Proseguiamo il nostro dialogo con Roberto Picchi, artista diplomato all’Accademia Carrara di Bergamo, particolarmente interessato all’esplorazione dello spazio naturale, di media e alta quota. Dopo aver affrontato nella scorsa parte dell’intervista le problematiche relative alla definizione di “drammaturgia montana” e allo spazio, procedo ora con un’altra domanda e chiedo che cosa rappresentino i
Personaggi
rispetto al suo lavoro. Immagino che i funghi e le stalattiti di ghiaccio siano grandi protagonisti delle prossime righe…
R: “La ricerca della specificità” è una frase che può contraddistinguere il mio lavoro. Anche in una stalattite o in un fungo. Non ci sarà mai un elemento uguale all’altro.
Un certo luogo può avere personaggi che lo abitano, un certo tipo di fungo che puoi riscontrare solo in un determinato ambiente, o una stalattite la cui cromia è legata alla composizione del suolo, al clima, con caratteristiche talvolta uniche.
Nei miei dipinti cerco di elaborare le esperienze vissute sul campo. I personaggi, intesi come la pianta, lo sperone di roccia, piccoli roccoli, il blocco di neve, particolari sentieri hanno caratteristiche che sono il risultato tra vissuto personale e studi specifici.
Un collegamento tra interno ed esterno. In altri lavori, i personaggi, fisici, le persone, diventano protagoniste del progetto. “βλίτα”, il lavoro sull’amaranto, ad esempio nasce dalla storia d’amore tra una signora greca ed un loziese, conosciuto quando emigrò nel suo Paese per lavoro.
Il dettaglio della signora che porta con sé la piantina della sua madre patria, un qualcosa che mangiavano e mangiano tuttora in Grecia penso possa essere quantomeno interessante. La pianta che tende ad espandersi per natura e la storia che sta dietro il suo arrivo in Valcamonica diventano personaggi decisamente specifici.
Negli orti di Lozio, ora si possono trovare coltivazioni ordinate di verdure autoctone, o comunque, tipiche e l’amaranto che si sposta e prolifica ovunque trovi le condizioni adatte. La figura dalla quale è scaturita la storia ha creato molteplici significati ed indagato diverse tematiche: la signora greca venuta a Lozio con la pianta, l’amaranto che come lei ha messo radici, anche se in modo casuale, dettato dal vento e dal clima più in generale. Al tempo stesso c’è il discorso di un continuo scambio di emigrazione ed immigrazione imposto dal mondo del lavoro.
Parliamo di un paese che ha visto crescere i propri abitanti in passato (mi pare negli anni settanta ottanta) ed è caratterizzato da un’estrema cura dei campi e degli orti. Da questo punto di vista esistono differenze fra questi ultimi due, come ci hanno specificato i residenti: il primo è una risorsa per la vita, l’altro è vissuto oggi pressoché come un “passatempo” per i pensionati.
All’interno della ricerca pittorica si possono fare molti esempi di personaggi: piccole ciaspole inserite nel dipinto, stalattiti ricostruite cercando di simulare le morfologie della natura, particolari che spaziano da dimensioni colossali ad altri dettagli infinitesimali, mantenendo sempre un legame profondo tra osservazione, studio ed eventuale reinterpretazione.
Si può anche parlare di personaggi a livello artistico, di referenze più o meno conosciute nel mondo dell’arte. Le referenze sono molteplici e tengono conto di un lasso temporale molto ampio. Nel corso della mia tesi triennale che si concentra in particolar modo sulla storia del clima degli ultimi cinquecento anni, ricerco e traggo ispirazione dalle metodologie, dalle tecniche e dai processi che attuavano gli artisti già a partire dal Rinascimento.
