Stazione di Topolò – Intervista a Moreno Miorelli, direttore artistico.

Nel 1994 Moreno Miorelli crea un Festival in una delle valli del Natisone in Friuli Venezia Giulia, una terra di confine con la Slovenia. All’epoca è una zona militare dal periodo della Guerra Fredda. All’insaputa dei cittadini italiani che vivono nelle altre regioni, si instaura un clima di pesanti censure e di spionaggio. E’ qui che viene fondata quell’apparato paramilitare deviato che nel resto della penisola verrà conosciuto più tardi come “Gladio”.

In questo contesto, nel 1994 Moreno Miorelli, originario di Biella e nato da genitori trentini, fonda la Stazione di Topolò e ne diviene il direttore artistico. Sul piano della comunicazione è un festival, ma nei fatti è un vero e proprio laboratorio di idee, di progetti, di discussioni che nel tempo hanno raccolto il passaggio di moltissimi artisti provenienti da tutto il mondo.

Veduta di Topolò, Frazione del comune di Grimacco, in provincia di Udine. Gennaio 2021

Questi progetti hanno un tratto comune, una forte attenzione per lo spazio e per i luoghi, con le loro specificità. Non poteva quindi mancare un articolo dedicato a questa realtà. Rivolgo quindi anche a Moreno le domande canoniche, anche se in questo caso anziché parlare di drammaturgia urbana, mi adatto al contesto di quota.

DRAMMATUURGIA MONTANA

S: Che cos’è per te, come definiresti il concetto di “Drammaturgia montana”

M: “Questo dovresti spiegarmelo tu sei venuta con un progetto di drammaturgia montana e lo chiedi a meÖ vorrei vedere lo sviluppo del tuo lavoro per capire che cosa sia la drammaturgia montana! Questa potrebbe essere la fine della mia risposta.

Il concetto di Drammaturgia montana da queste parti si sovrappone alla drammaturgia di confine che mi sembra anche più interessante della drammaturgia montana qui di drammi ce ne sono stati parecchi, dal primo giorno di Capodanno del 1900 fino allíultimo giorno dell’anno del 1999.

Installazione per La Stazione di Topolo, realizzata da
Donato Maria Bortolot: Installazione “El cielo no tiene frontera”. Topolò.

Perchè in questi luoghi c’è solo l’imbarazzo della scelta a questo proposito, tra battaglie di Caporetto, leggi fasciste contro la lingua minoritaria,- che qui è la lingua slovena,- la seconda Guerra Mondiale, con partigiani bianchi contro partigiani rossi, partigiani jugoslavi, cosacchi e infine il dramma della Guerra Fredda.

Quest’ultimo infatti ha svuotato la zona della sua popolazione, in quanto fino al 1991, cioè fino alla fine della Jugoslavia, questa era di fatto una zona militare. La popolazione è passata dai 21.000 abitanti del 1945 ai 6.000 di oggi, con una perdita nei paesi montani, e questo è un altro dramma, del novanta per cento. Devi pensare che Topolò ha avuto un massimo di circa 370 abitanti e ora – che siamo in crescita arriviamo a 25…

Non so se la parola drammaturgia abbia a che fare con la parola dramma, ma qui ognuno ha storie molto interessanti. Anche un contadino, vissuto a Topolò dal 1915 in poi può raccontare agli studenti la storia del Novecento.

Così nel pensare a che cosa sia la Drammaturgia montana o la drammaturgia di confine, mi viene da dire: drammaturgia di confine montano. Mi sembra ancor più succulento come concetto.”

S: E’ dal 94 che qui fate drammaturgia montana, siete dei pionieri…

M: “Qui nella valle sì. Gli artisti invitati nel ’93 a fare i sopralluoghi, per parlare con la popolazione partecipare a questo progetto, di fatto hanno lavorato sul dramma di queste zone.
La richiesta che facevo loro era di non creare tensioni, ma di rendersi conto che si aveva a che fare con una zona e con abitanti profondamente feriti, con ferite aperte. Si cammina sui vetri, quando si parla di certi argomenti.

Installazione di Donato Bortolot "El cielo no tiene frontera"
Donato Maria Bortolot: “El cielo no tiene frontera”. Installazione. Topolò.

C’è stata quindi una drammaturgia identificabile con il confine, parola paradossalmente diventata un tabù. Una presenza quotidiana che era anche un tabù.
Ho pensato che questo confine-tabù bisognasse trattarlo in maniera metaforica, il confine come metafora. Anche i confini interiori.

