A dispetto del titolo di sito e blog, in questo articolo lasciamo la città e il territorio fortemente antropizzato per dirigerci in montagna. Il concetto di drammaturgia urbana, infatti, è solo una delle possibili declinazioni di una più ampia drammaturgia degli spazi. Così, ora dirigiamo l’attenzione a un contesto che mi sembra appropriato definire di “drammaturgia montana”.
Il nostro ospite questa settimana è Roberto Picchi, giovane artista diplomatosi all’Accademia Carrara di Bergamo, particolarmente interessato alle problematiche legate al clima, alla meteorologia, alla glaciologia e alla micologia, nonché a un forte legame con le alpi, la roccia, il ghiaccio. La montagna di media e alta quota è un punto di riferimento importantissimo nella sua produzione.
Trasferisco dunque le mie canoniche domande in un ambito molto diverso da quello abituale urbano e sarà quindi necessario qualche “aggiustamento”.
In particolare per quanto riguarda la prima questione chiedo a Roberto di darmi la sua definizione di drammaturgia montana, invece della “solita” interpretazione personale del concetto di “drammaturgia urbana”.
Drammaturgia montana
Poiché il nostro ospite desidera sapere in che modo sia inteso il termine “drammaturgia”, chiarisco che la definizione è assolutamente libera.
R: “Se questa parola la si può intendere sotto vari aspetti, in modo multidisciplinare ed è slegata dal suo significato letterale, allora le parole chiave da darti, potrebbero essere l’incedere e il camminamento. L’idea di drammaturgia che ho in testa corrisponde a un rapportarsi con ciò che ci sta attorno. In questo senso, il camminamento è un possibile dispositivo, un supporto a questa pratica.
Il fatto che in montagna sia necessario un determinato modo di camminare, in città un altro e in pianura un altro ancora, permette di estendere il termine “drammaturgia” a ogni “habitat”. Per esempio, potremmo applicarla all’esplorazione di un ambiente fluviale e avere una drammaturgia fluviale, molto diversificata con il passare del tempo.
Sicuramente l’incedere e la dinamicità del tempo esterno, meteorologico e cronologico, sono parole che collegano le varie distinzioni ambientali. Il concetto di “Drammaturgia montana” lo vedo un po’ come una specificità rispetto a un possibile processo da estendere a vari punti. A sua volta, rispetto allo spazio alpino, si possono fare varie distinzioni, per esempio fra l’ambiente di media montagna, compreso fra i 1500 e i duemila metri e quello di alta quota, con i ghiacciai, dai 3500 metri in su. E’ una domanda che apre molteplici strade.”
Certe pratiche di camminamento attuate, per esempio, lungo un fiume, possono avere congruenze con alcune rocce che si trovano in montagna, o con sedimentazioni del terreno. Oppure l’erosione del suolo, può avere corrispondenze in città nelle radici che fanno saltare l’asfalto.”
Per Roberto Picchi la “Drammaturgia montana” è qualcosa legato allo spostamento che permette l’esplorazione meticolosa e attenta di un territorio specifico.
Sottolineo questo aspetto perché trovo questa definizione molto prossima ad aspetti che guidano anche il mio lavoro, una forma di “esplorazione” attuata grazie all’attraversamento dello spazio, effettuato a piedi, su percorsi a medio e lungo raggio, in città e in montagna.
Un modo di affrontare la “drammaturgia degli spazi abitati su cui desidero tornare in seguito probabilmente con un articolo, anche alla luce di un interessante dialogo che abbiamo avuto con altri artisti durante un incontro recente on line, in occasione del progetto “Il giardino d’inverno” di Rebecca Agnes e Vera Pravda.
Passo quindi alla seconda domanda di rito, riguardante la percezione dello spazio. Così chiedo a Roberto che cosa gli suggerisca, come lo interpreti, come lo percepisca.
SPAZIO
R: “Lo spazio per quel che mi riguarda ha una forte connessione con il paesaggio.” Afferma e prosegue precisando che “Ci sono due tipologie di spazio rispetto al lavoro. C’è lo spazio esterno outside dell’esplorazione e quello inside dove pensi a come dislocare il tuo lavoro al chiuso. Spazio interno chiuso e spazio esterno aperto.
Mi piace creare connessioni fra queste due dimensioni di spazio, quindi cerco di portare all’interno quello che ho vissuto all’esterno. E’ uno dei connotati che maggiormente cerco nella pittura, sia dal punto di vista iconografico, sia da quello materico.
Anche la ricerca artistica che porto avanti con Nicola Zanni, artista diplomatosi con me alla Carrara a Bergamo e che ha successivamente studiato all’Accademia di Urbino, parte da questi presupposti. Stiamo considerando e attuando processi dove la materia è sottoposta a trasformazioni all’esterno, con un ulteriore passaggio di forma nello spazio interno.
In generale il rapporto con lo spazio, inteso come luogo e paesaggio è molto stretto. Ad esempio, potrei parlarti dell’esplorazione e dello studio del territorio di Lozio, in Valcamonica, paese che abbiamo esplorato in diverse occasioni, a partire dal 2019, durante Falìa, residenza artistica a cura di Alice Vangelisti.