In una ricerca che verte su queste tematiche, un lasso di tempo superiore ai trent’anni fa riferimento alla storia del clima, al contrario, quando l’arco temporale riguarda pochi mesi, o qualche anno, si parla di corso meteorologico. Ad esempio, nello studio, rimasi estremamente affascinato dagli artisti nel 1700, i quali, ebbero una capacità diagnostica così elevata del paesaggio alpino e glaciale da essere poi presi in considerazione negli studi glaciologici di molto tempo dopo.”
Spostiamo ora l’attenzione dai Personaggi a un altro elemento fondamentale per qualunque artista, ovvero
Il Pubblico
Chiedo, così, a Roberto Picchi di parlarmi del suo rapporto con i visitatori, con i partecipanti, come lo sente, come lo percepisce e gli chiedo se abbia fatto altre opere partecipative come quella di Blita, negli orti di Lozio.
“Il lavoro delle interviste a Lozio è discende da un’operazione diretta da un’antropologa, pertanto da un’ibridazione, dall’appropriazione di metodologie e tratti presi in prestito da altre professioni. Registrare, archiviare e interpretare sono pratiche che si possono fare proprie.
A volte, soprattutto in residenze di ricerca, strutturate per avere una forma di relazione diretta sia con gli altri artisti, sia con i visitatori, mi è capitato di imbattermi in dialoghi molto interessanti con persone anche slegate dal mondo dell’arte, ma che hanno trovato nella mia ricerca elementi che hanno catturato la loro attenzione (un micologo per esempio, con il quale è nata una forma di dialogo costante nel tempo).
Da questo punto di vista, vorrei portare avanti anche modi di dipingere dove l’elemento di studio e di relazione con il campo scientifico sia ancor di più tangibile. Ad esempio ho taccuini che finora non ho esposto, ma che sto valutando di mostrare. Mi sono reso conto che nei confronti di un osservatore interessato, questi particolari potrebbero fare la differenza nel lungo periodo e, in un certo senso, offrire un qualcosa in più, uno sguardo nettamente ampliato e multiforme.
A Lozio, io e Nicola Zanni, durante Falìa, abbiamo effettuato una residenza di quasi un mese. Questo ci ha permesso di sviluppare un lavoro legato alla collezione etnografica del museo locale, ma non solo: abbiamo constatato che le interviste erano necessarie e fondamentali. La formalizzazione del lavoro è arrivata in ultimo. Se la progettazione è durata diversi mesi, la formalizzazione si è risolta nel giro di poche settimane.
Gli abitanti del paese molto probabilmente non erano mai entrati nel museo etnografico, luogo che presenta e raccoglie una grande quantità di oggetti e piccoli pezzi di storia donati dalle persone del luogo e dei territori vicini.
Portarli lì e iniziare dialoghi, interviste in modo trasversale è stato veramente bello. Inizialmente di fronte ai reperti, abbiamo selezionato una piccola serie di oggetti per noi indecifrabili, per forma, collocazione temporale, uso e successivamente abbiamo chiesto agli abitanti che cosa fossero.
Della ventina di oggetti selezionati, una dozzina li conoscevano tutti, perché erano di quel luogo, mentre noi eravamo in un certo senso “stranieri”, sia per luogo, sia per epoca. Per quanto riguarda gli altri otto oggetti, ogni persona ci ha dato una sua versione, dal possibile uso, alla forma legata a un particolare.
A posteriori io e Nicola ci siamo resi conto che sovente gli intervistati utilizzavano frasi che iniziavano con la premessa: ”qualcosa per fare”. Espressione che abbiano successivamente scelto come titolo dell’opera. Questo lavoro e Blita (l’opera sull’amaranto, citato poco sopra) si sono basati su uno stretto rapporto con gli abitanti del luogo.
In altri casi, mi sono reso conto di aver messo l’osservatore in difficoltà, talvolta anche in modo non totalmente voluto. Per esempio, in residenza al Museo Must di Vimercate avevo creato una sorta di ecosistema nei confronti di una pavimentazione, all’interno della villa Sottocasa.
