Topolò è una frazione del Comune di Grimacco, situato in una delle valli del Natisone, in provincia di Udine, al confine con la Slovenia. Le sue vie e le case sono immerse nel silenzio interrotto soltanto dal canto di uccelli piuttosto eloquenti, fin dalle prime ore del mattino.
Le auto restano parcheggiate ai confini dell’abitato, posto che le strade, come nella maggior parte dei paesi di montagna, sono strettissime e rivestite di ciottoli.
Questo luogo di confine, durante la guerra fredda, ha vissuto situazioni inquietanti, difficili, testimone di forti tensioni, limitazioni e privazioni, nella gestione della vita quotidiana, in quanto catalogato come zona militare.
La maggior parte degli italiani ignora che proprio in queste zone dopo il 1945 sono state create le basi di quella organizzazione paramilitare, protagonista delle testate giornalistiche degli anni Novanta, denominata “Gladio”.
Così come ignora, probabilmente, che questo luogo, così remoto e isolato dal resto della penisola (non ci sono autobus, bisogna percorrere quattro chilometri per prenderne uno) è uno dei primissimi esempi di albergo diffuso.
In questo contesto così particolare, dal 1994 esiste un Festival, altrettanto insolito, Stazione Topolò- Postaja Topolove, costruito su misura del paese, molto prima che i lavori cosiddetti site specific diventassero una moda. Non solo.
Molto prima che l’interdisciplinarietà diventasse, o fingesse di diventare di tendenza, qui già si riunivano e si mescolavano linguaggi artistici, discipline, persone, molto diversi, in spazi di recupero che acquisivano nuova vita e funzioni, composti da case, fienili, depositi per attrezzi, varie pertinenze, o in luoghi-simbolo del territorio (torrenti, cascate, grotte, boschi, prati).
L’elemento centrale è lo sforzo di elaborare contenuti e proposti alternativi al circuito tradizionale delle arti, da tutti i punti di vista.
Stazione Topolò-Topoluove Postaja è una dimensione dedicata alla ricerca, alla sperimentazione, alla coltivazione di rapporti e scambi interpersonali fra persone che si occupano di campi assai differenziati, provenienti da tutto il mondo.
Per quel che riguarda il mio percorso, rappresenta un universo da esplorare per quanto riguarda la drammaturgia degli spazi, in particolare rispetto alla sottospecie di “drammaturgia montana”, “rurale” e “fluviale”.
Ci sono molti aspetti che rendono speciale questo luogo, solo apparentemente fuori dal mondo, posto che in realtà la convergenza e la convivenza di svariati esseri umani impegnati in ogni genere di arte sono alla base di questo festival. Di conseguenza si ha la sensazione di essere al centro di tutto ciò che di nuovo si va ricercando qui e là per l’Europa, o gli altri continenti.
Inoltre, vanno aggiunti altri elementi d’interesse tutt’altro che trascurabili:
Il silenzio.
La sospensione del tempo. O quantomeno una sua diversa percezione, imposta dalla distanza, dall’assenza di collegamenti regolari. Senza macchina si deve contare sui propri piedi, o sulla disponibilità di amici con patente.
La possibilità di scoprire vicende delle quali è difficile avere notizia, in particolare legate al periodo della guerra fredda e alle sue conseguenze, nonostante fosse stato complicato parlarne (e forse in parte lo sia tuttora), anche e soprattutto in termini di discriminazione verso gli abitanti di origine slovena e la loro cultura.
La riflessione su ciò che è indispensabile e ciò che è superfluo. Più volte al giorno si è in qualche modo invitati, o costretti dalle situazioni a risolvere problemi originati dall’isolamento, dalla lontananza rispetto a oggetti, cibi, abitudini.
Per questo insieme di caratteristiche ho pensato che Stazione Topolò potesse essere un luogo adatto per ospitare un lavoro di “drammaturgia montana” piuttosto complesso, intitolato Nidi.Fluidi, incentrato sui rapporti fra abitanti e alcuni luoghi dell’arco alpino, contraddistinti da alcune condizioni:
– Essere collegati in modo precario con il fondovalle, a causa di una vera e propria assenza di mezzi pubblici, o di una loro forte limitazione.
– Avere una cultura indipendente rispetto alle zone circostanti.
– Ospitare abitanti che a costo di sacrifici preferiscono restare in una zona “difficile”, a causa della carenza di collegamenti con il mondo circostante.
In questo lavoro mi interessa esplorare innanzitutto i legami affettivi e le scelte estetiche, anche inconsce, che inducono alcune persone a restare in luoghi dove le condizioni di vita sono più difficoltose che altrove, ma dove i disagi possono essere ripagati da altri vantaggi, sia a livello estetico, sia affettivo, sia di benessere psicologico.
Radicamento, legame stretto con le proprie origini, con la propria famiglia, contemplazione, isolamento volontario a scopo meditativo, concentrazione sono parole chiave in questo senso.
Quando si visitano questi luoghi si scoprono anche immigrati più recenti provenienti da città più o meno grandi, quindi si possono anche esplorare i poteri di attrazione rappresentati dagli elementi naturali, dall’assenza di pressioni tipiche della vita urbana.
Depurazione dallo stress, rallentamento dei ritmi di vita, allontanamento da contesti di inquinamento ambientale, ricerca di se stessi possono essere gli elementi di partenza in questo caso.
Nidi fluidi prevede la partecipazione e la collaborazione attiva sia dei residenti, sia dei visitatori dei luoghi scelti, attraverso la risposta ad alcune domande e l’esecuzione di alcune piccole richieste di azioni scritte, o parlate.
Il materiale raccolto costituisce il punto di partenza per installazioni e un libro d’artista (in formato cartaceo e digitale), incentrati sulla percezione del paesaggio, sul legame con i luoghi, sul rapporto con i personaggi non umani protagonisti di vicende significative connesse al territorio.
Il titolo di questo lavoro (che presenterò in dettaglio sul blog più avanti), Nidi. Fluidi mette in luce la contraddizione fra il concetto di intimità abitativa stanziale e quello di cambiamento, di moto, di flusso. Il nido è il luogo dove ci si può riposare fra un volo e l’altro, rifugiarsi e al contempo si può abbandonare per emigrare, per scelta, necessità, o naturale evoluzione.
Il flusso rimanda a un’onda che si srotola, si scioglie, dopo l’attesa del momento opportuno per spiegare le vele…ha a che fare con la facilità di movimento e di gesto, di esplorazione, di costante divenire. Ciò che è fluido è instabile, impossibile da stivare, rifugge dal confinamento, dalla delimitazione. Il nido, al contrario, definisce, delimita, costringe a fare i conti con uno spazio compatto, circoscritto, essenziale, intimo.
I rametti, i fili che compongono un nido formano un intreccio spiraliforme, un piccolo vortice che punta verso il centro. Il Nido è una delle forme più funzionali di abitazione privata, un monolocale pensile, panoramico, un hangar da cui partire e tornare se si vuole, fra un’esperienza e l’altra, seguendo il flusso del tempo e degli avvenimenti.
Questi due elementi, il nido e il fluido nel titolo del lavoro di drammaturgia montana, si influenzano a vicenda, sono da considerare in stretto rapporto dialettico, due parole contrapposte che spingono reciprocamente, verso l’una o l’altra direzione.