Durante la residenza presso l’Archivio VIAFARINI ho conosciuto Catherine Bernabé, conservatrice d’arte contemporanea indipendente, residente a Montreal (Canada). Approfitto quindi di questa preziosa presenza, per rivolgerle alcune domande a proposito di drammaturgia urbana. O piuttosto, le chiedo di darmi il suo punto di vista riguardante le questioni-cardine che pongo, sempre uguali, a tutti gli intervistati.
Questa che state leggendo è la versione tradotta in italiano dell’intervista che mi è stata rilasciata in francese (e che potete trovare al termine dell’articolo in italiano). La prima definizione riguarda, come al solito, il concetto di “drammaturgia urbana”, o di “drammaturgie urbane”.
C: Dal mio punto di vista la drammaturgia urbana è presente ovunque. E’ costituita dalla vita quotidiana, dalle differenti esistenze che si sovrappongono, si intrecciano nello spazio condiviso, comune, uno spazio che si attiva grazie alle nostre presenze e questo crea una narrazione continua, ininterrotta.
Ci è rivelata grazie ad alcune pratiche, gesti, azioni. Quando un artista crea un opera nella città, che sia realizzata in modo nascosto, furtivo, invisibile, o partecipativo, questo permette di svelare le narrazioni che già sono presenti, oppure di crearne di nuove.
Con il progetto “Villeray acoustique” che ho realizzato con il Colletivo dB formato dalle artiste Chantal Dumas e Magali Babin abbiamo installato una segnaletica permanente nello spazio pubblico. Con dieci punti d’ascolto, il percorso incoraggia le persone – che passano per caso o che intraprendono il cammino intenzionalmente – ad ascoltare i suoni del paesaggio.
Non c’è alcun dispositivo o elemento tecnologico, né suono registrato, su ciascun pannello indichiamo invece le caratteristiche acustiche dell’ambiente, i fatti culturali o storici e proponiamo una postazione d’ascolto e una sperimentazione sonora dello spazio. I suoni che si ascoltano quando si concentra l’attenzione su ciò che ci circonda ricostruiscono una memoria del luogo che chiamiamo “impronte sonore”.
Queste ultime scelgono, selezionano suoni specifici rispetto ad ambienti altrettanto precisi (il passaggio costante degli aerei quando, per esempio, ci si trova sotto un corridoio di transito aereo) e caratterizzano il paesaggio sonoro. Le impronte acustiche possono anche rivelare le drammaturgie urbane, poiché sono spesso legate a suoni provenienti dagli spazi intimi (i suoni delle persone che, per esempio, cucinano e si ascoltano d’estate quando le finestre sono aperte), dalla quotidianità (le conversazioni dei passanti su una piazza), o ancora riportano alla memoria ricordi precisi vissuti in altre occasioni (i bambini che giocano a hockey in una via, o sulle strutture del parco giochi).
Ascoltando il paesaggio, si ascolta anche la sovrapposizione di tutte le vite che lo compongono, si possono immaginare i racconti che vi si possono sviluppare. Ascoltando l’ambiente che ci circonda, si scoprono molti marcatori importanti del paesaggio, sia esso urbano o naturale, e questi contribuiscono alla costruzione e alla tutela dei ricordi, alla loro preservazione.
La mia seconda domanda riguarda il modo con cui Catherine si rapporta con il concetto di
Spazio (abitato, pubblico, relazionale, sociale, urbano, rurale, o montano)
C: Lo spazio è stato sempre il soggetto centrale delle mie ricerche. Ho scritto la mia tesi di laurea sugli artisti che camminano nella città e cercano di inserirsi in essa attraverso tre strategie – la traccia, l’impronta e la raccolta – nonostante la loro mobilità.
Inoltre, sto conducendo la mia ricerca curatoriale, al momento attorno al concetto di geografia. Attraverso questo approccio desidero esplorare il nostro modo di essere in relazione con gli spazi che ci circondano. Il mio rapporto con lo spazio è attenzionale e cerco di trasmetterlo attraverso il mio lavoro. Attualmente, sto lavorando sovente con artisti che si esprimono attraverso la ricerca acustica e che mi fanno prendere coscienza dell’aspetto multidimensionale dello spazio, come ho precisato prima.
