Uno de los primeros argumentos y críticas que debe tener el arte es hablar de su propio contexto, y esto se reduce en un análisis y crítica del lenguaje. La oposición y subversión del lenguaje por el propio lenguaje, el poder elaborar un pensamiento con un lenguaje nuevo, contemporáneo, es algo que valoro sobremanera, y pienso que ahí radica un acto de subversión de la realidad muy importante.
Por ello mi inquietud por las variaciones y búsquedas formales, la inquietud por no construir una obra normada. La normalización del lenguaje es uno de los grandes enemigos del arte porque lo convierte en un simple producto de mercado.
Ese es uno de los grandes temores que rodea a las artes visuales. Producimos obras que también son objetos de consumo. Temo pasar por un artista que simplemente crea imágenes, como alguien superficial que trabaja con la arquitectura idílica de la ruina urbana; pero también me aterra convertirme en un activista político simplón.
Además me atemoriza y siempre trato de escapar de la amenaza de que mi obra se convierta en un comodín económico que se pueda diluir en su propio estatus de mercancía. Creo que estos recelos ya implican una crítica a cómo el arte es absorbido por el capital y a cómo se consumen hoy día el pensamiento y el arte: como simples mercancías con valor de cambio.
Analisi e critica del linguaggio, rifiuto della normalizzazione del linguaggio artistico in quanto converte l’arte in un prodotto di consumo, ammomimento contro la mercificazione dell’arte sono punti fondamentali nel pensiero di Garaicoa, capisaldi che spiegano la qualità delle sue opere e la sua capacità di rinnovarsi, di destabilizzare l’orizzonte d’attesa in tutto il corso della sua produzione (almeno fino a questo momento e sono già passati quasi trent’anni).
Dopo aver analizzato in modo panoramico il rapporto con la città e con l’architettura da parte dell’artista, riserviamo questa terza parte delle riflessioni al rapporto con il fruitore.
A proposito del proprio contesto di formazione e delle caratteristiche dell’ambiente in cui ha iniziato a lavorare agli inizi degli anni Novanta del XX secolo, Carlos Garaicoa cita un approccio relazionale riscontrabile nell’arte cubana di quel periodo, teorizzata qualche anno più tardi da Nicolas Bourriaud (Esthétique relationelle 1998).
Approfondire questo aspetto dell’opera di Garaicoa aiuta a comprendere il suo approccio nei confronti del pubblico e al contempo dei personaggi stessi anche nella prospettiva della drammaturgia degli spazi, della rappresentazione e della teatralità “eccentriche” rispetto alle modalità produttive e alle catalogazioni convenzionali. In alcuni casi, infatti, i visitatori si trasformano in “personaggi”.
Ciò avviene per esempio in
Sloppy Joe’s Bar Dream
installazione creata nel 1995 e riproposta in molti altri luoghi, fra i quali la mostra “The Ruins, the Utopia” al Bronx Museum of the Arts di New York nel 2001.
Al centro dell’attenzione è il bar iconico dell’Havana fra gli anni Trenta e Cinquanta, frequentato da Hemingway e dalle stelle del cinema. Il suo interno in rovina, distrutto è stato ricostruito da Garaicoa che ha ricomposto il bancone formato da piastrelle dipinte, ha posto sulle pareti una serie di fotografie di celebrità che frequentavano il locale e del suo gestore in quegli anni d’oro, ha recuperato un juke-box con vinili dell’epoca.
Ha aggiunto bottiglie e preparati che il pubblico potesse bere mentre chiacchierava attorno al bancone. All’epoca in cui è stata progettata l’installazione, a metà degli anni Novanta, si poteva anche fumare “dentro l’opera” che in tal modo veniva “vissuta”, abitata dai visitatori. Lo spazio del museo diventa nelle intenzioni dell’autore anche uno spazio di relax.
In questo caso, Garaicoa dichiara di essere interessato ad osservare come il documento di una certa situazione, di una società si relazioni con un oggetto creato dall’artista stesso, per esempio, attraverso i disegni, o le ceramiche.
In tal modo egli ritiene di creare uno spazio politico nuovo attraverso una nuova interazione, con il luogo, considerato quale “individuo” immerso nella trama della città. L’idea è “far rivivere” uno specifico luogo e il suo contesto, creare una discussione dove emerga la storia specifica del luogo.
Dal nostro punto di vista, in questo caso, il luogo diventa un personaggio che coinvolge il pubblico. Al contempo, implica la partecipazione diretta dei visitatori che si trasformano a loro volta, appunto, in personaggi dentro la storia, dentro l’installazione stessa, nel momento in cui sono invitati esplicitamente a comportarsi da avventori.
