Nel lavoro di Rebecca Agnes lo spazio come luogo pubblico, animato, un luogo di relazioni, sociali, interpersonali, ha un ruolo fondamentale, come mostrano le sue opere e le dichiarazioni che ha condiviso durante l’intervista. In questa seconda parte, quindi, riprendiamo il discorso interrotto nell’articolo precedente, ancora richiamando l’attenzione su questi aspetto:
R: “Sempre in rapporto allo spazio ti racconto di un altro lavoro, Table of Contents. Si tratta di una serie di tavoli di varie dimensioni. A Milano, in occasione di BienNolo 2021, é stata esposta la versione grande di Table of Contents #0, concepita in modo da accogliere tre o quattro persone.
Sulla sua superficie sono disegnati i “contenuti”, ovvero una specie di excursus storico dell’architettura utopica, dall’idea rinascimentale della città ideale fino ad arrivare al modernismo, passando per pensatori come Fourier. Sul tavolo il grafico sintetizza i diversi approcci architettonici con parole chiave, brevissime frasi, nomi degli architetti/e e pensatori/trici legati a queste teorie.
L’idea di base è che tre o quattro persone si siedano attorno a questo elemento e dialoghino a partire da quello che vedono scritto sul piano d’appoggio. Sono invitate a discutere di pianificazione urbana e utopia. In una situazione di vita normale il tavolo sarebbe stato disponibile per l ´utilizzo per chiunque passasse. Durante la pandemia, invece, i tavoli sono stati organizzati a invito, per motivi di sicurezza.
Alla fine della conversazione, ho chiesto alle persone intervenute di lasciare un loro contributo di pensiero sulla superficie del tavolo. Singolarmente, o in gruppi di tre o quattro, a seconda di come si era sviluppata la conversazione in sé – lasciavano una traccia con un pennarellino, ovvero una frase o alcune parole chiave.
Questi interventi si stratificavano ed entravano a far parte della discussione negli incontri successivi.
Il tavolo è un dispositivo, funziona nel momento in cui lo usi, non è pensato per essere guardato da altri, non si assiste alla conversazione che resta privata fra le persone sedute attorno ad esso.
Quest’opera è tale se viene utilizzata, se non lo è, resta solo un tavolo. Le persone invitate hanno parlato di spazio pubblico, di pianificazioni, di che cosa sia l’utopia, di che cosa possa essere necessario nelle città. I partecipanti che hanno utilizzato questo lavoro sono stati eterogenei: artistə, architettə, attivistə, o semplicemente amici/amiche a cui piace discutere, alcuni si conoscevano fra loro, altri no.
Per quanto riguarda il tavolo piccolo, in versione portatile, è stato realizzato per essere smontato e riposto in un trolley, così da poterlo trasportare anche in aereo, in quanto era destinato a una mostra ad Atene. Pensato per essere fruito dai partecipanti seduti per terra, non prevede la possibilità di disegnarci sopra, come sono invece stati previsti nel lavoro successivo, di maggiori dimensioni.”
Con queste considerazioni e descrizioni di Table of Contents, Rebecca ritiene di avere definito in modo esemplificativo il suo lavoro, in relazione allo spazio e passo così a chiederle di spiegarmi che cosa le suggerisce il concetto di
“Trama” o di “Intreccio”.
R: “Molti dei miei lavori sono piccole storie, hanno un legame con l’idea di storia e del raccontare. La letteratura ha un ruolo importante in molti dei miei lavori meno partecipativi. La trama implica una narrazione e chi narra una storia nel momento in cui la narra la ricrea ogni volta, ne dà una propria versione. Questa assenza di oggettività è un aspetto ricorrente nelle mie opere. Non c’è una realtà oggettiva, ma una narrazione dove bisogna essere molto cauti, perché nel momento in cui si racconta qualcosa la si riplasma.
In un altro lavoro del 2018, un ricamo, ho raffigurato la mappa del mondo, su cui ho collocato i nomi di scrittori e scrittrici da me preferiti di (sci)-fiction, in corrispondenza del luogo di nascita. In questo modo ho visualizzato la mia idea di letteratura. Così, emerge per esempio che la maggioranza di scrittori/trici sono europee o nordamericane.