Cerco anche di riprodurre questa attenzione verso l’ambiente che mi circonda nel mio modo di lavorare con gli artisti. In questo senso, mi auguro di immergermi in un autentico processo di collaborazione e di creazione di uno spazio comune – di spazio e di dialogo – verso di loro.
Nel 2017, ho avviato un ciclo di tre progetti sulla geografia. Il primo, chiamato “Géographies recomposées: S’ensevelir” vede riuniti due artiste che ho scelto perché accomunate dalla stessa sensibilità nei confronti del paesaggio e dal modo di rielabolarlo nelle ricomposizioni visive, attraverso la fotografia e i video.
Entrambe non avevano mai lavorato insieme, ma durante la loro produzione, hanno deciso di realizzare tutta la mostra insieme, di fare una sola opera da mostrare, declinata in una decina di video e fotografie. Hanno compiuto una microresidenza in campagna durante l’inverno e hanno realizzato una serie di video e di fotografie nelle quali inserivano azioni nel paesaggio.
Entrambe hanno decomposto e ricostruito alcuni elementi di tali azioni (disegnare tracce di pass nella neve, attendere che la neve le cancellasse; tendere un immenso pezzo di carta da un albero all’altro e lasciare che il vento lo strappasse; stendersi al suolo in un campo finché la neve le ricoprisse…). Entrambe sono state attente agli elementi della natura, all’influenza della loro presenza e delle loro azioni su di essi, nonché al trascorrere del tempo che interviene nella composizione di uno spazio.
Le due artiste hanno realizzato azioni per poi lasciare che la natura riprendesse il suo corso. Questo progetto ha gettato in qualche modo le basi per la mia ricerca sulla geografia, ho realizzato un lessico con le definizioni dei termini di base: spazio, tempo, luogo, corpo/azione, paesaggio, traccia, superficie. Si tratta di un rapporto un po’ impressionista rispetto al paesaggio che ci permette di comprendere il nostro legame sensibile con esso, secondo un approccio fenomenologico dello spazio.
Nel 2020, ho realizzato Cadrer la nature. Il Centro d’esposizione dell’Università di Montréal mi ha invitato a immaginare una mostra on line con le opere della loro collezione; si aspettavano che lavorassi con artisti di arte attuale e che realizzassi i progetti in esterno. Ho scelto quattro artisti: Janick Burn, Hannah Claus, Ariane Plante e Ingrid Tremblay, ai quali ho chiesto di realizzare un’opera sul Mont-Royal, la montagna che dà il nome alla città ed è al centro della medesima.
Ho abbinato ciascuna di loro all’opera di un’artista sconosciuta della storia dell’arte del Quebec ( Maude Connolly, Jennifer Dickson, Jeanne Rhéaume et Andrée S. de Groo), appartenente alla collezione del Centro e ho chiesto loro di ispirarsi ad essa. Durante il loro processo di creazione ho dialogato con loro, ho condiviso letture e ho scritto i testi nello stesso momento in cui loro creavano le opere e a partire dalle nostre discussioni. E’ stata una vera esperienza di co-creazione.
Nonostante le costrizioni imposte (da parte del Centro, in seguito alla pandemia, e il mio approccio di tipo direttivo), le artiste hanno davvero molto apprezzato questa esperienza.
Abbiamo creato uno spazio comune di scambio, dove allo stesso si costruiva il tutto, è stata un’esperienza molto fluida e organica. I miei testi rivelano il processo di creazione e testimoniano il lavoro mentre prende forma. Sono come un filo di pensieri, una riflessione in corso.
Ho anche integrato citazioni di diversi autori che mi hanno ispirato e con cui creo una specie di dialogo. Intendo questo quando mi riferisco alla costruzione di uno spazio di scambio: fra me, le artiste, gli autori, le tematiche, le opere. Vorrei che i progetti fossero davvero collettivi.
In questo momento – e per concludere il ciclo – mi interessa lo spazio abitato e mi piacerebbe esplorare come oltrepassa la nostra abitazione per estendersi alla città, ma anche come ciò che rechiamo in noi partecipi alla sua costruzione.
