Questa settimana e la prossima, presentiamo Il giardino d’inverno, di Rebecca Agnes e di Vera Pravda, elaborato durante la loro residenza all’Archivio di Viafarini, partner del progetto, presso la Fabbrica del Vapore di Milano.
Ho scelto di inserirlo nel blog (dove trovate due articoli a testa, dedicate alle autrici qualche tempo fa) poiché si tratta di un lavoro legato agli spazi in cui viviamo, mette al centro dell’attenzione il nostro modo di relazionarci con il mondo e la realtà quotidiana.
Per iniziare chiedo quali siano il concetto portante, i punti nodali di questo lavoro.
R: “Il giardino d’inverno vuole rispondere collettivamente e in modo partecipato alla domanda “Che cosa posso fare io per le problematiche ambientali?”
Questa domanda nasce da un’esigenza condivisa da me e Vera anche rispetto al comportamento del pubblico di fronte ad alcuni dei nostri lavori che trattano di ecologia, attivismo, engagement. Le persone infatti, dopo aver osservato le nostre opere spesso ci chiedono “Ma io che cosa posso fare?”.
Mentre Vera vede in questa domanda uno spunto per iniziare un dialogo, invece io a volte la trovo un po´ noiosa nel caso contenga note polemiche – perché é più facile chiedere acriticamente, anziché impegnarsi a condurre una ricerca personale su queste tematiche e riflettere in modo autonomo.”
V: “Capisco il sentimento di Rebecca, ma penso che l’engagement nasca proprio da questa domanda. Chiedersi “cosa posso fare io?” non è un passaggio semplice, anche emotivamente; vivo questa domanda come una ricerca di impegno maggiore.
Penso che già rompere la barriera del dialogo con l’artista sia impegnativo: per noi è una pratica abituale, non abbiamo problemi a rivolgerci ad altrə artistə, a confrontarci con loro, a chiedere informazioni su un’opera. Ma non per tuttə è così, ci sono persone più timide. Trovo questo entusiasmo un elemento positivo, che aiuta a procedere in una posizione propositiva rispetto all’ambiente. Lasciarsi prendere dallo sconforto significa non agire.”
R: “Anch’io mi pongo la domanda “che cosa posso fare io per l’ambiente?” – rispetto alle mie pratiche, alla mia vita, riguardo a ciò che posso effettivamente modificare. A volte ho avuto l’impressione che chi pone questa domanda agli altri, non lo faccia in modo serio, ma cerchi piuttosto di togliersi dalle sue responsabilità, per darle a qualcun altro.
Un po’ come succede quando le persone dicono “tanto le cose sono così, tanto tutti fanno così, non ha senso fare qualcosa di diverso. Se nessuno cambia non vale la pena che cambi io”, invece di dire “tutti fanno così, ma è sbagliato, quindi io cerco di fare una cosa diversa”. Questo è uno dei problemi di fondo.”
V: “Ci confrontiamo spesso con il fenomeno della resistenza al cambiamento e non è sempre semplice affrontarla: Il giardino d’inverno è uno strumento per lavorare in questa direzione.”
R: “Se penso a quanto tempo ci ho messo io a capire alcune cose, in alcune situazioni è passata una vita intera. Forse le generazioni più giovani possono avere un’attenzione diversa rispetto a queste problematiche. Per esempio, sulla scena milanese artistica della fine anni Novanta, inizio Duemila, il discorso relativo ad ambiente ed ecologia era quasi inesistente (anche a livello politico), sebbene i movimenti ambientalisti esistano già dagli anni Settanta.”
V: “Sono stati per molto tempo argomenti considerati marginali e che ora stanno prendendo sempre più piede, anche grazie a passaggi istituzionali, come le COP o gli SDG dell’agenda 2030 dell’ONU, sebbene nella pratica restino ancora oggi molte resistenze.”
R: “Uno dei problemi è credere che esistano risorse illimitate.”
V: “Infatti, modificare un’attitudine collettiva significa partire da uno sguardo diverso e il nostro lavoro va nella direzione di allenarsi a porsi il problema e a considerare gli effetti collaterali delle nostre azioni, dai più piccoli ai più grandi. Forse il centro profondo del nostro lavoro è proprio questo.”
R: “Sì, il riuscire a fare confluire elementi diversi in modo da creare un momento collettivo di riflessione, sebbene non ci siano risposte. Del resto, se anche ci fossero non potrebbero essere permanenti, ma temporanee e per giunta non condivise da tuttə.
L’idea di fondo è uscire dalle abitudini strutturali e strutturate del sistema in cui viviamo, ovvero, il capitalismo globalizzato, impossibile da smuovere da un giorno all’altro e che richiede molto tempo per essere smantellato e o modificato.
In qualche modo, il lavoro che facciamo io e Vera è un lavoro di “volontariato”, poiché pensiamo sia importante e urgente parlare di questi argomenti. Il giardino d’inverno non é un opera realizzata in studio per poi essere messa semplicemente in mostra.”
