La drammaturgia degli spazi comprende molte e stratificate questioni, si muove e agisce in una terra di confine fra arti performative e arti visive.
Una di queste riguarda l’esplorazione dello spazio realizzata attraverso il movimento, l’azione dell’attraversare uno o più luoghi, da parte di chi idea e crea il progetto e le sue conseguenze, ovvero l’esecuzione completa del lavoro stesso.
L’attenzione può essere posta su elementi differenti e a differenti livelli, può essere importante in sé, parte dell’opera, o necessaria per la sua produzione. In ogni caso, se desideriamo restare in un ambito di ricerca artistica è importante valutare la scelta dei sostantivi usati per definire questo genere di lavori.
L’esplorazione dei luoghi in cui viviamo, il confronto con differenti tipologie di paesaggi, con le esperienze delle persone che li vivono da parte dell’autore di un progetto di drammaturgia degli spazi (nello specificità urbana, montana, rurale, fluviale, marittima, etc) sono attività necessarie per questo genere di lavori.
Come al solito, quale evidente segno di soggezione culturale, il desiderio di sembrare aggiornati, informati, internazionali conduce ad adottare in modo approssimativo termini tradotti in modo letterale dall’inglese, anziché pensare al significato di quelli direttamente disponibili in italiano.
La parola inglese “walk”, in riferimento all’arte (walking art, art of walking, artist’s walk) è “aperta” e ambigua, i lavori che utilizzano questa “etichetta” o la sua traduzione italiana (passeggiata) possono avere l’aspetto di sottoprodotti culturali, forme di intrattenimento, o di self marketing, contrabbandati per progetti artistici. Oppure, l’estetizzazione del paesaggio o la personalità del performer possono prendere il sopravvento e anziché un dialogo con lo spazio si assiste a un monologo autoreferenziale.
Dal mio punto di vista, il termine “passeggiata” è inadatto a indicare questa attività esplorativa, riservato, piuttosto, alla dimensione ludica-ricreativa. La mancata presa di consapevolezza nell’uso delle parole aiuta a scivolare in fraintendimenti.
Uno di questi porta a inserire/accreditare eventi che rientrano in percorsi turistici, o enogastronomici nella dimensione artistica (con buona pace di tutti i cultori della cucina gli chef stellati sono bravi imprenditori, alti artigiani, ma nulla hanno a che fare con il mondo dell’arte).
Il passeggiare nel Peripato (Περίπατος), ovvero il colonnato del Ginnasio di Atene, da cui il termine peripatetico applicato, nell’uso comune, a chi vagabonda, passeggia, era un’attività che si eseguiva mentre si discuteva e si ragionava di questioni filosofiche.
Implicava quindi brevi percorsi ed era, in sostanza, un’attività fisica di supporto all’impegno, allo sforzo intellettuale. Un modo di coinvolgere corpo e mente con finalità di rendere fluido il pensiero.
Diversa ancora la condizione del “promeneur” Jean Jacques Rousseau perso nelle “fantasticherie di un passeggiatore solitario” e del “flaneur” di fine XIX secolo, che passeggia vagabondando, senza uno scopo preciso, come antidoto alla società imperialista francese del secondo Ottocento. Entrambi hanno la possibilità di accedere alla meditazione filosofica, a uno stato quasi di “trance”, di sogno ad occhi aperti.
Walter Benjamin con Paris Capitale du XIXe siècle. Le Livre des Passages ha lasciato un libro illuminante a questo proposito. Il tratto in comune è quindi lo stato di solitudine, cercata, voluta, desiderata. Una solitudine grazie alla quale si possono raggiungere gli abissi, o le vette di un’esplorazione contemporanea dello spazio esterno e di quello interiore.
Un’altra parola chiave da evocare la offre il tedesco. “Wanderer” è il vagabondo, un personaggio ricorrente nei lavori poetici e musicali del primo Romanticismo (per esempio la raccolta di lieder intitolata “Winterreise” alla sonata Wanderer di Schubert). La presenza dell’elemento naturale ha un ruolo primario, come cassa di risonanza del mondo interiore.
Per indicare i progetti più significativi di attraversamento degli spazi, mi sembrano invece più adatte le parole “cammino” – inteso come attraversamento consapevole – ed “esplorazione”, grazie alla loro densità di significato anche sul piano metaforico e simbolico.