Durante la residenza presso VIAFARINI, sto compiendo letture sul concetto di “domestico,” “casalingo”, sull’attenzione e sul modo con cui rappresentiamo gli spazi. Ho anche desiderio di riflettere su come lo spazio è modellato dalle nostre percezioni e attraverso la nostra esperienza del medesimo. Uno spazio abitato diventa un luogo, uno spazio praticato può diventare significativo e uno spazio semplicemente percorso può ospitare uno spazio di passaggio. Desidero riflettere sulle nostre relazioni con gli spazi che ci circondano e sulle influenze reciproche.”
(Prosegue)
Version Originale en Français:
Pendant la résidence d’artiste chez Archivio Viafarini j’ai connu Catherine Bernabé, conservatrice d’arte résidente à Montreal (Canada). Donc j’ai profité de sa precieuse présence, pour lui poser quelques questions à propos de la dramaturgie urbaine; ou plutôt, pour lui poser les questions-pivots que j’adresse d’habitude aux tous mes répondants.
La première concerne la definition, la personnelle definition du concept de “dramaturgie urbaine”, ou de “dramaturgies urbaines”.
C: “Pour moi, la dramaturgie urbaine est présente partout. C’est la vie quotidienne, ce sont les différentes existences qui se superposent dans un espace partagé, un espace que l’on active par nos présences et c’est ce qui crée une narration continue. Grâce à des pratiques, des gestes et des actions, elle nous est révélée. Lorsqu’un artiste fait une œuvre dans la ville, qu’elle soit furtive ou participative, cela permet de dévoiler les récits qui s’y trouvent ou encore de en créer de nouveaux.
Avec le projet Villeray acoustique (photo N°1, ci-dessus) que j’ai réalisé avec le Collectif dB formé par les artistes Chantal Dumas et Magali Babin, nous avons installé une signalétique permanente dans l’espace public. Avec dix points d’ouïe, le parcours permet d’encourager les gens – qui passent par hasard ou qui font le circuit intentionnellement – à écouter les sons du paysage.
Il n’y a aucune technologie, aucun son n’est enregistré, nous indiquons les caractéristiques sonores de l’environnement, quelques faits culturels ou historiques et proposons une posture d’écoute et une expérimentation sonore de l’espace sur chacun des panneaux. Les sons que l’on entend lorsque l’on porte attention à ce qui nous entoure composent une mémoire du lieu que l’on appelle des « empreintes sonores ».
Celles-ci cernent des sons spécifiques à des environnements précis (le passage constant des avions lorsque l’on se trouve sous un corridor aérien par exemple) et caractérisent le paysage sonore. Les empreintes sonores peuvent aussi révéler les dramaturgies urbaines puisqu’elles sont souvent liées à des sons qui proviennent des espaces intimes (les sons des gens qui font la cuisine que l’on entend l’été lorsque les fenêtres sont ouvertes), du quotidien (les conversations des gens sur une place publique) ou encore elles rappellent à la mémoire des souvenirs précis que l’on a vécus autrefois (les enfants qui jouent au hockey dans la ruelle, qui jouent dans les modules du parc).
En écoutant le paysage, on écoute aussi la superposition de toutes les vies qui le composent, on peut s’imaginer tous les récits qui s’y déroulent. En écoutant notre environnement, on découvre plusieurs marqueurs importants du paysage, qu’il soit urbain ou naturel, et ceux-ci participent à la construction et à la préservation des mémoires.
Ma deuxième question concerne la façon avec laquelle Catherine travailles avec le concept
D’ESPACE (habité, public, relationnel, social, urbaine, rurale, ou de la montagne)
C: “L’espace a toujours été le sujet central de mes recherches. J’ai fait mon mémoire de maîtrise sur les artistes qui marchent dans la ville et tentent de s’y inscrire par trois stratégies – la trace, l’empreinte et la collecte – malgré leur mobilité.
Puis, je poursuis actuellement ma recherche commissariale autour de la notion de géographie. Avec cette approche je veux explorer nos façons d’être en relation avec les espaces qui nous entourent. Mon rapport à l’espace est attentionnel et c’est ce que je tente de reproduire dans mon travail. Ces temps-ci, je travaille souvent avec des artistes en art sonore qui me font prendre conscience de l’aspect multidimensionnel de l’espace, comme mentionné plus haut.