V: “Ad esempio, uno dei punti che tocchiamo è proprio l’attitudine al consumo: il dover possedere, il dover consumare, la pratica dell’usa e getta, lo sfruttamento delle risorse come se fossero infinite. Questa attitudine è dovuta non solo agli aspetti economici, ma a una vera e propria forma mentis creatasi nel tempo.”
R: “Diciamo che le due cose, la forma mentis e il sistema economico si sono alimentati a vicenda.”
In effetti, sono complementari e intrecciati e creano un circolo vizioso che gira su se stesso in modo sempre più rapido. Passo a porre un’altra domanda…
Come è stato costruito Il giardino d’inverno ?
R: “Questo progetto è nato in maniera molto spontanea sei mesi fa. Da novembre fino ad aprile abbiamo invitato a discutere con noi dalle cinque alle sette persone, ogni volta su una tematica diversa, legata all’ecologia e alla domanda: “Che cosa posso fare io per le problematiche ambientali?”.
V: “Il progetto è nato in modo molto istintivo, non calcolato. Ci sono esiti fisici rispetto agli incontri mensili: il giardino che si è creato e che troverà dimora in luoghi accessibili, il manuale scritto in modo partecipato. Tuttavia, la valenza artistica è nel processo di per sé, che discende dalla nostra necessità di rispondere in modi molteplici alla domanda di base e di trattare temi rispetto ai quali siamo entrambe coinvolte, sia nella nostra pratica artistica individuale, sia nella vita personale.
Il concetto chiave è stato quello di problematizzare: porsi il problema e rifletterci sopra.
Il manuale è il risultato che emerge dagli incontri a invito, dove abbiamo coinvolto artistə, curatorə, professionistə per discutere attorno a temi legati all’ambiente.
A ciascun incontro corrisponde un capitolo. I temi che abbiamo scelto aprono il dialogo a problematiche concrete, ma possono essere visti anche come metafore: esploriamo così il campo dell’attitudine. È importante sottolineare che il manuale non ha pretesa scientifica. Nasce, invece, da una volontà speculativa. Inoltre, cerchiamo di tenere un approccio plurale sui vari argomenti: anche io e Rebecca abbiamo a volte punti di vista in comune, a volte visioni differenti e consideriamo questa poliedricità una ricchezza.”
R: “Staying with the trouble” per citare Donna Haraway!
Il manuale stesso ci è sembrato il modo migliore per potere lasciare una traccia, condivisibile e riproducibile degli incontri stessi, proprio per diffondere le tematiche e riflessioni emerse e, in alcuni casi, suggerimenti su come modificare la nostra visione e proprio le nostre pratiche.”
Quali sono i punti attorno ai quali sono stati organizzati gli incontri?
R: “Al primo incontro dal titolo “PIANTE. (Dove si parla di funghi, vegetali e radici, di rigenerazione e di collaborazione, aspettando la prossima primavera) hanno partecipato Enzo Calibé, Daniela Di Maro, Stefania Migliorati, Sdarch e Claudia Zanfi.
E’ stato dedicato principalmente alle piante, ma abbiamo anche parlato di api, grazie alla presenza di Claudia Zanfi, fondatrice del progetto Alveari urbani, grazie al quale si cerca di reintrodurre alveari in aree verdi della città, non per ottenere il miele, ma per assicurarsi le api, di fondamentali importanza per la riproduzione delle piante. Si è parlato anche di complessità, di cura e di quanto siamo o non siamo dispostə a rinunciare ai nostri comfort.
Il secondo incontro dal titolo “INQUINAMENTO DIGITALE. Dove si parla dell’impatto dei nostri byte sull’ambiente, di fake news e fascismi digitali” – a cui hanno partecipato Pietro Gaglianò, Silvia Giambrone, Giorgos Papadatos, Penzo+Fiore e Francesco Stelitano – è stato l’unico programmato fin da subito on line, come elemento di contraddizione.
A questo proposito, l’inquinamento deriva da ogni singolo byte, ma anche dai nuovi fascismi digitali e dalle fake news. Abbiamo, infatti, identificato l’inquinamento con l’intossicazione del pensiero, con le forme di manipolazione, nella divulgazione delle notizie false.
Abbiamo coinvolto persone che già in partenza sapevamo che difficilmente sarebbero potute venire a Milano, Giorgos Papadatos che risiede ad Atene, Pietro Gaglianò che sta a Firenze e Silvia Giambrone che risiede a Roma.
In effetti, se si leggono i nomi deə partecipantə dei diversi incontri si può notare che molti risiedono a Milano o al Nord. Questa scelta non vuole significare che si facciano cose e si rifletta solo nel settentrione d’Italia, ma deriva dal fatto che il progetto è partito senza budget, su base volontaria, con tutti i problemi legati al Covid. In queste condizioni, era più semplice cercare di coinvolgere persone presenti già a Milano, o gravitanti nella zona, rispetto a chi risiede lontano, anche da un punto di vista ecologico.”
V: “Questo punto sottolineato da Rebecca – ovvero il nostro approccio ecologico a tutti i livelli del progetto, a partire dalla nostra forma mentis – è importante e merita un approfondimento. Abbiamo pensato ogni singolo aspetto cercando di limitarne l’impatto sull’ambiente.