In questo ambito possono rientrare lavori e progetti condotti da autori interessati a raggiungere personalmente e a far raggiungere ai fruitori una presa di coscienza maggiore rispetto a un certo luogo, territorio e alle questioni che pongono e contengono.
Tutto questo avviene al di là dell’immediatezza della mera visione paesaggistica, del godimento estetico, dell’emozione facile/scontata, o dello stupore per il “caratteristico” fini a se stessi.
La parola “cammino” accoglie al suo interno e rimanda a molteplici questioni, evoca un percorso evolutivo, una faticosa ascesa, o un’esplorazione profonda del territorio e di sé. Si tratta di una parola dantesca, con cui si inaugura un percorso interiore.
La religione cattolica ha in verità impresso al sostantivo “cammino” anche una valenza di espiazione, legata al pellegrinaggio, ai voti per grazie ricevute o da ricevere (nel consueto do ut des promosso dalla Chiesa), alla fatica fisica come mezzo penitenziale per assicurarsi eventuali salvezze ultraterrene.
Questo senso però è estraneo al mio approccio all’esplorazione del territorio e al suo attraversamento-misurazione.
Il cammino può essere effettuato da soli o in compagnia, a qualunque ora del giorno, o della notte, implica concentrazione e fatica fisica perché presuppone medie e lunghe distanze, sia in termini letterali, sia metaforici. Implica quindi uno sviluppo temporale consistente, un impegno protratto.
Il cammino, l’attraversamento dello spazio da parte di chi crea il progetto può insistere sul valore dell’atto in sé, delle particolari condizioni psicofisiche e territoriali, oppure può originare un lavoro materiale o immateriale. Il corpo “misura” lo spazio, percepisce le distanze, la vicinanza, i rapporti con gli altri corpi (a qualunque specie appartengano).
Da questo punto di vista l’attraversamento-misurazione può essere compiuto da chi pensa il progetto, o coinvolgere anche i visitatori chiamati a “trasferirsi”, o compiere un percorso su distanze variabili.
D’altra parte anche visitare un museo o un parco comporta il percorrere spazi più o meno ampi. Quindi da questo punto di vista non c’è niente di “nuovo” nell’azione in sé del camminare guardando un prodotto artistico. Sono “inaspettati” la scelta dei luoghi, in sé, o la collocazione di opere, o ancora le interazioni con i visitatori.
Il cammino è qualcosa di molto diverso, anzi di opposto alla passeggiata e lo possiamo verificare non appena pensiamo all’uso comune di questa parola in francese.
La “Promenade” è un’azione da effettuare su viali alberati, incoronata all’epoca di Hausmann e dei suoi boulevard, quando l’alta borghesia e la nobiltà parigine (più o meno recente) esibivano la propria presenza.
Una tradizione che in precedenza costituiva una parte importante nella vita quotidiana delle principali città europee, da Londra a Parigi, a Milano, Roma, Venezia, Napoli. Queste passeggiate erano fra l’altro eseguite a cavallo, in carrozza, e per brevi tratti eventualmente a piedi.
La passeggiata-promenade è quindi di un’azione che contiene un forte aspetto narcisistico ed esteriore, una parata, una processione quale rito quotidiano.
Un evento contrassegnato da forte teatralità, autocompiacimento, competizione, inquinato sovente da atteggiamenti di processo-giudizio, derivati da invidia, maldicenza, individuabile ancora nel cerimoniale della “vasca” o dello “struscio” nelle città di provincia.
In sintesi, sul piano storico, sul piano dell’esplorazione a piedi del territoro e dello spazio, abbiamo alcune immagini di riferimento. Fra le più importanti emergono
- quella di Rousseau, filosofo ginevrino illuminista che passeggia da solo, fantasticando;
- quella del vagabondo protoromantico, il Wanderer, che erra senza uno scopo preciso, seguendo piuttosto un’inquietudine interiore e al contempo un desiderio di esplorare luoghi diversi, a misura delle proprie capacità di spostamento, piccole o grandi;
- quella degli scrittori ottocenteschi che creano personaggi in cerca di solitudine notturna in una metropoli affollata e soffocata nel suo cuore dai negozi di lusso.
Questa premessa dedicata all’uso delle parole legate all’azione dell’attraversare lo spazio dei nostri corpi costituisce un momento di riflessione necessario, preludio all’analisi di alcuni modi di affrontare queste problematiche da parte di autori contemporanei attivi nelle arti visive e nelle arti performative.
(Continua)