Se si osserva la realtà da una prospettiva “teatrale” e drammaturgica appare pressoché naturale utilizzare generi diversi, in funzione del messaggio da comunicare, nello specifico progetto, al di là della tecnica impiegata.
In teatro si è abituati a essere “onnivori”. Chi ha o ha avuto modo di lavorare per la prosa o per la lirica, convive e si misura abitualmente con linguaggi e mezzi diversi: la musica, le immagini, il disegno architettonico, la voce, i suoni, il testo scritto, il gesto, i filmati.
Il problema del teatro tradizionalmente inteso è, semmai, quello di escludere, insospettirsi di fronte a progetti di ricerca che, pur riguardando la teatralità, escludono i luoghi fisici deputati a fare teatro, o si concentrano su elementi metaforici, o simbolici della rappresentazione, senza coinvolgere attori professionisti, o quanto meno, persone consapevoli di rivestire un ruolo.
Per evidenziare l’importanza della dimensione “sconfinante”, diamo uno sguardo alla produzione artistica contemporanea, a partire dagli anni Novanta, per osservare e analizzare alcuni lavori da una prospettiva drammaturgica e teatrale. Le caratteristiche drammaturgiche, o teatrali possono anche emergere indipentemente dalla consapevolezza dell’autore.
Nella maggior parte dei casi, tuttavia, gli artisti che manifestano spiccate attenzioni per lo spazio pubblico, la sua storia, i rapporti con gli abitanti, l’architettura, il concetto di personaggio, di narrazione, di rappresentazione, di solito, hanno precedenti legami con il teatro, la musica, o la scrittura. Basano il loro lavoro sulla versatilità, nell’adozione di tecniche diverse, di linguaggi differenti. La loro produzione è “sconfinante”.

Carlos Garaicoa (L’Havana, 1967), per esempio, in alcune occasioni, fra le quali una conferenza tenuta all’Università di Architettura di Madrid nel 2016, ricorda che nei primi anni della sua produzione artistica scriveva molto: il suo primo contatto con il modo di comunicare è partito dalla scrittura. In una seconda fase è subentrata la fotografia.
Citiamo questo artista, perché è il primo sul quale ci soffermeremo. Nelle sue opere convivono l’interesse per lo spazio pubblico, l’architettura, la dimensione urbana, l’interazione con i cittadini, la storia. Da un punto di vista tecnico la realizzazione dei suoi lavori è affidata a una complessa convivenza: plastici, fotografie, installazioni, lavori di intaglio nella carta, sculture.
Come dichiara egli stesso, nel corso di un’intervista (apparsa su DamnMagazine, il 26 marzo 2018, a cura di Sam Steverlynck), il suo lavoro “è molto narrativo ed è strettamente connesso con l’arte di raccontare storie”. Fin dalle sue prime opere è “interessato alla scrittura di fiction attorno alle rovine”, per parlare delle contraddizioni e dei conflitti del presente.
Infatti, Garaicoa sottolinea che “le rovine, pur con la loro aura di malinconia e di romanticismo, come nei quadri di Caspar David Friedrich” non sono il suo vero centro di interesse, identificato invece nel presente di Cuba. La sua attenzione, inoltre, non si focalizza su monumenti storici di grande importanza, ma su quelli “più oscuri, di origini incerte”.
Il suo obiettivo non è storicistico, intende “parlare del presente e del futuro e quindi, cerca di usare la città come un mezzo per inserire informazioni negli edifici a livello politico, esistenziale e poetico.”
Fin dai primi lavori emerge l’attenzione per la struttura della città, gli spazi in rovina, in disuso, abbandonati. Il forte interesse per lo spazio urbano, il rapporto fra architettura e città, la scrittura, le problematiche legate ai conflitti sociali, politici, al contesto storico, al percorso esistenziale, spingono Garaicoa, nel corso del tempo, a lavorare e dialogare con un gruppo formato da architetti, storici dell’arte, designer.
Secondo l’autore “l’architettura diventa uno strumento capace di costruire l’immaginario collettivo, di rivelare la storia di una città, in rapporto con la crisi politica, o economica dell’Avana”. Nelle intenzioni dell’artista l’adozione della fotografia, il ricorso a plastici e disegni tecnici rendono in modo più efficace l’oggetto dell’analisi.
Nell’ambito della sua ampia produzione focalizziamo l’attenzione su alcuni lavori che ci sembrano particolarmente interessanti dalla prospettiva della drammaturgia urbana.
Da una parte selezioniamo alcuni lavori in cui l’interazione con i cittadini ha un ruolo fondamentale; dall’altra proponiamo un gruppo di opere dove l’architettura è usata come una vera e propria forma drammaturgica, di scrittura tridimensionale, per raccontare la storia di un luogo, o è impiegata come una metafora di una situazione con un forte impatto socio-economico.
Tu numero de suerte
Garaicoa, dopo gli anni di formazione, presenta una serie di lavori incentrati sulla sua città natale, affidati alla fotografia e alla scrittura, in modo complementare. Siamo agli inizi degli anni Novanta, dopo la caduta del Muro di Berlino, avvenimento che ha avuto immediate e forti ripercussioni economiche a Cuba, legate alla diminuzione di sostegni provenienti dall’ex Unione Sovietica che non compensano più i danni dell’embargo contro l’isola imposto dagli USA.
Percepita come un luogo di contraddizioni, molto grande, ampia, complessa, con un contrasto fra architettura coloniale e il presente, nel corso di una conferenza, tenutasi a Madrid nel 2016, Garaicoa descrive l’Avana come “una città attraversata da uno spazio politico molto forte, una città dove non incontri informazione visiva, come per esempio la pubblicità tipica del mondo occidentale, ma quella politica, con le parole di Fidel e Raoul Castro”.
