Nel 1994 Moreno Miorelli crea un Festival in una delle valli del Natisone in Friuli Venezia Giulia, una terra di confine con la Slovenia. All’epoca è una zona militare dal periodo della Guerra Fredda. All’insaputa dei cittadini italiani che vivono nelle altre regioni, si instaura un clima di pesanti censure e di spionaggio. E’ qui che viene fondata quell’apparato paramilitare deviato che nel resto della penisola verrà conosciuto più tardi come “Gladio”.
In questo contesto, nel 1994 Moreno Miorelli, originario di Biella e nato da genitori trentini, fonda la Stazione di Topolò e ne diviene il direttore artistico. Sul piano della comunicazione è un festival, ma nei fatti è un vero e proprio laboratorio di idee, di progetti, di discussioni che nel tempo hanno raccolto il passaggio di moltissimi artisti provenienti da tutto il mondo.
Questi progetti hanno un tratto comune, una forte attenzione per lo spazio e per i luoghi, con le loro specificità. Non poteva quindi mancare un articolo dedicato a questa realtà. Rivolgo quindi anche a Moreno le domande canoniche, anche se in questo caso anziché parlare di drammaturgia urbana, mi adatto al contesto di quota.
DRAMMATUURGIA MONTANA
S: Che cos’è per te, come definiresti il concetto di “Drammaturgia montana”
M: “Questo dovresti spiegarmelo tu sei venuta con un progetto di drammaturgia montana e lo chiedi a meÖ vorrei vedere lo sviluppo del tuo lavoro per capire che cosa sia la drammaturgia montana! Questa potrebbe essere la fine della mia risposta.
Il concetto di Drammaturgia montana da queste parti si sovrappone alla drammaturgia di confine che mi sembra anche più interessante della drammaturgia montana qui di drammi ce ne sono stati parecchi, dal primo giorno di Capodanno del 1900 fino allíultimo giorno dell’anno del 1999.
Perchè in questi luoghi c’è solo l’imbarazzo della scelta a questo proposito, tra battaglie di Caporetto, leggi fasciste contro la lingua minoritaria,- che qui è la lingua slovena,- la seconda Guerra Mondiale, con partigiani bianchi contro partigiani rossi, partigiani jugoslavi, cosacchi e infine il dramma della Guerra Fredda.
Quest’ultimo infatti ha svuotato la zona della sua popolazione, in quanto fino al 1991, cioè fino alla fine della Jugoslavia, questa era di fatto una zona militare. La popolazione è passata dai 21.000 abitanti del 1945 ai 6.000 di oggi, con una perdita nei paesi montani, e questo è un altro dramma, del novanta per cento. Devi pensare che Topolò ha avuto un massimo di circa 370 abitanti e ora – che siamo in crescita arriviamo a 25…
Non so se la parola drammaturgia abbia a che fare con la parola dramma, ma qui ognuno ha storie molto interessanti. Anche un contadino, vissuto a Topolò dal 1915 in poi può raccontare agli studenti la storia del Novecento.
Così nel pensare a che cosa sia la Drammaturgia montana o la drammaturgia di confine, mi viene da dire: drammaturgia di confine montano. Mi sembra ancor più succulento come concetto.”
S: E’ dal 94 che qui fate drammaturgia montana, siete dei pionieri…
M: “Qui nella valle sì. Gli artisti invitati nel ’93 a fare i sopralluoghi, per parlare con la popolazione partecipare a questo progetto, di fatto hanno lavorato sul dramma di queste zone.
La richiesta che facevo loro era di non creare tensioni, ma di rendersi conto che si aveva a che fare con una zona e con abitanti profondamente feriti, con ferite aperte. Si cammina sui vetri, quando si parla di certi argomenti.
C’è stata quindi una drammaturgia identificabile con il confine, parola paradossalmente diventata un tabù. Una presenza quotidiana che era anche un tabù.
Ho pensato che questo confine-tabù bisognasse trattarlo in maniera metaforica, il confine come metafora. Anche i confini interiori.
C’è un’opera vicino alla chiesa, un cippo creato da un artista veneto concettuale – Donato Maria Bortolot che vive a 1400 metri, a Zoppè di Cadore. Voleva lavorare con cartoline di Topolò, ma gli ho spiegato che anche per fare le fotografie bisognava chiedere il permesso al Ministero della Difesa, perchè era vietato in quanto zona militare (divieto di immagine).
Si è molto sorpreso perché è una situazione difficile da concepire. Così è andato a Cividale a comprare una Polaroid, cemento, sabbia e ha eretto un parallelepipedo, con una citazione di Garcia Lorca “El cielo no tiene frontera”, dentro al quale c’è dentro la macchina fotografica murata.
