioni per qualcosa che ancora non ha nome.

Una dimensione in cui prendersi il lusso di stare nello “sconosciuto”, nel non sapere. Quindi dare la possibilità di studio, di ricerca.”

Edoardo Mozzanega, "Nico demini cu. Ovvero la casa brucia e il fumo è rosa" - Presentazione di "Neutopica". Sezione "Laterale", Danae Festival. Milano. Credits: Maurizio Anderlini
Edoardo Mozzanega, “Nico demini cu. Ovvero la casa brucia e il fumo è rosa” – Sezione “Laterale”, Danae Festival. Milano. Credits: Maurizio Anderlini

Laterale

Fra le domande che desideravo porre ad Alessandra e ad Attilio c’era quella riguardante il significato della sezione del Festival chiamata “Laterale”. In realtà Alessandra me ne ha parlato spontaneamente, nel flusso del discorso che si è avviato attorno al concetto di casa.

Le diverse attività della “casa”, intesa come Danae Festival, comprendono anche quella di

“creare uno spazio di pensiero, uno spazio del racconto”. In particolare, grazie alla sezione “Laterale” che accoglie progetti inediti, interventi che hanno a che fare con la prassi, con i percorsi, con esperienze di vita in dialogo con l’arte.

Il termine Laterale non indica qualcosa in secondo piano, ma si riferisce a uno spostamento nelle forme, nello sguardo, nel punto di vista. E infatti quest’anno è diventata piuttosto centrale rispetto alla totalità della programmazione, ampliandosi molto.

Il concetto di casa, quindi, è quello attorno al quale si è andato costruendo il Festival. La casa che durante la pandemia è diventata il contenitore di tutte le nostre sfere sociali, generando sentimenti ambivalenti.

Si è sicuramente trasformata la relazione con gli spazi domestici che sono stati a lungo l’unico luogo dove poter agire. Molti hanno messo in atto cambiamenti a volte anche radicali circa l’abitare, cambiando casa, residenza, modalità abitative, costruendo progetti di comunità.

La casa riveste da sempre una molteplicità di significati che vanno ben oltre l’idea della struttura, è un luogo affettivo più che fisico. È anche la prima esperienza di confine, determina un dentro e un fuori, che possono essere più o meno rigidi.

È il luogo in cui la persona inizia a definirsi, in cui si sente al sicuro e contenuta, ma è anche spazio che ci limita e ci rinchiude. Poi c’è il corpo, il corpo che è la nostra prima casa, il nostro primo abito, che ha dovuto trovare strategie e modalità per esprimersi nonostante i divieti e le distanze.”+

Nuovi intrecci e nuovi percorsi

A proposito dell’idea di “casa” Alessandra con cautela ricorre a una parola che lei stessa definisce ormai “abusata”. La casa, infatti, implica anche “una questione di cura” declinata e applicata in diversi modi: “La cura delle relazioni, delle persone, la cura di se stessi e del modo in cui fai le cose”.

Alessandra sembra ancora insoddisfatta della definizione e cerca un altro modo di spiegare quello che intende: “Anziché cura, si potrebbe dire “fare bene”, così magari facendo bene “si fa anche il bene.”

Ivan Carozzi "Cosmo domestico", Danae Festival, Milano
Ivan Carozzi + RadioVisione
Cosmo Domestico. La casa di Via Silvio Pellico. Visita all’appartamento di Gustavo Adolfo Rol

Il fare con cura, ovvero il fare bene diventa una chiave importante di lettura del lavoro e dell’operare di Alessandra e Attilio che si definiscono due figure “un po’ anomale” nel panorama teatrale italiano.

Non a caso, di recente sono entrati in contatto con realtà altrettanto particolari: il Festival Teatri di Vetro curato da Triangolo Scaleno di Roma, e AltoFest, curato da TeatrInGestAzione di Napoli (con i quali hanno presentato “Tessere”, insieme al mediatore culturale e dramaturg Giulio Sonno).

Alessandra mi spiega che le tre realtà pur nelle loro diversità, condividono uno spirito simile, innanzi tutto sono tutti/e artisti/e che hanno deciso di curare un Festival e di farlo in un certo modo, offrendo alle realtà artistiche spazio e ascolto, lavorando su nuovi formati, rendendo visibili i percorsi e, come ha già accennato, creando spazi di racconto e di pensiero, che mettono in connessione la dimensione artistica con quella politica.

Rapporto con il pubblico (e con le istituzioni)

“Il sistema teatrale in Italia è piuttosto disastroso, un sistema che tende all’iperproduzione, concedendo pochissimo spazio e tempo allo studio e che sicuramente non premia realtà e spazi che tentano un approccio critico.”

Non è un caso. Si tratta – a mio giudizio – di una forma di censura preventiva, latente e strisciante nei confronti dei contesti indipendenti che si scostano dal sistema e lo mettono in discussione.

Nonostante tutto il comparto culturale e soprattutto quello teatrale in Italia sia poco considerato, dice Alessandra:

ogni essere umano ha bisogno di una “dimensione immaginativa”. So per certo che anche persone che non fruiscono abitualmente di offerte culturali, nell’improvviso vuoto creato dalla pandemia di ogni proposta e stimolo intellettuale, hanno potuto cogliere la mancanza di quella dimensione.”

Qui entrano in gioco il sistema scolastico nella sua totalità e l’organizzazione dell’intera vita culturale in questo Paese, che sarebbero entrambi da sottoporre a radicale cambiamento.

A questo riguardo, esterno il mio personale sdegno per il circolo vizioso che si è creato ormai da decenni, fra lo screditamento degli insegnanti, attraverso il basso riconoscimento economico, lo scarso prestigio sociale e la diffusa impreparazione dei medesimi, non solo nelle materie scientifiche, ma anche in quelle artistiche (in particolare il teatro e la musica).

In questa situazione di sconforto, Alessandra dice di non credere tanto nelle rivoluzioni che, troppo spesso falliscono o deludono (a eccezione forse del movimento femminista che ha fatto enormi passi), ma pensa che la trasformazione possa avvenire

“goccia a goccia, come acqua che scava la pietra. Si possono e si devono fare piccole e anche invisibili azioni, sotterranee ma persistenti. Ognuno con quello che può, impegnandosi in una lenta ma profonda semina, con i mezzi pochi o tanti che ha a disposizione, con coerenza e onestà.”

Progetto Okko, "Impossibile, è solo una parola", presentato a Danae Festival, Milano
Okko: “Impossibile, è solo una parola”, per “Laterale” di Danae Festival, Milano. Credits: Maurizio Anderlini

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