I nomi degli scrittori erano ricamati con un carattere più sottile, mentre quelli delle scrittrici erano in grassetto in modo da rendere subito il contrasto, la disparità nella mia scelta di lettura, dove le scrittrici sono in numero inferiore rispetto ai colleghi uomini.
Dopo aver collocato i nomi nei luoghi di nascita, ho trascritto sulla cartina in corrispondenza dell’oceano Atlantico i titoli in lingua originale dei loro romanzi. Questo lavoro si chiama “TUTTI I LIBRI CHE NON CONOSCO ” ed evidenzia quanto il mio punto di vista sia limitato, radicato in certe realtà, quanto sia fondamentale chiedersi dove ci si trovi a livello geografico e per chi si stia parlando.”
Chiedo a Rebecca quale riflessioni desideri condividere con noi a proposito del concetto di “Personaggi”, in relazione all’interesse per la narrazione alla quale accennava poco più sopra.
R: “Il personaggio è chi narra. I personaggi sono tutte le persone che riesco a coinvolgere nei miei lavori. Quando realizzo un lavoro partecipativo dove chiedo di eseguire un disegno per me, metto insieme tutti i segni dellə partecipanti. I veri personaggi sono quindi le persone coinvolte nel progetto, infatti, redigo sempre un elenco con i loro nomi. Attraverso il ricamo, mi “riapproprio” dei segni tracciati che formano una storia.”
Emerge con tutta evidenza il ruolo attivo dei partecipanti, del pubblico nella produzione di Rebecca che., a questo proposito ci spiega:
R: “Il pubblico è fondamentale in tutti questi lavori che hanno a che fare con la partecipazione. Quando realizzi lavori partecipativi hai bisogno di un pubblico, di relazionarti con esso, di discutere. In alcuni lavori, come in QUANDO I DINOSAURI NON AVEVANO LE PIUME – i dinosauri sono disegnati da altre persone e io li ho ricamati su tessuto bianco, con filo nero.
In genere eseguo ricami in cui chiedo prima di fare un disegno su un tema determinato. In un altro lavoro che ho iniziato più recentemente, durante il primo lockdown, ho chiesto a tutte le persone che conosco di mandarmi un disegno di un virus che ho poi ricamato su una camicia da notte. Nel primo momento di chiusura io ero a Berlino, in procinto di trasferirmi in Italia, ma con mia mogliə siamo rimaste bloccate in Germania, finché non hanno riaperto i confini.
È stato un momento molto scioccante, per entrambe. Per la prima volta abbiamo avuto l’esperienza di non poter superare le frontiere, nonostante avessimo un passaporto. Una cosa che per un occidentale succede molto raramente. Finché non hanno riaperto i confini, la mia cittadinanza italiana non era sufficiente per poter giustificare il mio rientro. Occorreva poter dimostrare di avere esigenze di salute, o questioni di vita o di morte.
In un secondo momento, quando si poteva dimostrare di avere la residenza o un domicilio ufficiale italiano si poteva rientrare, ma mia mogliə è tedescə, quindi avrebbero potuto bloccarlə alla frontiera. Ho verificato quanto possa essere terrificante vivere senza potersi spostare.
In questa situazione difficile, quindi, mentre ero bloccata a Berlino ho iniziato a fare lavori con tutti i materiali che avevo a disposizione in casa. Possedevo tanti fili da ricamo colorati delle mie nonne, perché ricamavano, ma non li avevo ancora usati perché di solito preferisco il nero. Disponevo di tovaglie regalatemi da mia mamma e perfettamente intonse, e, ancora, le camicie da notte della mia bisnonna, mai indossate.
Quindi disponevo di materiali di qualità, ottimi cotoni e ho iniziato una serie di lavori da remoto ma partecipativi dal titolo L’umanità è scomparsa. Il quarto in ordine di tempo è stato dedicato ai virus ricamati sulla camicia da notte. L’idea era che il virus te lo porti addosso. Per l’occasione ho chiesto alle persone di mandarmi un disegno di una versione personale di virus, ma con un vincolo di colore.
