Quando ho visto le immagini di alcuni lavori di Carlo Galli collocati in esterni, in occasione delle nostre residenze presso ViaFarini ho pensato che mi sarebbe molto piaciuto approfondire e indagare quali siano i suoi pensieri rispetto alla drammaturgia degli spazi e alla…
…Drammaturgia urbana
Gli rivolgo quindi le domande che ripeto ogni volta uguali a tutti gli artisti con cui sto dialogando ormai da un anno. Per prima, chiedo così di darmi la sua definizione assolutamente libera di drammaturgie urbane, o drammaturgia urbana, o drammaturgia degli spazi.
C: “Detto fra noi, è una domanda che vorrei fare a te, cioè la definizione di drammaturgia urbana, perché non saprei definirla. E’ la prima cosa che ti volevo chiedere. Se vuoi introdurmi tu il significato, sviluppo un pensiero su questo.”
Gli confesso che non posso dargli una risposta, perché la definizione è libera. Non c’è una risposta, una definizione da vocabolario, almeno secondo il mio parere….Io la chiamo drammaturgia urbana, ma si potrebbe chiamarla in un altro modo.
Trovo molto interessante questo tipo di reazioni alla mia domanda, perché mettono in luce come ogni singolo individuo, oltre a relazionarsi con le parole, si confronta anche con il concetto di definizione in sé e in qualche modo anche con l’uso personalizzato, disinvolto, reverenziale, critico, rispettoso dei singoli termini che troviamo (o non troviamo) nel dizionario, o nelle enciclopedie.
Nel corso dei numerosi scambi di idee che ho avuto in questo anno di dialoghi, infatti, a volte emerge esitazione, imbarazzo, o anche rifiuto esplicito circa la richiesta di definire la drammaturgia con un “aggettivo” qualificante un contesto ambientale (“Drammaturgia urbana”, “drammaturgia montana”, “Drammaturgia rurale”, etc). Forse questo si verifica meno quando parlo di “drammaturgia degli spazi”, parole a cui ricorro in tempi più recenti.
Una conferma dell’utilità del confronto incentrato su singole problematiche e della necessità in futuro di incrociare tutti i dati e le informazioni raccolti per proporre un momento di riflessione comune.
Dopo la rassicurazione sulla libertà di risposta circa la definizione di “drammaturgia urbana” Carlo precisa:
“Il tipo di abbinamento di parole è interessante. La tensione che c’è nella realizzazione e nella concezione di elaborati artistici al di fuori degli spazi chiusi, nell’ambiente urbano, tutto questo rientra nella definizione. Tutto quello che si può provare, nel momento della concezione dell’opera d’arte o dell’intervento artistico, potrebbe rientrare in questa definizione.
Così come, quella tensione, l’elemento di suspense, di vita che ha a che fare con un ambiente che non è controllato, un ambiente che per definizione non è prevedibile. Questa imprevedibilità dell’ambiente esterno, dell’ambiente urbano porta con sé una tensione, un elemento in più nella creazione. Non è una definizione, ma una sensazione.”
In questo caso, il nostro ospite sposta quindi la questione verso un ambito legato alla percezione, un elemento interessante e ancora mai posto nel corso dei precedenti dialoghi con gli artisti, un dettaglio utile in futuro al dibattito e alla riflessione sulle diverse modalità di approccio al lavoro nello spazio urbano e non solo.
Passo così al “domandone” più complesso della lista, almeno a mio parere, alla seconda domanda canonica e chiedo a Carlo Galli di parlarmi del suo rapporto con lo
Spazio
che cosa gli significa nel suo lavoro, con esempio riferiti alle sue opere
C: “E’ un rapporto di lunga data. Quand’ero un ragazzo di quattordici-sedici anni il primo approccio artistico è stato quello della street art. I miei ricordi vanno ai tempi in cui si usciva con tutti gli amici e si andava a cercare i muri fuori nella città, un periodo in cui la street art era un qualcosa di nicchia, abbastanza sconosciuto ai più.
Questo è il primo ricordo di vivere l’ambiente esterno e di andare a cercare superfici su cui realizzare i nostri lavori. A quell’epoca studiavo a Lucca, quindi le città di riferimento erano Viareggio, Pisa, Lucca. Comunque, ho smesso prestissimo di fare graffiti, prima dei 18 anni. E’ stato un periodo molto breve, ma, molto probabilmente, è stato rilevante per il mio percorso artistico.