Al contempo questi ultimi restano consapevoli di essere “altro” rispetto a quella situazione, osservatori di un progetto, ospiti temporanei di un luogo e di un’esperienza che non ci sono più nella realtà, vivibili solo nella dimensione “fittizia” della ricostruzione “in vitro”, affidata all’installazione.
Si crea così un doppio piano temporale e una doppia funzione attribuita al pubblico. I visitatori oltre ad essere “se stessi”, si trasformano in “attori” impegnati a rivitalizzare un luogo scomparso, partecipano alla creazione di una “scena”.
Per quanto riguarda l’uso dello spazio, il pubblico è messo nelle condizioni di abitare un luogo deputato per l’osservazione, la formazione, l’educazione, l’esperienza estetica, (il museo o lo spazio espositivo), come se fosse, invece, un luogo di svago, di relax, di socializzazione, di ricreazione qual è appunto un bar.
Questa doppia associazione fra aulica austerità di uno spazio deputato alla fruizione “alta” dell’arte, alla concentrazione e atmosfera rilassata è riproposta anche in un’altra opera di Garaicoa, presentata alla Biennale di Shanghai nel 2008, incentrata su un archivio.
In questo caso si tratta di una installazione costituita da fogli ospitanti immagini ritagliate, impaginati con la sembianza dei quotidiani e diposti come in una sala di lettura di un caffé francese – consultabili per aree tematiche – ma dai quali è stato volutamente omesso il testo scritto.
Il lavoro legato alla tematica dell’archivio fa esplicito riferimento al concetto di censura (in evidente senso polemico rispetto al contesto cinese in cui è collocata la mostra). Al contempo, stimola a percepire e utilizzare lo spazio espositivo anche come luogo di “relax”.
I visitatori, mentre consultano i diversi “giornali” hanno a disposizione di una macchina per preparare tè o caffé, dalla quale possono procurarsi bevande e trascorrere il momento dedicato alla visione, il più possibile a proprio agio.
La sollecitazione di mettersi a proprio agio riservata al pubblico ha un risvolto molto importante a livello implicito: comunica una “familiarità”, una cordialità rispetto alla fruizione del prodotto artistico che in tal modo è spostato dal piedistallo, dalla posizione reverenziale e quasi timorosa al quale è sovente condannato il visitatore al cospetto dell’ “opera d’arte”.
Rapporto sbilanciato, fra creatore e fruitore, accentuato, peggiorato durante il Romanticismo e coltivato in modi diversificati ancora nel Novecento. La distanza irraggiungibile fra chi ha la capacità di creare e chi ne è privo, la creazione di un’aura mistica attorno al prodotto estetico e alla figura di chi elabora quel prodotto svaniscono, invece, se il visitatore è messo a suo agio, invitato a entrare nell’opera, a “usarla”, anziché limitarsi a una contemplazione timorosa e reverenziale.
Si tratta di un approccio completamente diverso, strettamente legato alla funzione sociale delle arti (da quelle visive al teatro, alla letteratura, alla musica), senza dimenticare/trascurare mai la qualità estetica dei singoli lavori. Le opere di Garaicoa sono bellissime sul piano formale, perfette nei loro rapporti, costituiscono una grande lezione di stile, equilibrio.
Sonoancora più coinvolgenti per il visitatore, soprattutto sul piano fisico, due installazioni permanenti di grandi dimensioni, pensate dall’autore per due esterni. Le interazioni con il pubblico, la “collaborazione” del visitatore sono ancora di forte apparenza ludica ma in contrasto terribile con le questioni di forte criticità, o disagio sul quale si incentrano questi due lavori.
I don’t want to see my neighbors anymore (Yo no quiero ver mas a mis vecinos) e Wake-up CITY Sleep
è un’installazione permanente, realizzata per il Castello di Ama, a Gaiole in Chianti, realizzata nel 2006. Garaicoa crea uno spazio ludico a partire da una situazione drammatica, come i muri di divisione/contenzione/sbarramento per carcerati, o immigrati, dove è prevista una “necessaria” interazione con i visitatori.
Nel giardino e lungo il perimetro esterno sono collocati nove muri di contenzione “famosi”, collocati in diverse parti del mondo, da usare come aree gioco, da scavalcare, camminarci sopra. Fra gli altri si riconoscono il muro di Berlino (con la riproduzione dei graffiti dell’epoca), quello di Tijuana fra Messico e USA, di Ceuta e Melilla, o quello che divide le due coree.