C’è un’opera vicino alla chiesa, un cippo creato da un artista veneto concettuale – Donato Maria Bortolot che vive a 1400 metri, a Zoppè di Cadore. Voleva lavorare con cartoline di Topolò, ma gli ho spiegato che anche per fare le fotografie bisognava chiedere il permesso al Ministero della Difesa, perchè era vietato in quanto zona militare (divieto di immagine).

Si è molto sorpreso perché è una situazione difficile da concepire. Così è andato a Cividale a comprare una Polaroid, cemento, sabbia e ha eretto un parallelepipedo, con una citazione di Garcia Lorca “El cielo no tiene frontera”, dentro al quale c’è dentro la macchina fotografica murata.

Quella è stata l’opera più diretta. Ma ci sono stati altri lavori, uno particolarmente significativo. Appariva un paravento senza la tela, con tanti occhi che giravano a 360 gradi. Erano lavori che trattavano la problematica del confine in maniera non violenta, mai aggressiva, altrimenti si sarebbe spaccato il paese e non avremmo potuto proseguire in questo progetto.”

Confini fra Italia e Slovenia, in un lavoro fotografico sui confini
Topolò and the border.

S: Parlami di come ti rapporto con lo spazio, che cosa rappresenta per te e come lo intendi e ti relazioni con il medesimo nella progettazione del festival.

M: “Non ci ho mai pensato. Mi viene in mente una storiella zen. Quella del bruco che cammina con i suoi millepiedi e incontra un saggio che gli chiede “hai mai pensato come fai a muovere in maniera armonica mille piedi?”. Lui ci pensa e inciampa e non riesce più ad andare avanti.
Io mi sento un po’ così. Non mi chiedo quello che faccio. Com’è il mio rapporto con lo spazio? Non lo so. Vivo un po’ come un animale.
Sono dove mi si posa lo sguardo. Ho cambiato tantissime case, in tantissimi posti, nella mia vita, ma l’unica cosa che mi interessa è ciò che si vede dalla finestra.
Non mi interessa se manca l’impianto di riscaldamento o altro, mi interessa che si veda qualcosa di bello al di là dei vetri.
Andrei a vedere qualunque mostra dove ci siano paesaggi e i viaggi mi entusiasmano perché dietro ogni curva può esserci qualcosa che migliora la mia vita. Mi piace molto guardare il paesaggio. E’ molto importante per me. In Val d’ Orcia ero rapito da Montepulciano e dai suoi colli, dove ero andato a vivere, per esempio.
Preparazione dello schermo per proiezioni cinematografiche, Festival Stazione di Topolò.
Preparazione dello schermo cinematografico, Stazione di Topolò.
Non potrei mai vivere in un luogo che considero brutto. Come mi rapporto con lo spazio? Non lo so. Cerco sempre di stare fuori casa. Nelle case sto molto stretto. Mi sembra che non mi servano a parte ripararmi dal freddo. E’ come per i vestiti. L’importante è che abbiano la loro funzione, che mi permettano la sopravvivenza.”

S: Vuoi aggiungere qualcosa sullo Spazio legato al festival?

M: “Nel 1993 quando mi proposi di fare qualcosa nelle valli del Natisone – su suggerimento di artisti che già conoscevo,  – mi sembrava un delitto che una zona ricca di storia e bellezza come questa non fosse conosciuta.

Mi sono reso subito conto che qui potevano confluire le molte esperienze raccolte nei vari luoghi dove avevo vissuto e dove ho conosciuto artisti e persone che hanno dedicato la loro vita… alla bellezza: artistica, spirituale o scientifica.