Due anni dopo, affiancati dalle ricerche antropologiche condotte da Sofia Marconi, giovane antropologa milanese, abbiamo lavorato con il concetto di orto e di cura del verde. In particolare su quel che ha significato l’orto in un paesaggio in costante cambiamento, come è avvenuto in questa realtà.
Il paese, infatti, ha subito un fenomeno di imboschimento naturale molto forte e che genera diverse problematiche, per esempio a causa del bostrico, insetto che minaccia gli abeti rossi. Quest’ultimo si propaga, in particolare, dopo catastrofi naturali, ai margini di bosco, dove possono trovarsi piante morte. Questo piccolo organismo prolifica e il danno si estende in modo notevole.
Riflettendo anche su questi avvenimenti, abbiamo pensato di intervistare le persone del luogo all’interno dei propri orti e di farci raccontare la loro storia nei confronti dei mutamenti avvenuti nel paesaggio circostante.
Da tutto questo è nata la possibilità di lavorare sul racconto di un’ inusuale importazione involontaria avvenuta molti anni fa, riguardante la pianta dell’amaranto. Da qui, abbiamo scelto di intitolare l’opera con il nome stesso della pianta tradotto in greco: “βλίτα” (dato che è stata importata a Lozio dalla Grecia).
Questa specie, che vive anche in zone tropicali, vegeta particolarmente bene in climi temperati ed umidi. Ciò nonostante ha prolificato anche a Lozio, paese che per diversi mesi l’anno presenta un clima prealpino, piovoso e freddo, ad un’altitudine variabile nelle frazioni dai 700 a più di 1000 metri.
Scelta la pianta, in particolare nella forma delle piccole pannocchie, attraverso le quali prolifica, e delle grandi foglie, abbiamo svolto una ricerca sul luogo dal punto di vista materico.
Aiutati da Tone, straordinaria e conosciutissima figura di riferimento del luogo, abbiamo scoperto un banco argilloso sulle rive del fiume a valle, e, con un processo di estrazione, di lavorazione con acqua e setaccio abbiamo recuperato l’argilla.
Materia con la quale abbiamo replicato le morfologie tipiche della pianta e deciso di inserirle così nello spazio, assieme ad un altro elemento presente in tutti gli orti: la rete antigrandine.
Infatti, nelle interviste agli abitanti del luogo, impegnati nella coltivazione del proprio orto, è emersa la necessità di avere queste reti, perché anche a Lozio, il fenomeno si è moltiplicato e abbiamo voluto usare anche noi questo elemento.
Partendo da questi satelliti esterni, l’amaranto e la rete antigrandine, abbiamo così creato in un orto coltivato questo lavoro materializzato in forme in argilla cotta e cruda di Lozio. Le sacche interagivano con il peso del contenuto, in certi punti anche simulando la rottura provocata dalla grandine, se è molto pesante, con la creazione di un collegamento tra parte superiore e terreno.
Sempre con Nicola, stiamo lavorando a un camminata, un’azione che fa parte di un processo artistico che osserva con attenzione alcune caratteristiche tecniche e processuali del lavoro di diversi artisti: di Gabriel Orozco, ci interessa un discorso legato alla possibile ricettività del metodo e del dispositivo, di Oscar Leone, un ragionamento sull’equipaggiamento, sulla pratica del cammino, della fatica e da Renata Boero, con la quale abbiamo avuto la fortuna di dialogare e di farci raccontare il suo lavoro, una visione inerente alla processualità e all’espansione temporale del processo stesso.
Abbiamo realizzato una palla piuttosto grande, di una sessantina di chili, di argilla fresca, con la quale stiamo facendo diverse azioni in paesaggi differenti, così da creare un legame diverso rispetto alla diversità del paesaggio. Il dato interessante è che la palla dopo pochi metri è come se dialogasse con il paesaggio, ha la possibilità di raccogliere tutto, anche i sedimenti di polvere. Ad esempio abbiamo fatto rotolare la palla a Sovere, sopra il lago di Lovere.
La spingiamo insieme entrambi. Nel contesto del dialogo tra spazio esterno e interno, intendiamo riproporre questa esperienza vissuta, attraverso diverse modalità aperte che potrebbero considerare molteplici vie, dai calchi, a sezioni di palla scomposta, magari ricreata in diversi materiali…
Si tratta di un lavoro nuovo. Utilizzeremo probabilmente un equipaggiamento specifico di volta in volta, ci saranno abiti in tnt, guanti, stivali, scarponi, una sorta di paesaggio a 360 gradi”
Trovo tutto ciò molto interessante e chiedo qualche dettaglio tecnico.
R: “Per tenere insieme la palla abbiamo preparato al suo interno una struttura in ferro. L’argilla aderisce a quest’ultima ed evita che si stacchino pezzi troppo grossi. La palla, infatti, nel suo incedere, sul suolo sconnesso con sassi, ricci di castagne, legnetti, etc, rischierebbe di scomporsi in brevissimo tempo. Per questo è strutturata anche rispetto alle condizioni che incontrerà.