Un po’ come quelle memorie che hai quando sei piccolo, le trattieni perché hai un buon ricordo…e ti influenzano. Per me è stato così, a proposito della street art. Ora, il mio percorso artistico è completamente cambiato, ho iniziato a lavorare all’Accademia di Belle Arti di Carrara focalizzandomi sulla scultura, e tutto il mio percorso di studio si è concentrato su di essa.
Quest’arte fra l’altro ha tutta una sua filosofia rispetto al concetto di spazio rispetto alla pittura. Fra le domande che ci si pone per esempio, c’e questa: “La scultura ha una relazione con lo spazio o no?”. Si tratta di un tema al quale molti scultori fanno riferimento, è impossibile non prescindere dallo spazio. Purché sia bianco.
Lo spazio è sempre stato un tema di pensiero, anche quando facevo la documentazione dei lavori a scuola. C’era la ricerca dell’ambiente dove fotografare i lavori e questo ambiente aveva caratteristiche che influenzavano il rapporto con la scultura.
Anche se poi in post produzione si poteva “eliminare lo spazio”, azione che pone un altro genere di questioni. In ogni caso, c’è sempre stato il desiderio di capire come sia la relazione fra scultura e spazio. Dopo gli studi e gli esperimenti nell’ambiente delle installazioni ho scoperto la fusione fra ambiente e opera d’arte.
Questo mi è piaciuto moltissimo, perché ho messo insieme due mondi: la scultura e l’ambiente esterno. Nell’installazione ho trovato un elemento di ricerca molto stimolante. L’ambiente comunica con l’opera e l’opera è un veicolo, un tramite che media fra lo spettatore e l’ambiente. A questo punto, consideravo l’installazione urbana qualcosa di molto interessante.”
Chiedo a Carlo di parlarmi di qualche lavoro a questo proposito.
C: “Ti posso parlare di un’opera realizzata sulla spiaggia della Lecciona a Viareggio, uno dei primi lavori installativi grazie al quale ho ricevuto la sensazione che la ricerca avesse un suo perché e uno sbocco per successivi sviluppi.
Stavo passeggiando sulla spiaggia con il mio cane e ho visto che la guardia costiera aveva recintato una casettina fatta con le palme e legni straccati dal mare, per impedire ai giovani di fare feste la sera, o al pomeriggio di ripararsi dal sole e via dicendo. Questo, in un luogo dove alla distanza di un chilometro inizia una lunghissima serie di stabilimenti balneari che per quaranta chilometri privatizza la costa.
In quel periodo probabilmente lavoravo molto di più a livello istintivo sulla protesta sociale. Pensai che fosse un’ingiustizia e che potevo evidenziare questo atto con la riproposizione ingigantita del sequestro. Ripetendo sulla spiaggia il quadrato delimitato dal nastro rosso, potevo vedere la reazione dei turisti (era agosto) e delle altre persone che usufruivano del luogo.
Come esperimento sociologico è stata una situazione molto divertente. Ho fatto un’azione “alla street art”, nel senso che ho agito alle 5 del mattino quando non c’era nessuno. Si è trattata di un’azione un po’ estrema, poiché ho scelto un sabato in piena stagione estiva, dove ci sarebbero state centinaia di persone.
L’intervento aveva un fattore di rischio creativo, non era una cosa proprio legale. Ho coinvolto Francesca Cirilli, una mia amica fotografa che ha effettuato il reportage, la documentazione. Terminate le riprese, ci siamo trasformati in turisti: abbiamo steso gli asciugamani, nascosto l’attrezzatura che non era ingombrante (nastro di plastica, qualche legnetto).
Eravamo mimetizzati bene, in un punto dove sentivamo i commenti dei passanti, per esempio “guarda lì come la polizia è stata precisa”, “Ci devono essere le uova di qualche animale” “Lì ci costruiranno delle casine” “Guarda le piste per i go cart”. Commenti incredibili.
Abbiamo notato che nessuno durante la giornata si è avvicinato all’interno di queste aree, ma la situazione in sé ha creato molta curiosità, le persone non oltrepassavano i limiti imposti dal nastro, a differenza dei cani che invadevano, senza problemi, il territorio.
La giornata si è conclusa con il disinstallamento dell’opera, il recupero del materiale. Sarebbe stato irrispettoso lasciarlo lì. Quest’opera è stata notata da Adonay Bermúdez, curatore delle Isole Canarie, un luogo in cui esiste una forte relazione fra l’ambiente naturale e la tentazione dell’abuso edilizio, così mi ha coinvolto per una serie di interventi poi raccolti in un libro, intitolato Lanzarote arte y temporalidad. In questa occasione ho realizzato cinque interventi sulle spiagge di Lanzarote con il mio progetto ‘Delimitation’.