Avevo ricreato certi particolari geometrici con lamine di ferro e le avevo installate a pavimento, rialzandole con piccole sculture che rileggevano il percorso ambientale, paesaggistico e lavorativo del territorio brianzolo.
Dopo l’inaugurazione, ho compreso di aver presentato un lavoro piuttosto scomodo per il pubblico. Anche se fosse stata calpestata, l’opera non avrebbe subito danni: aveva uno strato importante di resine, le lamine di ferro non si potevano rompere.
Tuttavia, dopo alcuni giorni di esposizione, tornando sul luogo per la documentazione, osservai che le sculture, anche se in modo quasi impercettibile, erano state spostate dall’incedere dei visitatori, probabilmente attratti dall’oggettiva, straordinaria bellezza della villa.
L’opera, dialogando con la pavimentazione, penso abbia creato uno scarto fra chi capiva e comprendeva la presenza del lavoro e lo identificava come un qualcosa di mimetico e chi lo concepiva quasi come una sorte di protesi in continuità con lo spazio circostante, tanto da finirci sopra.”
Intreccio
Che cosa suggerisce la parola “Intreccio” a Roberto Picchi?
R: “Riferito al lavoro che condivido è un termine decisamente assai ricorrente; trama di storie, di racconti, è insito nella materia delle cose. L’intreccio, è un qualcosa che si differenzia, a parer mio, dalla superficie: sta fra la superficie e il profondo. In altre parole: la trama per me è un particolare che sta fra il superficiale e l’interno, inteso come il nucleo delle cose.
L’idea che ho di quest’ultima si applica abbastanza bene in pittura al mio concetto di texture. Nelle micro differenziazioni si può concepire come un insieme fluido, dinamico, unito.
Sicuramente ha il potenziale di unire la superficie, quel che vedo esteriormente, con ciò che posso cogliere mediante uno sguardo più attento. Potrei quasi dire che la trama è ciò che posso scrutare con uno sguardo derivato già da uno studio e da una ricerca vera e propria, è il cogliere tutte le possibili sfaccettature.
Inoltre, vedo l’intreccio anche come esperienze che si instaurano con le persone, una specie di dialogo, mentre la trama la collego e la riferisco alle cose, o a soggetti non umani. In un bosco percepisco meglio la trama, lo strato fra una pianta e l’altra.”
Quando chiedo a Roberto Picchi di farmi i nomi di qualche punto di riferimento importante nella sua produzione artistica, egli cita Samuel Birmann (1793-1847), pittore svizzero di Basilea. “Ha una capacità da fotorealismo” prosegue Roberto. “Riesce a differenziare tutto ciò che cattura nei suoi dipinti. Schizzi di lingue glaciali o serracchi erano e sono giudicati estremamente specifici dagli esperti. Alcuni particolari naturali, riesci a riconoscerli ancora adesso se hai un occhio acuto. Segantini, soprattutto nei dipinti dove affronta l’incredibile natura dell’Engadina, è uno degli artisti ai quali sono più affezionato. Il trittico della Natura penso sia una delle opere che più mi abbia affascinato in una mostra.
Altre tipologie di riferimenti, possono provenire da altri campi di studio. Ad esempio, glaciologi che hanno fatto numerose spedizioni e studi sul campo, o micologi. L’ordine nascosto di Merlin Sheldrake penso sia uno dei libri più belli che lessi per preparare la tesi… parla di elementi invisibili che sostengono il mondo, passaggi a catena. Elabora un discorso straordinario su batteri e muffe.
Anche Wolfgang Behringer, noto storico tedesco, ha catturato la mia attenzione nella sua Storia culturale del clima, dove cerca di tracciare possibili connessioni tra avvenimenti storici e dati scientifici forniti dalla climatologia. Un lavoro così interessante, da stimolare il desiderio di concentrarsi su qualcosa di simile. Questi sono tutti elementi che possono entrare in un’opera.”