Questi muri simbolici, messi con l’idea di separare popoli, nazioni a differenza di quelli reali, sono facilmente “annullati”. Grazie alla riduzione delle dimensioni possono essere usati in modo ludico, scavalcati, saltati, attarversati da persone di età diverse. Inoltre convivono con un paesaggio noto per l’alto, “leggendario” valore estetico, le colline toscane, caratterizzate da vigneti e uliveti, con un forte contrasto di situazione. Una contrapposizione che accresce il disagio nel pensare a queste separazioni forzate.
Anche in questo caso, l’artista lavora sui rapporti di scala, come nelle opere incentrate sull’architettura e sui forti contrasti sul piano delle funzioni. Il muro di contenzione si trasforma in attrezzo/percorso giocoso, ovvero è privato, negato del suo ruolo minaccioso, opprimente e si trasforma in area innocua, persino di divertimento. Uno sberleffo al potere, alle imposizioni, alle censure, senza negare la pericolosità delle situazioni originarie.
“M’interessa che l’immagine bucolica che abbiamo del paesaggio Toscano contenga queste violente frontiere geografiche e politiche” dichiara in una frase utilizzata per presentare il suo lavoro nella collezione del castello.
Wake-up CITY Sleep
è un altro esempio di lavoro pubblico realizzato da Garaicoa nel 2014 a Ichihara, una città di circa duecento mila abitanti della prefettura di Chiba, sulla costa orientale del golfo di Tokyo. La partecipazione fisica e attiva dei fruitori è decisamente evidente in quanto l’opera è a tutti gli effetti un parco giochi per bambini, all’esterno di una scuolsa pubblica. I visitatori appartengono a una particolarissima dimensione: sono utenti di un servizio offerto dalla municipalità.
Ancora una volta è molto interessante riflettere sulla scelta, sulle funzioni, sul ruolo di volta in volta attivato nel pubblico, nel fruitore delle opere di Garaicoa. In un esempio come questo non c’è nemmeno la consapevolezza da parte dei bambini-utenti di che cosa significhi arrampicarsi, sospendersi, appendersi, scivolare direttamente dentro un’opera d’arte.
Fruitori inconsapevoli, a causa dell’età, ovvero fruitori “innocenti” di grado zero, ai quali viene offerto un momento ludico, inserito in un contesto urbano degradato dall’inquinamento e dalla violenza, a causa delle scelte politiche ed economiche degli adulti, delle differenze di classe, particolarmente accentuate e rigide nella società giapponese.
L’installazione permanente si trova in un luogo circondato dalle raffinerie, in una città con molte problematiche legate alla produzione industriale e alla violenza urbana.
La fruizione meramente ludica non è tuttavia la sola disponibile. Il visitatore adulto, quindi appartenente a un’ altra fascia anagrafica, guarda in modo diverso questa installazione. Le figure metalliche sui quali si arrampicano i bambini, in realtà rimandano ad aspetti inquietanti. Garaicoa costruisce e posiziona castelli da scalare colorati che hanno la forma, i profili di fabbriche, di carriponte, di altoforni, di ciminiere, realizzati in materiali diversi (metallo, legno, plastica molto colorati).
Il visitatore adulto è quindi “costretto” a prendere coscienza della pesante eredità lasciata a questi bambini che si arrampicano sui profili e sulle strutture che evocano gli edifici industriali, al contempo messi nelle condizioni di farsi beffe di quella stessa realtà, fatta di suoli e aria avvelenati, di edifici enormi e paurosi per il loro alto potere inquinante.
Si tratta quindi di un’area riservata ai giochi che mantiene una forte ombra di inquietudine e di criticità. Uno svago “disturbato”, contaminato, dal riferimento alla presenza invadente dei complessi industriali e al contempo un invito al gioco in un’area contraddistinta da problematiche di aggressività.
La stratificazione e la complessità del rapporto fra pubblico e opera è messa in rilievo in
Partitura
presentato per la prima volta a Bilbao. Si tratta di un lavoro interattivo, la cui teatralità è più che evidente, posto che i personaggi al centro dell’attenzione sono i musicisti di strada, filmati durante le loro esibizioni, fino a realizzare un contributo partecipativo.
E’ tuttavia significativo che la parola “teatro” sia costantemente esclusa sia dagli articoli e dai saggi dei curatori che si sono occupati di questa installazione, sia da parte dell’autore stesso. Il termine evoca un qualcosa di “tradizionale”, commerciale o banale inconcebile da associare alla ricerca artistica?
