Drammaturgie degli spazi. Janet Cardiff & George Bures Miller – I

La scrittura di storie nello e per lo spazio naturale e urbano costituisce uno degli aspetti più significativi del lavoro di Janet Cardiff (1957) e George Bures Miller (1960), artisti canadesi residenti nella British Columbia, il cui sodalizio data ufficialmente 1995, con l’installazione The Dark pool e conquista risonanza internazionale proprio in quel periodo.

Il loro lavoro, composto in particolare da audio e video walk, nonché da installazioni acustiche, propone esperienze imperniate sull’ascolto, sulla percezione dei suoni nello spazio, sulle relazioni spaziali fra corpo e suoni, contenenti elementi di fiction e di teatralità consapevole, da parte dell’artista che seleziona e propone situazioni, dove il suono ha una parte fondamentale.

Janet Cardiff & George Bures Miller: The dark pool. Installazione multimediale. 1995
Janet Cardiff & George Bures Miller: The dark pool. Installazione multimediale. 1995

SPAZIO e SUONO

Infatti, sebbene il Canada rurale, soprattutto inteso come paesaggi di colline e foreste siano i luogni di elezioni di J. Cardiff, non è tanto lo spazio il protagonista, ma il suono che lo abita, o piuttosto “l’aspetto fisico del suono” sul corpo, assai più della qualità narrativa del lavoro, come dichiara Cardiff in più di un’intervista (per esempio su una apparsa su bordercrossingmag). Un suono che nelle intenzioni, acquista un aspetto materico e scultureo.

J. Cardiff, nel corso di una conferenza ad Harvard, spiega di aver abbandonato la sua area di ricerca iniziale, i processi di stampa, quando scopre che il suono è il mezzo di comunicazione più adatto alle proprie esigenze. Si applica allora, contemporaneamente, ad installazioni e a camminate (audio walk e video walk) interessata al modo con cui l’ascoltatore, o l’osservatore aggiungono frammenti delle proprie memorie, della propria esperienza al contesto spaziale presentato loro.

Il primo lavoro di Cardiff basato su registrazioni audio, The Whispering Room (1991), ha qualità decisamente teatrali, fin dalla scelta di una stanza scarsamente illuminata (che evoca  concettualmente la gabbia scenica nera), nel quale sono disposti 16 piccoli altoparlanti rotondi, montati su piedistalli, deputati a riprodurre voci di vari personaggi.

I visitatori sono immersi in una dimensione onirica. Oltrepassata la soglia, si trovano nell’oscurità e ascoltano frammenti di un racconto che, per essere compreso, richiede di percorrere lo spazio, esplorare diverse posizioni. Ciascun altoparlante diffonde il suono di una voce femminile, a volte in dialogo con un’altra.

La voce descrive eventi, o azioni da punti di vista diversi (esperienziali, frutto di osservazioni, riguardanti il presente, il passato o il futuro). Inoltre, i movimenti dei visitatori nella stanza attivano un proiettore che per trenta secondi mostra l’immagine al rallentatore di una donna che balla il tip-tap in una foresta.

Janet Cardiff. Whispering room, 1991. Installazione acustica
Janet Cardiff. Whispering room, 1991. Installazione acustica

I lavori successivi (le walk e le installazioni) sono collocati soprattutto in esterni, o in luoghi dove si sovrappongono più livelli di ascolto, in rapporto allo spazio. Non a caso, Cardiff, durante la citata conferenza ad Harvard, adotta una definizione illuminante per riferirsi al suo operato: “narrativa cubista”.

Ovvero, evoca una scomposizione prospettica delle percezioni visive e uditive, applicate – anziché alla dimensione bidimensionale di un quadro, o alla tridimensionalità di una scultura,  immobili da contemplare – a esperienze da vivere, nelle quali il partecipante è coinvolto in prima persona.

La ricerca  di Janet Cardiff è dichiaratamente rivolta a coinvolgere il pubblico in modo emozionale e fisico. Non a caso, l’artista si sente vicina ai lavori realizzati negli anni Settanta dai colleghi che hanno prestato particolare attenzione alle reazioni del pubblico, al coinvolgimento dell’audience, come dichiara nel corso di un’intervista realizzata da Anthony Easton, per Jaket Magazine (2006).

In questa occasione, l’autrice cita Linda Montano, per i suoi tentativi di investigare la dimensione intima e nuovi format; la voce di Vito Acconci e la capacità di Marina Abramovitch di mettere a disagio il pubblico e al contempo di renderlo consapevole del proprio corpo.

Impegnata in lavori legati alla dimensione teatrale e letteraria, più che a quella tradizionale dell’arte visiva, Cardiff è scarsamente interessata alle ripartizioni fra le arti. Si definisce “an hybrid artist” durante l’intervista di Jacket Magazine e dichiara che le divisioni non hanno alcun senso dal suo punto di vista (“Divisions don’t make sense with me”). Ritiene, invece, preferibile distinguere fra arte interessata a coinvolgere, a trasportare l’audience da quella che non lo è, ovvero dall’arte esclusivamente visiva, o che ha esclusivamente implicazioni concettuali.

Janet Cardiff. Whispering room, 1991. Installazione acustica

Negli spazi scelti, nei luoghi deputati ad accogliere il percorso acustico e visivo delle opere di Cardiff e di quelle firmate con Bures Miller, il pubblico è immerso e circondato da suoni e immagini, selezionati dall’artista, in funzione del messaggio da comunicare, della storia da raccontare. Nella prima passeggiata acustica (Forest 1991), Janet Cardiff utilizza un nastro a quattro tracce rimixabili, fornisce cuffie e un Discman agli amici, scelti come “cavie” per questo esperimento, insieme a dati sui percorsi da compiere sul territorio.