L’idea è quella di riportare questa azione, totalmente silenziosa, fatta solo da noi due, eccezion fatta per un eventuale operatore esterno che ci filma, insieme a ciò che cogliamo nelle pause tra una spinta e l’altra. Pause che ci consentono di rallentare, di scorgere particolari del paesaggio, in un risultato finale da condividere con chi vedrà il lavoro.”
In ogni paese dove Roberto Picchi e il suo compagno d’arte Nicola Zanni porteranno la azione creeranno una palla diversa da spingere su sentieri, o attraverso terreni “vergini”.
R: “La palla dopo una mattina può prendere o perdere peso, radici, piccole piante, altri elementi. Nell’ultima azione siamo partiti facendo una piccola camminata senza palla, abbiamo individuato come meta per terminare la performance, una parte pianeggiante fra le montagne, delimitata in alto e in basso da un bosco.
Un altro luogo dove ci interessa fare questa azione potrebbe essere un ambiente fluviale, così come altri tipi di boschi o montagne. La critica condizione climatica attuale offre la possibilità di realizzarla in un torrente o fiume in secca ad esempio.
Se la si dovesse affrontare su percorso roccioso, occorrerebbe probabilmente ridurre un po’ il peso della palla e allungare la durata dell’azione, variabili legate all’ambiente che si va ad indagare.”
Chiedo a Roberto Picchi se desideri aggiungere qualche altra riflessione a proposito dello Spazio.
R: “Rispetto ai singoli lavori che elaboro c’è un discorso legato all’atto del camminamento.
Il lavoro si compone di due momenti: quello soggettivo legato al camminamento, al vivere lo spazio, attraversarlo, andare a cercarsi delle ostilità; quello più oggettivo, della ricerca a priori e a posteriori del luogo esplorato, sul piano climatico e meteorologico.
Riferito ai dipinti, la ricerca potrebbe esemplificarsi in un piccolo diario meteo-climatico. L’idea è che possa in un tempo futuro comunicare rispetto alla situazione che vivo e viviamo sul piano paesaggistico e ambientale. Lo spazio nell’ambito scultoreo ed installativo mi ha sempre interessato molto. In alcuni lavori ne ho fatto un limite e una risorsa: lavorare in funzione di riempire lo spazio, farlo percepire in un altro modo.
Anche la luce in uno spazio mi interessa, chiaramente al di fuori è qualcosa di incontrollabile che si può ricercare in particolari condizioni, ma mai determinate da noi. In uno spazio interno invece ci sono condizioni determinate dalla nostra volontà e quindi si può parlare di ciò che si riesce a creare, di propensione personale nel concepire determinate cose all’interno.
Altre due parole che ti darei volentieri sono saturazione dello spazio e svuotamento. Avere, concepire uno spazio vuoto enorme, dentro il quale possa coesistere un’opera piccolissima, spiegare il perché di questa scelta, consapevole e coerente; o lavorare sul suo esatto opposto. Ovvero, sul concetto di saturazione, in modo da mettere il fruitore nella condizione di sporcarsi, o calpestare parti di opere e così via.
Le mie opere pittoriche hanno sempre un elemento scultoreo, nei passepartout per esempio sono presenti elementi in cera o resine. Gli stessi materiali che uso nei dipinti sono pitture polimateriche, ci sono trementine venete, diverse tipologie di colle (per esempio di coniglio), sovrapposizioni, stratificazioni di tecniche.
Se intendiamo lo spazio come paesaggio, invece, ci sono indizi che vado a ricercare. La ricerca e l’esplorazione per me sono fattori primari. La ricerca dei funghi nei mesi estivi e autunnali è un elemento che influisce nella mia attività. L’osservazione dello spazio, in questo caso naturale, è totalmente soggettiva.
Quando vado con qualcun altro, a camminare, in montagna o anche in città, ci sono particolari che individuo per primo, per esempio, quelli legati alle candele di ghiaccio. Sono particolari ai quali le altre persone non fanno caso. Io, invece, noto più facilmente una stalattite di ghiaccio che cola da un semaforo, rispetto alle macchine o alle persone che mi circondano.”
Chiedo a Roberto se abbia una collezione di fotografie di stalattiti di ghiaccio.
R: “Ho un archivio gigantesco. A volte, si vanno proprio a cercare elementi particolari, a volte invece te li ritrovi davanti. Quella percezione da cacciatore, ricercatore di funghi, l’abitudine di scrutare ogni minimo dettaglio ad altezza visiva o sotto ai piedi, l’attenzione ai particolari più piccoli, o strani rappresentano altre relazioni ipersoggettive verso lo spazio esterno.
Inoltre, attraverso la visione di un fungo, per esempio, in foto, o in un quadro, mi ricollego al luogo dove l’ho trovato, ricordo quale tempo faceva, la data. Anche perché si tratta di luoghi molto cari. I boschi, soprattutto in relazione alla ricerca dei funghi, evocano la cultura di tramandarsi di generazione in generazione i posti dove trovarli, così identifichi un luogo con le persone insieme alle quali sei andato. Lo spazio ha significati molteplici.”