Il successo immediato della Stazione di Topolò è dovuto proprio al fatto che così facendo si è puntato un riflettore, si è aperta una zona ancora “vergine” per la stampa, per l’informazione.
Come era anche  la Val d’Orcia fino al 1983, quando Nostalghia di Tarkovskij la trasformò (anche troppo) in un luogo “di culto” .
Presi ad esplorare diversi paesi della valle, ma avevano tutti qualcosa che non funzionava a livello di spazio, o erano troppo disperse le case, troppo distanti, o vi era un senso di tristezza, di cupezza incombenti. Avevo gli artisti, avevo il progetto, sapevo cosa non fare, soprattutto, ma mancava il luogo.
Un amico, Alessio Petricig, mi suggerì allora di andare a vedere Topolò. Così ci andammo insieme, qualche giorno dopo; ho visto questo paese dalla curva e mi sono detto, “forse questa volta ci siamo”.
Aveva spazi larghi e spazi stretti,  corsi d’acqua ed ebbi soprattutto la fortuna di incrociare subito persone solari e disponibili: Carla, Romilda, Alfonso.
Tutti mi indirizzarono verso quello che è stato il deus ex machina del momento: Renzo Rucli, un architetto del luogo che era il punto di riferimento, l’uomo di fiducia dei topoluciani.
Fu lui a organizzare una riunione pubblica per introdurmi e a organizzare i primi lavori; sintetizzando, fu lui a dire al paese “fidatevi di lui”.
Nel 1993 ero totalmente sconosciuto in questa parte di valle e a Topolò ancor più. Gliene sarò sempre grato. Cos’ è nata la Stazione-Postaja. Fu subito chiaro che questo luogo poteva anche diventare, occasionalmente, un teatro all’aperto pur restando sempre un paese.
Per me è ancora importante che non diventi un mero “luogo di cultura” all’aperto, che non si snaturi il suo essere paese.”

S: Come pensi e cosa pensi attorno circa il rapporto con il pubblico?

M: “Una delle cose alle quali tenevo moltissimo era che il pubblico fosse il meno pubblico possibile. Nel senso che partecipasse a questo progetto, senza un muro divisorio tra chi fa e chi guarda.

Concerto per Fujiara di Veronica Vitazkova in località a Stamorciak
Non a caso, nel 2000, dopo sette edizioni, presi la decisione di togliere ogni aspetto espositivo, perchè si stava creando sempre più un divario, fra chi realizzava un progetto artistico a Topolò e chi invece veniva a vederlo. C’era il pericolo che si creasse una specie di mordi e fuggi.
La cosa che mi ha ispirato di più è stato l’aver vissuto a Montepulciano ed aver fatto il manovale al Cantiere Internazionale d’Arte: ero quello che guidava il furgone per il trasporto del materiale per concerti, e altro.
Era, è,  una manifestazione internazionale di arte con una magnifica caratteristica: direttori d’orchestra, attori, tecnici vivono disseminati nelle case del paese, non sono internati in albergo. Mangiano tutti insieme nella scuola, i costumi li confeziona la scuola di costume del paese, le comparse sono reclutate sul posto.
Tutto ciò mi era rimasto dentro, ai tempi ero un ragazzino.
Al mattino fare colazione con Marcel Marceau o con il giovane Ludovico Einaudi mi sembrava una cosa miracolosa, non eravamo separati dagli artisti, eravamo tutti sullo stesso piano. Anche a Topolò questo per me è fondamentale.
Non ci deve essere differenza di livello fra chi fa, chi guarda,  chi vive nel paese. Alla Stazione non esiste il fatto che tu pensi di essere superiore perché sei un artista. Si crea una specie di comunità per qualche giorno, magari anche con le sue tensioni.
Foto del laboratorio per computer music per ragazzi.
Laboratorio di computer music per ragazzi realizzato da Massimo Croce. Credits: Maria Silvano.
Dal 2000 sono partiti workshop che hanno avuto la funzione di trasformare il pubblico in protagonista e di portare molti giovani. Oggi avrei problemi a coordinare una rassegna di arti visive. Mi manca lo stimolo per realizzare un progetto dove la gente arrivi solo per guardare qualcosa e tornare a casa. Questa è la mia visione circa il rapporto fra pubblico, artista e opera.”

S: Che cosa ti fanno venire in mente le parole Trama-intreccio

M: “I concetti di trama e intreccio hanno a che fare con il teatro. Ë una disciplina che io non amo particolarmente. Sono molto in difficoltà perchè dal punto A al punto B preferisco la linea retta..”

Invio Moreno a usare la parola “intreccio” nel modo che preferisce e la conversazione riprende.

M: “Dalla prima edizione di Topolò all’ultima non ci sono numeri di telefono e curricula alla sua base. Ci sono solo relazioni personali. In particolare, nei primi anni mi sono basato quasi esclusivamente su relazioni personali consolidate da anni, su artisti e persone che già conoscevo, più qualche nome di area slovena che mi veniva suggerito.