A mano a mano, infatti, che procedevo nei lavori avevo esaurito i fili e quindi, arrivato alla quarta opera, dovevo imporre limitazioni nella scelta cromatica allə partecipanti: le persone potevano mandarmi virus che fossero solo verdi, rossi, viola e rosa.
Rientrata in Italia, ho fatto la prima residenza qui all’Archivio di VIAFARINI nel settembre del 2020 e a quella data mi erano rimasti ancora una camicia da notte e un po’ di filo da ricamo. A quel punto ho chiesto alle persone che venivano alla Fabbrica del Vapore di disegnarmi altri virus, con i colori rimasti, a quel punto solo i rosa e i viola.
Il primo lavoro di L’umanità è scomparsa era una specie di arcobaleno con scritte serie e ironiche, per esempio “il 99% delle specie esistite sulla Terra sono ora estinte / quanta libertà sono dispost* a cedere per la mia salute? / la raccolta differenziata da sola non ci salverà ” Gli altri due lavori erano realizzati con le tovaglie. Una l’ho fatta insieme a mia mogliə, con cui ovviamente nel corso del lockdown condividevamo i pasti. Su questa tovaglia avevamo disegnato gli animali che abbiamo visto online, felici perché l’uomo non era più presente a disturbarli. Caprette, piuttosto che cinghiali, tartarughe.
Questo lavoro funzionava ancora meglio perché mia mogliə è rigorosamente vegana, io un po’ più morbida. Per la seconda tovaglia, più grande, ho chiesto alla mia famiglia – in quel momento era divisa fra Berlino, Roma, Pavia e Brighton – di mandarmi foto degli animali che trasmettono vari tipi di virus. Scelto l’animale e inviatomelo, io lo ricamavo sulla tovaglia.
Anche questo diventava idealmente un pranzo di famiglia, come in realtà non abbiamo mai fatto e probabilmente non si realizzerà mai, perché siamo tutti un po’ sparsi. È difficile trovarsi tutti insieme nello stesso momento.”
Questi esempi servono per ribadire che per Rebecca il pubblico diventa parte del processo creativo.
È un pubblico che non diventa attore ma costruttore-autore
R: “sì specialmente nei workshop costruiti attorno alla città.
S tu non chiedi solo al pubblico di guardare, ma di fare.
R: “In alcuni il pubblico prende parte, in altri casi, come in quello del tavolo è il pubblico stesso che fa il lavoro. Ed è una conversazione alla quale nessuno assiste e nessuno ascolta tranne i partecipanti.”
S: C’è modo di registrarle?
R “No, è una scelta”
S certo.
R:”Specialmente nel tavolo, l’idea è di lasciare una traccia. Un po’ come avverrà nel progetto partecipato “Il giardino d’inverno” concepito insieme a Vera Pravda. Si tratta di una serie di incontri che trattano di ecologia in senso ampio, che si concretizzeranno in un manuale digitale scaricabile. In questo caso abbiamo deciso di non registrare gli interventi dei relatori/relatrici, perché l’idea è che restino in forma privata. È una scelta in controtendenza rispetto alla pulsione di dover registrare tutto, documentare, fermare/catturare. Gli incontri sono chiusi al pubblico, ma con la prospettiva, in un secondo momento, di essere presentati in una forma più complessa e meditata attraverso il futuro manuale.”
Per concludere, chiedo a Rebecca quali siano i punti di riferimento per il suo lavoro, gli autori che hanno provocato un cambiamento, un punto di svolta, sul piano intellettuale.
R: “In questo momento sono rientrata molto nel pensiero di Donna Haraway, già illuminante all’epoca del Manifesto Cyborg. Sto leggendo Giulia Federici. Poi Judith Butler, Simon de Beauvoir, Sartre, Foucault, Pier Paolo Pasolini. Scrittori/scrittrici come Italo Calvino, Borges, Margaret Atwood, Octavia Butler. Artisti/e Alighiero Boetti è sempre stato uno dei miei primi amori, Louise Bourgeois, Cindy Sherman, Matthew Barney, Andreas Zittel, Marx Ernst, Claude Cahun, Surrealisti, Dada. La musica anche è importante, come i Cure, Siouxie, Orbital, Joy Division, Diamanda Galas, l’opera, in particolare Puccini e Rossini.”