Con Maria Paola Zedda, curatrice, esperta di performing arts, danza e arti visive, ci apprestiamo a confrontarci con l’ormai familiare griglia di domande che applichiamo nelle interviste a quanti si occupano di drammaturgia urbana e in generale a forme di teatralità applicata alla vita quotidiana e agli spazi.
A mano a mano che raccogliamo i diversi punti di vista degli intervistati, anche in relazione alla diversità dei loro ruoli e funzioni, dei loro rapporti con lo spazio pubblico costruiamo un caleidoscopico universo di pensieri e riflessioni da restituire ai lettori, sia addetti ai lavori, sia semplicemente curiosi di esplorare un ambito particolare dell’arte contemporanea.
Arte intesa senza confini di genere che, in questo contesto, ha assai poco senso mantenere. Che cosa sia teatro e che cosa sia arte visiva non è una domanda che giova porsi quando ci si accosta alle drammaturgie urbane e, più in genere, alla drammaturgia degli spazi: quantomeno, questo è quello che pensiamo in questo blog.
Per questo invitiamo le persone che si occupano di aspetti diversi della produzione artistica contemporanea legata agli spazi pubblici e alla dimensione naturale, a condividere le opinioni su alcuni punti chiave.
Nella puntata di oggi Maria Paola Zedda evidenzia i punti di riferimento e le idee di base sulle quali poggia il suo lavoro. In particolare, l’intersezionalità è un elemento fondamentale nelle sue pratiche, in quanto desidera “creare sistemi che mettano in connessione, intersechino più categorie rispetto alla scrittura multidimensionale all’interno della drammaturgia”.
I riferimenti della nostra interlocutrice sono costituiti da Stavros Stavrides, professore di architettura all’Università di Atene che si occupa di spazio, beni comuni comuni, confini (è autore fra gli altri dei libri “Towards the City of Thresholds” e “Common space: the city as Commons”). Inoltre le interessano molto Judith Butler, Claire Bishop e Achille Mbembe, un antropologo che lavora sul colonialismo (autore di “Necropolotica del Mediterraneo”).
In primo luogo, chiedo così a Maria Paola, seguendo la nostra scaletta, di darmi la sua personale definizione del concetto di
Drammaturgia Urbana
In linea generale definisce il concetto come “Una scrittura dello spazio pubblico attraverso l’azione di artisti, performer, partecipanti, cittadini, che possa riscrivere le narrazioni emergenti dallo spazio in sé. Un lavoro che immagino sempre corale, fatto di tessiture, relazioni, connessione, in grado di mettere in discussione, interrogare e, a volte, anche di mettere in crisi la percezione dello spazio pubblico, che sempre pubblico non è.”
Secondo il punto di vista della nostra interlocutrice “la drammaturgia urbana si scrive sempre nel paesaggio, attraverso i corpi e la relazione fra questi due elementi, forte e dinamica, portatrice di grandi trasformazioni. Specie quando si ha la possibilità di attuare processi complessi di ridefinizione degli spazi medesimi.”
In questo senso, la drammaturgia urbana “Pone temi articolati inscritti nella polifonia di una città e che risentono sovente di tutte le sfere complesse che la città abita, restituisce e fa emergere, con le problematiche delle disuguaglianze, delle relazioni, dei vuoti urbani.”
Accanto a questa definizione globale, estesa di “drammaturgia urbana” Maria Paola desidera anche usarne una “applicata” al progetto che sta curando attualmente a Milano, “Le alleanze dei corpi“.
In tal senso, evidenzia la presenza contemporaneamente di una dimensione microdrammaturgica e una macrodrammaturgica. “La microdrammaturgia è compiuta dai singoli artisti, con i particolari processi che mettono in campo e attuano.
La macrodrammaturgia è una visione che portiamo avanti da alcuni anni, che implica un ritmo nella costruzione della composizione di un progetto e di un festival e che ci spinge a indagare alcune dinamiche complesse. Nel progetto abbiamo strutturato tre tipi di residenze artistiche, per creare un focus su tematiche legate alla cura e alla vulnerabilità diffusa, nel quartiere di via Padova.
Ogni artista ha sviluppato un’azione e una sfumatura di questo aspetto, attraverso la negoziazione e l’attraversamento dei rapporti permeabili tra il confine interno e quello esterno delle città” – il concetto di confine è particolarmente importante nel lavoro curatoriale e negli interessi della nostra interlocutrice. –
“Abbiamo pensato, infatti, almeno all’inizio, che l’artista potesse avere il ruolo di far transitare alcune tematiche da uno spazio privato, intimo, domestico, divenuto nella pandemia particolarmente rilevante, a una sfera pubblica, che invece si era sempre più svuotata dall’azione degli individui, dalla strada, da “quel luogo dove si crea un mondo” (per citare un’espressione del direttore del MAXXI Hou Hanru).