Ciò si riflette nella struttura temporale degli incontri – che hanno avuto una durata limitata, nel rispetto del tempo di tuttə – così come nella stringatezza del manuale, nel rispetto della soglia d’attenzione di chi lo leggerà e del peso in byte. Il manuale sarà infatti scaricabile on line: i byte pesano, ma la stampa su carta ha un impatto ambientale maggiore, abbiamo quindi deciso di limitarla a favore di una distribuzione più ampia.
Il fatto di coinvolgere persone che gravitano già sulla città base degli incontri, o che possano partecipare da remoto, è un modo per evitare la necessità di utilizzare mezzi di trasporto a lunga percorrenza e ridurre quindi l’impatto dell’intero progetto.”
R: “Dal terzo incontro dal titolo “ANIMALI. Dove si parla del (non) mangiarli, o di mangiarne meno e delle tradizioni con cui siamo cresciutə” – a cui hanno partecipato Enzo Calibé, Annalisa Cattani, Simona Da Pozzo, Daniela Di Maro, Isabella Pers, Tiziana Pers e Gabi Scardi -, avvenuto a gennaio, ci siamo dovutə trasferire on line, a causa delle imposizioni collegate alla gestione della pandemia.
Si è parlato principalmente di rituali e di come riscriverli e cambiarli. Le persone coinvolte avevano diverse posizioni circa la scelta, o il rifiuto di mangiare animali, tuttavia non ci sono stati scontri e conflitti. Questo ha permesso di togliersi dalla polarizzazione del discorso. Come dice spesso Vera, puntare il dito non serve. Creare grossi attriti attorno due posizioni inconciliabili è inutile, diventa impossibile il dialogo.
Anche in occasione del quarto incontro dal titolo “VIAGGIO. Dove si parla di noi che viaggiamo (o no), degli spostamenti dei nostri oggetti o opere e di quello che ordiniamo (o no) su internet” – al quale hanno partecipato Sonia Arienta, Elena Bellantoni, Rossana Ciocca, Michele Guido, Melina Mulas, Roberto Picchi e Giulio Verago – la situazione sanitaria ha impedito di vederci di persona.
Tuttavia, il trasferimento on-line ha consentito la partecipazione di ospiti che altrimenti non sarebbero potutə essere presenti, posto che si trovavano fuori Milano. Concentrandoci molto sul senso di attraversamento, abbiamo discusso anche di semi volanti, di camminate in montagna, di turismi e algoritmo.
Con l’incontro successivo (“PRODUZIONE. Dove si parla di materiali, di necessità reali o percepite e di minimizzazione dell’impatto ambientale”) siamo finalmente tornatə in presenza con Camilla Alberti, Sofia Baldi, Caretto Spagna, Davide Crippa e Beatrice Oleari. Si é parlato di greenwashing, di memoria, mostri e cani che annusano mentre si passeggia…”
V: “…Ma si è parlato anche di pratiche specifiche, per fare un esempio ,Beatrice Oleari ha posto un problema molto sentito da tuttə lə partecipanti: la fatica di sbarazzarsi dell’oggetto una volta utilizzato e la sua risemantizzazione, con un conseguente problema di spazio.
Una pratica ecologica quella del riuso che rischia però di sfociare nell’accumulo seriale, evitabile solo applicando la riduzione, limitando a priori l’acquisizione dell’oggetto, ad esempio cercando di usare i propri imballaggi quando si fa la spesa.
Interessante come nello stesso incontro anche Sofia Baldi abbia affrontato lo stesso tema da un punto di vista completamente diverso, ma idealmente affine, parlando di riuso e di risemantizzazione nel rapporto tra arte e produzione industriale.”
R: “Abbiamo concluso gli incontri, con “PRATICHE. Dove si parla di solidarietà, supporto, collaborazione e relazione, ma anche della creazione di comunità”. In questa occasione hanno partecipato Ferdinando Mazzitelli, Donatella Pavan, Premiata Ditta, Susanna Ravelli, Giulio Verago con un contributo di Giancarlo Norese.
Oltre a parlare di identità come somma di livelli/strati differenti, abbiamo discusso degli elementi che possono creare comunità, partecipazione, orizzontalità, ospitalitá, radicalitá, sono inoltre stati fatti esempi pratici: “Giacimenti Urbani” ha realizzato una mappatura del territorio milanese.”
V: “Uno degli aspetti sorprendentemente belli sono stati i collegamenti che si sono generati inconsapevolmente tra un incontro e l’altro: ad esempio “Giacimenti Urbani” promuove la cultura dell’economia circolare, della riduzione, della riparazione, del riuso, del riciclo, collegandosi ai temi trattati nell’incontro precedente.
Questa ricchezza di connessioni tra le varie pratiche proposte dallə partecipanti è apprezzabile solo a manuale terminato, con una visione d’insieme a posteriori che ci dice che in molte persone, anche con approcci e pratiche diversi, si va in una direzione comune.”