In quel contesto, Garaicoa in un’intervista del 1993 (effettuata da Ines Anselmi) fa alcune premesse per inquadrare il proprio lavoro. Ricorda che Kossuth e Beuys hanno introdotto un fenomeno di socializzazione dell’arte, già iniziato dalle avanguardie storiche degli anni Venti e che l’equazione arte-vita pretende di eliminare e seppellire tutto ciò che era l’arte come rappresentazione, come immagine.
Ricorda che fra la metà degli anni Ottanta e Novanta a Cuba si pratica quella che lui e i suoi compagni chiamavano “arte relazionale”, teorizzata negli anni Novanta da Nicolas Bourriaud e altri teorici dell’arte contemporanea, in un luogo dove era assente il “mercato” dell’arte, contraddistinto dalle gallerie. Esistevano invece spazi che coltivavano le riflessioni, i pensieri.”
Garaicoa e i suoi contemporanei (fra i quali Tania Bruguera, Los Carpinteros) sentono la necessità di creare opere che parlassero più direttamente al pubblico, senza passare nello spazio tradizionale del Museo, o delle gallerie percepito come uno spazio egemonico.
In questo primissimo periodo, le sue opere mostrano una forte attenzione per il coinvolgimento più immediato del pubblico, garantito dalla proposta di fruizione delle opere direttamente sulla strada, lungo le vie, a disposizione dei passanti: per esempio con la scelta di appendere le foto sui muri dell’Avana.
Nell’intervista citata del 1993, dichiara che la parte centrale della sua poetica si incentra sulla percezione della strada, delle vie e invita a domandarsi ancora se riportare o meno l’arte nella vita quotidiana, o se usare la sociologia e il concettualismo come un’illusione.
Sostiene che tutto il suo lavoro “parte tentando di analizzare la rappresentazione, nella propria storia, nella rappresentazione plastica, si concentra attorno alla domanda se la rappresentazione nello spazio è arte”.
In questo contesto nascono le opere fotografiche dedicate a oggetti, numeri civici, segnalazioni, locandine per eventi politici, esposizioni, fiere affisse per la città, lavori che potessero interagire direttamente con le persone, raccolte nella mostra Tu nùmero de suerte (fotografie e installazioni, Juan Francisco Elso Gallery, Asociaciòn Hermanos Saìz, Avana, 1993). La scelta del titolo si riferisce appunto al “destino” che unisce il numero civico al suo abitante.
In una della serie, per esempio, accanto alla foto del numero civico 39, quello dell’artista, si trova un testo con alcune riflessioni su quello che significa il proprio numero. Un’altra mostra il famoso Hotel San Carlo, ormai in rovina. Questi lavori compongono la mostra .
Sempre nell’intervista del 1993 dichiara che “tutti i suoi primi lavori erano un confronto diretto con gli abitanti ed era guidato dall’intenzione che i cittadini, i passanti potessero giungere a una rilettura dello spazio che li circondava.” Gli interessava creare “una specie di archeologia urbanistica” e “mettere in rilievo la bellezza occulta dell’Avana, un tempo nota come la Parigi dei Caraibi”.
Las metàforas del templo
Il passo successivo, sempre all’inizio degli anni Novanta, è trasformare alcuni elementi del paesaggio, in particolare gli edifici, e sviluppare sempre di più il suo interesse per l’architettura. Dal 1993 Garaicoa compone una serie di disegni dove si propone come “architetto”, intervenendo direttamente attraverso il disegno, l’elaborazione grafica su edifici in rovina della capitale cubana.
Per esempio, propone di sostituire i tubi a sostegno degli edifici in decadenza con una serie di Atlanti (Acerca de esos incansables Atlantes que sostienen día por día nuestro presente), o creare una torre di Babele a partire dalle palizzate di sostegno a un palazzo con seri problemi di statica (Acerca de la construcción de la verdadera torre de Babel).
In questo periodo l’immagine del “dittico” è ricorrente: alla fotografia dell’edificio vero, è posto un disegno che la reinterpreta, attraverso il ricorso alla creatività, alla fiction. Questi lavori confluiscono in due mostre all’Avana (1993 Las metàforas del templo, Centro de Desarrollo de Artes Visuales; 1994 El sueño de la razón, Fotografìas y Objectos, (con Pedro Abascal), al Centro Wifredo Lam).

Garaicoa esplora la sua città, la osserva, individua le bellezze decadute, gli edifici semicrollati, o sempre più precari. Crea quella che egli stesso definisce “una trama urbana, con interventi di fiction sulla realtà”. Mostra in sostanza una forte inclinazione narrativa espressa attraverso il ricorso alla fotografia e alla scrittura abbinate, in dittici.
Gli intenti che lo muovono non sono meramente formali, come specifica in nell’intervista del 1993. Ha iniziato a occuparsi di architettura “per una questione concettuale, non formale”, posto che ritiene “la città un grande punto di unione della modernità, il luogo dove parliamo, dove viviamo ” e “l’architettura costituisce una riunione di tutti i problemi dell’esistenza, di un gruppo sociale.”
Una drammaturgia urbana in sostanza, dove la scrittura di storie è realizzata attraverso una attenta osservazione degli angoli dismessi, degli edifici lasciati al loro destino, alla decadenza ai quali viene data almeno virtualmente una possibilità di riscatto, di rinascita, di richiamo e che negli anni successivi si esplicherà in una scrittura sempre più complessa e articolata…
(Segue…)