Quella è stata l’opera più diretta. Ma ci sono stati altri lavori, uno particolarmente significativo. Appariva un paravento senza la tela, con tanti occhi che giravano a 360 gradi. Erano lavori che trattavano la problematica del confine in maniera non violenta, mai aggressiva, altrimenti si sarebbe spaccato il paese e non avremmo potuto proseguire in questo progetto.”
S: Parlami di come ti rapporto con lo spazio, che cosa rappresenta per te e come lo intendi e ti relazioni con il medesimo nella progettazione del festival.
S: Vuoi aggiungere qualcosa sullo Spazio legato al festival?
M: “Nel 1993 quando mi proposi di fare qualcosa nelle valli del Natisone – su suggerimento di artisti che già conoscevo, – mi sembrava un delitto che una zona ricca di storia e bellezza come questa non fosse conosciuta.
Mi sono reso subito conto che qui potevano confluire le molte esperienze raccolte nei vari luoghi dove avevo vissuto e dove ho conosciuto artisti e persone che hanno dedicato la loro vita… alla bellezza: artistica, spirituale o scientifica.
S: Come pensi e cosa pensi attorno circa il rapporto con il pubblico?
M: “Una delle cose alle quali tenevo moltissimo era che il pubblico fosse il meno pubblico possibile. Nel senso che partecipasse a questo progetto, senza un muro divisorio tra chi fa e chi guarda.
Al mattino fare colazione con Marcel Marceau o con il giovane Ludovico Einaudi mi sembrava una cosa miracolosa, non eravamo separati dagli artisti, eravamo tutti sullo stesso piano. Anche a Topolò questo per me è fondamentale.
S: Che cosa ti fanno venire in mente le parole Trama-intreccio
M: “I concetti di trama e intreccio hanno a che fare con il teatro. Ë una disciplina che io non amo particolarmente. Sono molto in difficoltà perchè dal punto A al punto B preferisco la linea retta..”
Invio Moreno a usare la parola “intreccio” nel modo che preferisce e la conversazione riprende.
M: “Dalla prima edizione di Topolò all’ultima non ci sono numeri di telefono e curricula alla sua base. Ci sono solo relazioni personali. In particolare, nei primi anni mi sono basato quasi esclusivamente su relazioni personali consolidate da anni, su artisti e persone che già conoscevo, più qualche nome di area slovena che mi veniva suggerito.
Il senso del progetto per me è anche quello di ritrovarsi in questo luogo sperduto dove possano nascere relazioni fra persone che senza saperlo si scoprono essere compagni di strada.
Ogni tanto ricevo mail da persone a me assolutamente sconosciute, ma mettono un tale líentusiasmo nelle righe o tra le righe scritte da desiderare di accoglierli come topolonauti.”
S: Chiedo a Moreno di parlarmi di Personaggi. Possono essere persone, personaggi, inerenti al festival, o persone che sono trasformabili in personaggi…come al solito le domande si basano su concetti molto flessibili e presuppongono risposte molto libere…
M: “Io cerco di deteatralizzare la vita e tu proponi la teatralizzazione.”
S: È impossibile togliere le maschere, ne togli una e ne salta fuori un’altra
M: “C’è un giorno ogni settimana in cui do una mano in un posto dove ci sono molte persone disagiate e, finalmente, sto molto bene lì, mi ricarico: i cosiddetti “ultimi” non hanno maschera e lavorare tra loro mi rasserena.
Per quanto riguarda la mia vita ho avuto tante persone fondamentali. Sono stato fortunato. Non saprei dire quale sia la caratteristica che le accomuni, forse la curiosità patologica per tutto. A volte ti accorgi che ci sono persone simili a sorelle o fratelli, con le quali combaci perfettamente e nascono delle relazioni indistruttibili.
Dal punto di vista culturale, per me è stato molto importante, la passione maniacale per la musica. Ho iniziato con il progressive a quattordici anni, poi il free jazz, la musica elettronica, i tedeschi, la scuola di Canterbury, il kraut rock.
Una sera mi fece ascoltare musica classica e mi sono così innamorato di questo genere da ascoltarlo in modo ossessivo, come se dovessi recuperare il tempo perso (all’epoca avevo 18 anni). Sono partito da Berio, Nono, Stockausen, Penderecky per arrivare alle altre epoche precedenti.
Sono vissuto con la decisione di non avere mai un lavoro fisso, ma di avere tempo. Non è stata una scelta: non potevo e non posso vivere altrimenti.