L’autrice fornisce, infatti, indicazioni al fruitore della passeggiata, inserisce svariate tipologie di personaggi dei quali segnala le loro presenze fittizie attraverso i suoni. In questo caso, come nel corso delle altre successive walk (acustiche) si intrecciano almeno tre situazioni: quella dello spazio contraddistinto dai suoni (reali e fittizi) catturati nel momento della registrazione, quella dell’ascolto proposto al partecipante e, infine, quella derivata dalla commistione delle prime due che rende l’esperienza sempre diversa per ciascun ascoltatore.

Si crea quindi uno sfasamento fra i piani temporali dell’esperienza, visiva e uditiva. La possibilità di ascoltare i suoni di un luogo, nell’hic et nunc, sovrapposti a quelli esperiti in precedenza, registrati, scelti e ricreati dall’artista in quello stesso luogo, nel porre l’accento sulla sovrapposizione di livelli diversi di esperienza, provoca nell’ascoltatore quelli che si potrebbero definire “shock percettivi”, o quanto meno sorprese.

Situazioni destabilizzanti d’ascolto, di non allineamento spazio-temporale,  nuove prospettive di percezione, nella tridimensionalità dello spazio reale, grazie alla “con-fusione” dei diversi piani e momenti di ascolto/registrazione. Ovvero, si ottiene quella forma di “narrativa cubista” sopracitata.

Il termine “narrativa” indica come Janet Cardiff espliciti un’attenzione per la costruzione di storie da raccontare ai partecipanti che esperiscono situazioni diverse, posto che i suoni presenti nel luogo sono differenti nel tempo e così pure la reazione sul piano percettivo (ed emotivo) in ciascuno.

Janet Cardiff. Forty part of a Motet- Installazione acustica
Janet Cardiff. Janet Cardiff. Forty part of a Motet- Installazione acustica

La componente fittizia applicata allo spazio reale, inoltre, crea un forte senso di destabilizzazione, di disturbo, o inquietudine, a seconda dei casi; spinge e sollecita l’immaginazione del pubblico ad attivarsi. Costruisce le condizioni per quella che Cardiff definisce una “colonna sonora per un ambiente fisico”.

Nell’intervista apparsa sulla rivista bordercrossingmag spiega che le audio walk accentuano le percezioni visive e il grado stesso di realtà durante la fruizione. Si tratta di un effetto riscontrabile quando si cammina per strada mentre si ascolta musica in cuffia.

La realtà si “colora” con una certa sonorità ed evocazione, emotiva, il mondo reale si trasforma in un film con una colonna sonora. Questa situazione si ottiene anche durante le audio-walk, durante le quali gli ascoltatori acuiscono le loro percezioni, sono stimolati a vedere meglio ciò che li circonda, grazie ai suoni che ascoltano in cuffia.

La costruzione di questa particolare specie di “colonna sonora” è un fattore indispensabile per destabilizzare l’orizzonte d’attesa dell’ascoltatore nel confronto con la realtà. Non si tratta di evadere dalla realtà, in un mondo onirico fine a se stesso, né di una dimensione ludica. Al contrario. Questo “spostamento”, o slittamento sul piano percettivo, è funzionale ad ottenere ciò che Cardiff chiama “the aha experience!“.

Ovvero la sensazione che si avverte quando si coglie qualcosa che non si riesce a spiegare esattamente: per esempio, rispetto al modo di reagire, di comprendere le nostre percezioni e la realtà. L'”aha experience” è uno strumento per sollecitare il pubblico a farsi domande di ordine filosofico, percettivo, esistenziale.

Le percezioni ottenute sul pubblico nelle video-walk i processi percettivi sono stimolati in modo differente. George Bures Miller spiega  che queste ultime hanno una qualità “ipnotica” del tutto estranea alle passeggiate acustiche. Le persone non si accorgono di ascoltare suoni registrati, per loro diventano automaticamente reali. Al contrario di ciò che avviene in una audio-walk dove il passaggio reale di un’auto segnala immediatamente all’ascoltatore una “discrepanza” fra ciò che ascolta in cuffia e ciò che avviene nel realtà.

Non solo. Durante la visione, per gli osservatori-ascoltatori concentrati sullo schermo, ciò che appare su di esso diventa “reale”, mentre il mondo vero davanti ai loro occhi passa in secondo piano. L’attenzione per il coinvolgimento, l’impatto e gli effetti degli sfasamenti ottenuti intrecciando i diversi momenti di ascolto e di visione (nel caso delle video walk) si presenta quindi come una delle caratteristiche primarie del lavoro di Janet Cardiff e di George Bures Miller.

Un altro aspetto importante del lavoro sullo spazio e sul suono in questi due artisti è l’attenzione per la texture del luogo (un vicolo, uno spazio vasto, uno piccolo), grazie alla quale si possono  prelevare suoni da spazi diversi e mettersli insieme, per crearne di nuovi, contraddistinti da un’essenza filosofica.

La questione del non allineamento spazio-temporale, sottolineato dall’uso del suono registrato e da quello dell’hic et nunc, apre a speculazioni filosofiche. Janet Cardiff considera la voce registata in quanto “rimossa”, con un senso che risiede nel passato, nel tempo, qualità di cui non dispone la voce reale e pertanto con il suo lavoro pensa di avvicinarsi all’audience proprio attraverso questa rimozione…

(prosegue)…

Cardiff-Bures Miller. The dark pool. 1995
Cardiff-Bures Miller. The dark pool. 1995

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