Je souhaite aussi reproduire cette attention à l’environnement qui m’entoure dans ma façon de travailler avec les artistes. Je souhaite être dans un réel processus de collaboration et de création d’un espace commun – d’échange et de dialogue – avec eux et elles.
En 2017, j’ai amorcé un cycle de trois projets sur la géographie. Le premier nommé Géographies recomposées : S’ensevelir (Photo 2, ci-dessus) a réuni deux artistes que j’avais choisi pour leur sensibilité commune au paysage et pour leur façon de le rejouer dans des recompositions visuelles avec la photographie et la vidéo.
Elles n’avaient jamais travaillé ensemble, mais au fil de leur production, elles ont décidé de réaliser toute l’exposition à deux, de faire une seule œuvre/exposition déclinée en une dizaine de vidéos et de photographies. Elles ont fait une microrésidence à la campagne durant l’hiver et ont réalisé une série de vidéo et de photographies dans lesquelles elles posaient des actions dans le paysage.
Celles-ci décomposaient et reconstruisaient certains de ses éléments (faire des traces de pas dans la neige, puis attendre que le vent les efface; tendre un immense papier d’un arbre à un autre et laisser le vent le déchirer; se coucher au sol dans un champ jusqu’à ce que la neige nous recouvre…). Elles étaient attentives aux éléments de la nature, à l’influence de leur présence et de leurs actions sur ceux-ci et aussi au passage du temps qui intervient dans la composition d’un espace.
Elles réalisaient des actions pour ensuite laisser la nature reprendre son cours. Ce projet jetait en quelque sorte les bases à ma recherche sur la géographie, j’ai réalisé un lexique avec les définitions des termes de base : espace, temps, lieu, corps/action, paysage, tracs, surface. C’était un rapport un peu impressionniste au paysage qui nous permettait de comprendre notre lien sensible avec celui-ci dans une approche phénoménologique de l’espace.
Puis, en 2020, j’ai réalisé Cadrer la nature (Photo: 3-6 ci-dessus). Le Centre d’exposition de l’Université de Montréal m’a invité à imaginer une exposition en ligne avec des œuvres de leur collection, ils souhaitaient aussi que je travaille avec des artistes en art actuel et que l’on réalise les projets à l’extérieur. J’ai choisi quatre artistes : Janick Burn, Hannah Claus, Ariane Plante et Ingrid Tremblay a qui j’ai demandé de réaliser une œuvre sur le Mont-Royal (montagne en plein cœur de Montréal).
Je les ai jumelées chacune à l’œuvre d’une femme artiste méconnue de l’histoire de l’art québécois qui fait partie de la collection du Centre en leur demandant de s’en inspirer. Tout au long de leur processus de création, j’étais en dialogue avec elles, je leur ai partagé des lectures et j’ai écrit les textes en même temps qu’elles créaient leurs œuvres et à partir de nos discussions.
Ce fut une réelle expérience de cocréation. Malgré les contraintes imposées (celles du Centre en raison de la pandémie, et mon approche qui était directive), les artistes ont réellement apprécié leur expérience.
Nous avons créé un espace commun d’échanges où tout se construisait en même temps et se fut très organique et fluide comme expérience. Mes textes révèlent le processus de création et témoignent du travail en train de se faire. Ils sont un peu comme un fil de pensées, une réflexion en cours.
J’ai aussi intégré des citations de différents auteurs qui m’ont inspiré et avec qui je crée une sorte de dialogue. C’est ce genre d’espace d’échange dont je parle : entre moi, les artistes, les auteurs, les thèmes et les oeuvres. Je souhaite que les projets soient réellement collectifs.
Et puis, en ce moment – et pour conclure le cycle – c’est l’espace habité qui m’intéresse et j’aimerais explorer comment il dépasse notre demeure pour s’étendre à la ville, mais également comment ce que l’on porte en nous participe à sa construction.
En résidence à Viafarini, je fais des lectures sur la notion de chez soi, sur l’attention et sur la façon dont on représente les espaces. J’ai aussi envie de réfléchir à comment l’espace est façonné par nos perceptions et par notre expérience de celui-ci. Un espace habité devient un lieu, un espace pratiqué peut devenir significatif et un espace simplement parcouru peut demeurer un espace de passage. Je souhaite réfléchir à nos relations avec les espaces qui nous entourent et aux influences mutuelles.”
(Il suit)