L’esclusione è dovuta a una idiosincrasia verso il palcoscenico, la recitazione, o forme consapevoli di rappresentazione? O è ascrivibile semplicemente a un disinteresse verso il teatro in generale, a una non abitudine alla frequentazione delle sale teatrali? In questa scelta potrebbe annidarsi l’antico pregiudizio verso il teatro in chi si occupa di arti visive?
L’autore raduna le esibizioni di quaranta artisti (portati a settanta in presentazioni successive), impegnati in generi molto diversi di musica (suonatori di tamburo, cantanti lirici, suonatori di fisarmonica, cantanti pop, etc), incontrati in svariati contesti urbani di Madrid e della capitale basca, così da comporre “un linguaggio comune attraverso le città” e creare “una nuova partitura con i frammenti di città”.
La prima fase del lavoro è stata la ripresa video delle singole esibizioni degli artisti. Il visitatore osserva infatti quaranta (o settanta) leggii, su ognuno dei quali sono posti uno spartito con disegnato un sistema di notazione inventata e un tablet con il video dell’esecuzione di ciascun musicista (professionista o amateur) ascoltabile con le cuffie.
In tal modo i quaranta (o settanta) interpreti formano un’orchestra che suona separatamente. Al contempo, nella sala si ascolta una composizione del compositore Esteban Puebla che concerta le diverse performance degli artisti.
Le singole individualità confluiscono in una collettività di esecutori che tuttavia non si incontrano contemporaneamente, ma restano presenze virtuali. Infine, tre schermi propongono visivamente tre esibizioni degli artisti selezionati, così da suggerire l’immagine di un trio da camera.
Quest’opera presenta diversi piani di rappresentazione e fruizione. La dimensione dell’ascolto pubblico nello spazio pubblico di un’orchestra tipica della fruizione di un concerto convive con la parcellizzazione, la frantumazione di un ascolto isolato e solitario.
Il lavoro, infatti, pone in primo piano la problematicità della dimensione individualistica. Al contempo emerge la solitudine accentuata e “obbligata” delle persone che vivono sempre connesse, in totale simbiosi con i diversi dispositivi digitali, conseguenza del consumo acritico e consumistico della tecnologia.
L’ascolto con le cuffie attraverso il tablet è la negazione stessa del concetto di partecipazione collettiva ad un concerto di un’orchestra vera che suona in presenza. E’ la “condanna” all’auto-isolamento riscontrabile in ogni angolo di spazio pubblico, dove individui di ogni età camminano ascoltando musica di ogni tipo, scollegati e in fuga dal resto del mondo, a proprio rischio e pericolo.
Le cuffie in questo caso, permettono inoltre il contatto virtuale con il singolo artista, isolato dal tessuto compositivo, dal magma in cui è confluito durante il lavoro di concertazione attuato dal compositore Puebla e il riconoscimento dell’ambiente urbano d’appartenenza.
In tal modo si costruisce un racconto interurbano composto da voci molteplici, provenienti da luoghi lontani, radunati, accostati in un nuovo spazio di fruizione. Idealmente, infatti ci sono i visitatori della video installazione e il pubblico che ha assistito a ciascuna delle singole performance nelle città d’origine. Le persone coinvolte, i loro ruoli si moltiplicano in un gioco di specchi e in un intrico di funzioni vertiginosi.
Garaicoa è un artista che sorprende continuamente il visitatore. Le sue opere trasformano chi le osserva, sono formative, si esce diversi da un confronto con la sua produzione, contraddistinta da una spinta alla ricerca continua, dalla capacità di sapersi sempre rinnovare, mettersi in discussione, porsi domande e sollecitarne negli altri.
Crediamo che, a buon diritto, Garaicoa possa essere inserito nel novero degli intellettuali gramsciani ai quali si ispira e gli piacerebbe essere accostato.
Las artes visuales funcionan en un espacio mucho más limitado que el de la palabra, nuestras exposiciones son gestos pequeños, acotados por los muros de un museo y ciertas políticas culturales.
Estoy seguro de que aun así el arte cumple sus funciones en ese círculo estrecho donde se mueve, también articulándose desde un campo como la educación para canalizar y potenciar mucho de lo que los artistas proponemos con nuestras obras.
Pero no te niego mi admiración por la figura del intelectual gramsciano, siempre queda aspirar a ello.
Citaz. tratta da un’interivista a Carlos Garaicoa, effettuata da Suset Sanchez