In questo articolo dialoghiamo con Vera Pravda – al momento in residenza presso Archivio ViaFarini – a proposito di drammaturgie urbane e progetti di arte partecipata, punti importanti nel suo percorso di ricerca artistica.
Come al solito, rivolgo alla nostra ospite le domande canoniche che permettono di aprire un dialogo trasversale con tutti gli artisti impegnati a confrontarsi su questo blog, sulle problematiche inerenti lo spazio, il concetto di personaggio, di trama, di pubblico-audience e naturalmente di drammaturgie/a urbane/a.
Inizio quindi dalla prima domanda e chiedo a Vera di darmi la sua definizione di
drammaturgia urbana o drammaturgie urbane
al plurale, come preferisce:
V: “Drammaturgie urbane al plurale perché viviamo in una pluralità, in una rappresentazione di dinamiche plurime, di relazioni, verticali e orizzontali e non necessariamente relazioni di potere. Lo spazio urbano è un luogo dove queste relazioni si condensano.
Per sua vocazione, esso concentra i rapporti tra persone, e anche con e tra altri esseri viventi, animali, vegetali, paesaggi, memorie. Mi piace il termine ‘drammaturgia’, lo trovo molto appropriato: il fatto di vivere in uno spazio urbano rende più visibili le rappresentazioni che noi mettiamo in scena. Una scena, in questo caso, coincidente con la vita reale.”
Passo alla seconda domanda, a proposito dello
SPAZIO
e formula una raffica di questioni. Chiedo alla nostra ospite di spiegare come percepisca e concepisca il suo rapporto con lo spazio, quali siano gli spazi che sceglie, come si rapporti con lo spazio nei suoi lavori. Non solo, domando anche che cosa rappresenti per lei lo spazio rispetto ad un’altra dimensione come il tempo. In sostanza, vorrei poter conoscere tutto quello che si sente di dire sullo spazio, posto che non debba essere necessariamente solo quello urbano.
V: “Mi viene da dire che il tempo e lo spazio non sono scollegati uno dall’altro. Il mio rapporto con lo spazio è un rapporto con l’uso dello spazio in un determinato tempo. Molte delle mie opere avvengono in spazi pubblici e molte sono di grande formato, alcune sono temporanee. Le ragioni sono varie: ecologiche e sociali, più che relative ad una volontà di occupazione fisica dello spazio.
Ad esempio utilizzo delle pitture che riducono l’inquinamento atmosferico: più è ampia la superficie dipinta, maggiore è l’effetto sull’aria, per questo lavoro su tele di grande formato o direttamente su muro, con wall drawings site-specific, dipinti a pennello.
In generale, affronto argomenti che ritengo importanti come temi di elaborazione collettiva, come il rapporto con l’ambiente o le questioni sociali e di genere: dall’inquinamento dell’aria, alla plastica, all’interdipendenza reciproca, al gender gap, alle strategie di relazione e di difesa fisica ed emotiva.
Lavoro per serie, che spesso si intrecciano si accavallano, perché spesso questi argomenti sono correlati gli uni agli altri. Cerco il confronto con le persone e realizzo progetti partecipati o che prevedano un’interazione con il pubblico. Mi viene in mente uno slogan degli anni ’70: il personale è politico.
Ad esempio con la serie Green is Gold, iniziata nel 2019, sono scesa in piazza della Scala a Milano e in altri luoghi per lavorare con le persone di passaggio, realizzando azioni partecipate in cui chiedo la plastica che queste hanno nelle tasche o nelle borse.
La loro prima risposta è spesso “Non ne ho”, ma poi tornano portandomi la loro plastica. Questo perché i materiali plastici sono pervasivi nella nostra vita quotidiana: involucri di alimenti, di riviste, di fazzoletti…
I materiali che raccolgo formano arazzi di grandi dimensioni, su cui campeggiano “Green is gold” e altre scritte, realizzate a doratura metallica (amo usare tecniche antiche con materiali moderni).
Lavoro sulla dissonanza cognitiva, cerco di chiedere gesti e di usare claim con riflessioni positive, di dare un apporto al tema in modo accogliente, non perentorio o giudicante.
Al momento ho sospeso le azioni dirette a causa della pandemia (spero di riprenderle in primavera) ma alcune opere di questa serie sono esposte al Terminal 1 dell’Aeroporto di Malpensa, continuano quindi a dialogare con le persone che le vedono, e che possono rispecchiarsi nei consumi di altri individui come loro.
Mi capita che, vedendo gli arazzi a Malpensa, delle persone mi mandino riflessioni e incoraggiamenti su instagram, la cosa mi fa molto piacere. Nel corso di questi tre anni ho notato cambiamenti, vedo molti più involucri in materiali biodegradabili: chiunque può contribuire al cambiamento, è la somma di tutte le azioni che lo genera!”
L’argomento è denso e chiedo a Vera se desidera aggiungere ancora qualche altra riflessione sullo spazio.
V: “Da un lato penso allo spazio relazionale, dall’altro allo spazio interstiziale.
Sullo spazio relazionale posso raccontarti di un dipinto murale che ho realizzato per il SUA – San Vito Urban Art 2021, a San Vito Lo Capo in Sicilia: è un wall-drawing di una trentina di metri, dedicato alle ofridi lunulate, delle orchidee selvatiche presenti nella vicina Riserva dello Zingaro, alle quali ho affiancato la frase ‘tu si jò – tu sei me’, la frase del rispecchiamento reciproco, in italiano e in dialetto. Il lavoro fa parte della serie Inter nos.
Con quest’opera ho cercato di entrare in contatto non solo con lo spazio, ma con le persone che abitano lo spazio, sia nella fase preparatoria, attraverso la ricerca visiva e chiedendo alle persone la frase in dialetto, sia durante la realizzazione, e devo dire che la gente spesso si fermava mentre dipingevo, chiedeva, raccontava, si faceva selfies. Bello riscuotere tanta partecipazione parlando di specie arboree.
Lo spazio interstiziale invece mi affascina. Alcuni luoghi, chissà perché, non vengono considerati adatti all’arte, vuoi perché luoghi di confine fra pubblico e privato, o perché ricchi di altre determinazioni.
Mi piace invece lavorare su questi spazi, anche in modo temporaneo. Penso ad esempio a Find your bindu, una serie realizzata nel 2017 assieme a Chiara Tas, un lavoro di tracciatura di bindu nella città di Milano, effettuato con permessi temporanei di occupazione del suolo pubblico. Cerchi di centratura all’interno dei quali c’è un punto, idealmente veri e propri strumenti per centrarsi, sia a livello individuale, sia collettivo.
Noi tracciavamo i bindu, e guardavamo che cosa succedeva, per poi rimuoverli allo scadere del permesso. Le persone attraversavano i cerchi, si fermavano, vi entravano, si scattavano foto, ci giocavano, creando momenti di grande gioia.
Sono convinta che l’osservazione dell’opera incida su chi guarda. Nei bindu, così come nei ‘Green is Gold’ o nei ‘tu sei me’, una volta che hai letto la frase o hai guardato l’immagine, questa si imprime e nell’inconscio continua a lavorare – insieme a tanti altri elementi.
Se le presti attenzione, lavora ancora di più. Sono azioni artistiche in dialogo con chi le vede, non hanno valenza scientifica, ma sento la responsabilità di ciò che inserisco in questo dialogo, e spero di contribuire a sostenere riflessioni e prese di consapevolezza positive, utili, anche dal punto di vista pratico, nel qui e ora.”
(prosegue).