Queste tre tessiture apparentemente non dialoganti tra loro, in realtà, lasciano esplodere alcune problematiche, in particolare, quelle legate all’intercultura, al meticciato, così come la riferisce Francesca Marconi, all’espressione della danza e del corpo come elemento politico.
Elisabetta Consonni approfondisce il tema della cura e dei saperi invisibili, conservati nelle comunità di donne straniere che, nel processo di emigrazione, dimenticano una serie di conoscenze e saperi. Le competenze possono entrare in una fase di oblio, di annullamento della memoria, portando come conseguenza una perdita della presenza, per dirla con De Martino.
Tuttavia, attraverso l’azione dell’artista, essa viene recuperata grazie a laboratori, in un rapporto intimo di scambi di saperi: Elisabetta baratta una pratica del corpo, in particolare un massaggio con una confessione, la condivisione di una competenza .
Si tratta di uno scambio di pratiche che dovrebbe attivare una sorta di spa collettiva: questi sono i saperi che le donne portano con sé, spesso tradizionalmente legati al corpo e alla cura, soprattutto nelle società a sud del Mediterraneo.”
Maria Paola Zedda prosegue nella presentazione del terzo lavoro. Si tratta di un’opera di drammaturgia urbana di Guillaume Zitoun e che “costituisce un attraversamento pubblico dello spazio e di frizione attorno al concetto di proprietà privata e sfera pubblica.
Questi approfondimenti vengono cuciti e interconnessi, attraverso giochi urbani, laboratori, fasi di costruzione di un più ampio programma che si sviluppa che viene presentato nel festival. Una produzione che, nel lungo periodo, scandisce una visione più esplicita della scrittura dello spazio urbano. Un programma di scambio, di relazioni fra corpi, quanto è stato più dimenticato e annullato quest’anno, a causa della pandemia.”
Lo sguardo di Maria Paola lampeggia quando le chiedo di spiegare quale relazione di lavoro instauri con lo
SPAZIO
come si rapporti e interagisca con esso nei progetti da lei curati. “Sono laureata in Sociologia ad indirizzo antropologico, ma ho studiato per quattro anni architettura. Ho un patrimonio familiare di architetti e lo spazio per me è stato sempre fondante nella costruzione del pensiero e dell’immaginario.
Nello studio della danza, della performance, in qualsiasi visione curatoriale, è un principio di creazione. È il luogo per cui io penso i progetti, in diverse scale e dimensioni. Soprattutto il tema della città, un tema per me importante, o quello del paesaggio, creano questioni su cui riflettere rispetto all’urbanistica, alla scrittura dall’alto delle biografie, dei corpi delle diseguaglianze che gli spazi riproducono o mettono in discussione e studiarli, attivarli rappresenta una forma di emersione, di comprensione della complessità delle forme dell’abitare.”
In particolare la nostra interlocutrice si sofferma su alcuni aspetti legati alla progettazione. “Attraverso l’osservazione e lo studio di come i corpi articolano gli spazi, nascono spesso i progetti. Nell’edizione passata “Le Alleanze dei corpi” ha messo in campo una serie di questioni anche inattese, legate allo spazio urbano, all’Aperto, alla relazione con il corpo femminile nella condizione di esposizione pubblica allo sguardo e al suo potere politico e normativo.
Per esempio in un progetto che abbiamo avviato con Ariella Vidach, con l’aiuto di Elisabetta Consonni c’è stato il bellissimo momento di creazione di una festa, un atto di relazione fortissimo fra diverse donne che hanno lavorato in uno spazio del Parco Trotter qui a Milano, ma allo stesso abbiamo compreso come il percorso da noi immaginato di danze nel Parco non era attuabile, ma andava protetto dalla visibilità pubblica e in particolare dallo sguardo maschile.
Mi ha colpito molto un altro lavoro che ho curato a Cagliari per la Capitale Italiana della Cultura a opera del coreografo Maurizio Saiu in collaborazione con l’artista Nezaket Ekici, Vivo Invisibile. Una scacchiera multimaterica e multisensoriale, realizzata con spezie, caffè, aromi, è stata costruita attraverso il dialogo e un lungo percorso con gruppi di migranti.
In essa le gerarchie consuete della rappresentazione sociale dei soggetti venivano messe in discussione attraverso una partita a scacchi partecipata dagli abitanti della piazza. Soggetti razzializzati insieme a danzatori e danzatrici si muovevano nella tavola, mescolando con i loro movimenti i materiali, dissolvendo via via le categorie binarie evocate dalla scacchiera.
Il gioco degli scacchi, originario dell’India – giunto in Europa attraverso le rotte persiane e mediorientali, divenuto nel tempo simbolo della logica e della sofisticazione del pensiero occidentale – qui è simbolo di trasmigrazione dei saperi e viene aperto alla sua dimensione pubblica in una delle piazze principali attraversate dai flussi migratori, luogo di ritrovo delle comunità di persone provenienti dalle diaspore, Piazza del Carmine.
La piazza diventa il soggetto agente del lavoro ed elemento stesso della drammaturgia.
(Prosegue….)