In seguito, la rete si è ampliata moltissimo, anche grazie alla nascita delle Ambasciate e delle persone che hanno preso a collaborare al progetto: Donatella, Antonella, Michele e altri.
Il senso del progetto per me è anche quello di ritrovarsi in questo luogo sperduto dove possano nascere relazioni fra persone che senza saperlo si scoprono essere compagni di strada.
Ci sono le affinità elettive ed è curioso che vengano scoperte in un luogo remoto, circondato da boschi. Succedono cose stranissime. Anni fa ci fu una cena a New York, fra la persona che sovrintendeva ai lavori di Sol Lewitt, John Hogan, Bill Morrison , Daniel Zezelj, Jan Van der Ploeg, Al Margolis.
Vivevano o transitavano nella stessa città e decisero di fare una cena per conoscersi perchè tutti e cinque avevano un solo punto che li accomunava: aver partecipato alla Stazione di Topolò. Trovo questo magnifico.
Un’altra cosa importante sono le relazioni che nascono qui, a livello personale e dal punto di vista artistico. Sono nate collaborazioni e progetti molto belli da parte di persone che abitano in luoghi diversi della terra e che continuano a collaborare. Per questo quando dicono che Topolò è un festival, e tante volte lo dico anch’io perchè burocraticamente è un festival, in realtà mi sembra impreciso, si tratta di un laboratorio.
 Il direttore di un festival guarda il panorama delle discipline che tratta, vede che cosa gli piace di più, alza il telefono e si informa sul cachet dell’artista per capire se possa permettersi di ingaggiarlo. Qui le cose arrivano da sole.
Ogni tanto ricevo mail da persone a me assolutamente sconosciute, ma mettono un tale líentusiasmo nelle righe o tra le righe scritte da desiderare di accoglierli come topolonauti.”

S: Chiedo a Moreno di parlarmi di Personaggi. Possono essere persone, personaggi, inerenti al festival, o persone che sono trasformabili in personaggi…come al solito le domande si basano su concetti molto flessibili e presuppongono risposte molto libere…

Concerto al Festival di Topolo
Stazione di Topolò. Un concerto notturno tenuto nella vecchia scuola. Credits: Maria Silvano

M: “Io cerco di deteatralizzare la vita e tu proponi la teatralizzazione.”

S: È impossibile togliere le maschere, ne togli una e ne salta fuori un’altra

M: “C’è un giorno ogni settimana in cui do una mano in un posto dove ci sono molte persone disagiate e, finalmente, sto molto bene lì, mi ricarico: i cosiddetti “ultimi” non hanno maschera e lavorare tra loro mi rasserena.

Chi non ha più niente da perdere perchè ha già perso tutto non deve fare finta di essere altro, non deve sembrare di essere qualcosa d’altro. Questo purtroppo è invece il problema di chi si occupa di cultura e che, ti confesso, mi sta stancando assai.

Per quanto riguarda la mia vita ho avuto tante persone fondamentali. Sono stato fortunato. Non saprei dire quale sia la caratteristica che le accomuni, forse la curiosità patologica per tutto. A volte ti accorgi che ci sono persone simili a sorelle o fratelli, con le quali combaci perfettamente e nascono delle relazioni indistruttibili.

Mi è capitato a Biella con tre persone in particolare, una di loro non c’è più. A Montepulciano è accaduto con Andrea Pazienza con il quale avevamo un rapporto strettissimo, ogni giorno era un’emozione, ci siamo scambiati moltissime cose. Purtroppo è morto nel 1988 e non ha mai potuto venire a Topolò.
Ci sono persone importantissime per me che ho conosciuto alla Stazione.  Personaggi unici, sono mio padre e mia madre. Ancora oggi, quando ci penso, mi sembra siano stati extraterrestri. Non c’è mai stato uno scatto d’ira, o un deficit di energia, di sconforto. Non ho mai captato un loro possibile litigio, nuvole sulla testa, e non eravamo ricchi.
Non ho mai sentito parlare di numeri, in relazione all’economia di casa, nè udito volgarità. Forse i personaggi più importanti sono proprio loro, per me. Avevano un comportamento naturale, mai forzato, con nessuno di noi, tre fratelli maschi, veramente impressionante.
Mio papà è sempre stato di una grande serenitè, anche se a 49 anni, per un problema al nervo ottico è diventato cieco, ha continuato a essere cosÏ, non c’era un momento di tristezza. Io ancora oggi mi chiedo come sia stato possibile mantenere nel comportamento un grafico così costante, senza sorprese negative.
Non li ho mai sentiti dire “ah, avessimo”, eppure sapevo che a volte si faticava ad arrivare alla fine del mese. L’ho capito perché vedevo che mia madre ogni tanto riceveva lettere con dentro biglietti di banca dai nonni. ma mai un lamento, un “non possiamo”: una scuola di sobrietà serena unica.
Se dovessi quindi scegliere i personaggi più estremi della mia vita prenderei le persone più normali, i miei genitori, due persone semplici. Non erano intellettuali, non leggevano . Erano generosi. Con strane punte di “estremismo”: tipo “non compratevi mai una casa, che è come comprarsi la galera”, “quando vi sposate siete grandi, state lontani, se avete bisogno siamo qui, ma andate lontani”
Mi accorgevo della situazione di “eccezionale” quando andavo in casa di amici e a volte vedevo scoppiare litigi, o c’erano persone depresse, o lamentele su ciò che mancava e sempre drammi causati dai soldi o dalle proprietà. A casa mia, invece, siamo vissuti avvolti nel velluto pur essendo proletari e fermamente in affitto. Sì, i miei genitori sono i personaggi più pazzeschi che abbia incontrato.
Topolovska-Minimalna Orkestra
Topolovska Minimalna Orkestra. Credits: Luca Caratozzolo

Dal punto di vista culturale, per me è stato molto importante, la passione maniacale per la musica. Ho iniziato con il progressive a quattordici anni, poi il free jazz, la musica elettronica, i tedeschi, la scuola di Canterbury, il kraut rock.

Prima di andare a scuola andavo, per due giorni alla settimana, a scaricare casse al mercato ortofrutticolo di Biella, dalle 5 alle 8 del mattino, per potermi comprare dischi e libri. Le prime due ore di lezione dormivo.
Poi è arrivata una illuminazione, grazie a un amico, Marco Raviglione – che oggi, da scienziato, partecipa a Topolò con la sua Officina Globale della Salute.
Una sera mi fece ascoltare musica classica e mi sono così innamorato di questo genere da ascoltarlo in modo ossessivo, come se dovessi recuperare il tempo perso (all’epoca avevo 18 anni). Sono partito da Berio, Nono, Stockausen, Penderecky per arrivare alle altre epoche precedenti.
Poi tre anni in fabbrica per poter studiare storia all’università di Torino, fino a che sono uscito di casa a 22 anni.
Dalla musica, sempre con Mario, si sono sviluppati gli interessi per tutte le altre discipline artistiche, la poesia prima di tutto che ha condizionato il mio modo di vivere, ho pubblicato un paio di cose prima dei trent’anni.
Facevo viaggi di mesi, lavorando qui e là, per andare a visitare case o tombe di poeti, i luoghi che li avevano ispirati. La mia vita era quella. Stavo su di un furgone con dentro solo una cassa di libri di poesia e il materasso.
Una vita che vista da fuori poteva sembrare borderline ma non era così: ho sempre esercitato una certa disciplina su di me.
Sono vissuto con la decisione di non avere mai un lavoro fisso, ma di avere tempo. Non è stata una scelta: non potevo e non posso vivere altrimenti.
All’epoca facevo lavori pesanti che avevano un inizio e una fine, dalla raccolta di ogni genere di frutta in Italia e fuori Italia, al furgone che possedevo e con il quale trasportavo ogni cosa, ripulivo cantine e soffitte, facevo traslochi o il manovale.
L’importante era avere come tempo primario la poesia, la musica, la storia, la bellezza e la mente libera solo per queste cose. Priorità che hanno poi determinato i miei spostamenti, in Toscana e qui, sul confine orientale dove sono approdato in seguito a suggestioni letterarie.
Sebbene a quell’epoca fossi tornato ad abitare a Biella e avessi messo su famiglia, per me era diventato necessario vivere queste zone, suggestionato da Claudio Magris, dalla letteratura triestina, dall’idea di confine, soprattutto.
Francobollo con vista di Topolò
Francobollo con il panorama di Topolò.
Era come se i loro libri mi rivelassero la terra dove stare e che non riuscivo a trovare. Ora che sono arrivato qui, su questo confine, non andrei in nessun altro posto al mondo per vivere (anche se andrei via da Topolò); è come se avessi radici, anche se so che non le ho qui.
Sono e mi sento sempre un “forestiero”- condizione alla quale tengo perché mi concede libertà di movimento e pensiero: sono “straniero”, quindi “strano”, e posso fare ciò che mi pare giusto fare senza passare al vaglio di nessuno.

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