ZimmerFrei. La domesticazione degli spazi. II

Nell’articolo precedente, abbiamo inaugurato una serie di riflessioni con Anna de Manincor, fondatrice del collettivo ZimmerFrei di Bologna, insieme a Massimo Carozzi e ad Anna Rispoli, a proposito del concetto di Spazio. Riprendiamo quindi il discorso, in questa seconda parte dell’intervista-dialogo.

Chiedo ad Anna di parlarmi del rapporto che il loro collettivo ha con lo spazio, come lo usa e lo esplora.

A: “La relazione con lo spazio è emersa in modo molto forte nell’esperienza con Filmon Yemane, uno dei ragazzi che Zimmerfrei ha seguito nel progetto Saga. Filmon, proveniente dall’Eritrea, è diventato cittadino italiano alla fine del primo lockdown, in giugno 2020. A circa undici anni Filmon ha perduto la vista a causa di un’esplosione accidentale ed è venuto in Italia con un programma medico.

ZimmerFrei, Saga, Film in quattro episodi, Bologna
ZimmerFrei: frame dal film Saga. III Episodio dedicato a Filmon.

Il padre, che lo accompagnava, aveva un permesso di soggiorno temporaneo, ma quando gli è scaduto doveva decidere se rientrare in Eritrea con il figlio non vedente o lasciarlo in Italia e staccarsi da lui. Ha scelto la seconda soluzione.

Quindi il ragazzo ha vissuto in Italia, prima con una famiglia di connazionali, poi in una famiglia affidataria –  tutti parte delle sua nuova grande famiglia allargata – e ora è in un appartamento per studenti poiché sta finendo il secondo ciclo all’università. La sua domesticazione degli spazi” continua Anna “si basa su una conoscenza profonda degli spazi urbani che attraversiamo e utilizziamo, sono stati passaggi molto interessanti da far conoscere.

Abbiamo condiviso con lui alcune cose emerse dalla lettura di un libro di John M. Hull intitolato Il dono oscuro. Si tratta del diario di un docente di teologia diventato cieco da adulto. Nel diario racconta questa “altra” vita, in una maniera molto cruda, senza romanticismo sui super-sensi percettivi attribuiti e sviluppati dalle persone non vedenti.

Con Filmon abbiamo dovuto cambiare modo di girare, in particolare per quel che riguarda una soluzione che amiamo molto: i piani sequenza a seguire, nei quali abbiamo la schiena della persona inquadrata che occupa due terzi del campo, non vediamo la prospettiva centrale verso il cui fuoco ci stiamo dirigendo, ma rimaniamo agganciati alla schiena, mentre vediamo i due lati scorrere e ci guardiamo intorno.

Il nostro protagonista ha un modo di procedere diverso: non si affida alla vista per puntare un luogo e raggiungerlo nel modo più diretto, ma cammina lungo i perimetri, segue traiettorie che si interrompono, elaborate, saggia il terreno e non gli importa se fa la strada più lunga, o se va a sbattere contro qualche cosa.

ZimmerFrei, "La città  dentro", Bologna 2020
Un frame dal film “La città dentro”. Filmon e il baseball

Se non vedi, con dei piccoli colpi e scorrimenti con la punta del bastone, fai suonare ciò che ti circonda e recuperi la verticalità. Uno dei problemi dei non vedenti – non di Filmon che procede regale come un principe – è che hanno un lato più sensibile dell’altro e si torcono o si curvano, nella concentrazione di esaminare il percorso.

Filmon ci raccontava una cosa importante a proposito degli “aiuti” esterni. Aveva avuto sempre la fortuna di incontrare persone gentilissime che si proponevano di aiutarlo ad attraversare la strada, ma lo voleva e poteva fare da solo. Soprattutto poneva una questione fondamentale: come fidarsi di una persona estranea, sconosciuta, che gli aveva rivolto solo due sillabe.

Noi possiamo vedere chi ci parla, inquadrare la persona attraverso molti dettagli non verbali. Chi non vede non ha la possibilità di farsi un’idea di chi si sta proponendo, se non attraverso l’intonazione della voce, il modo di parlare, e c’è bisogno di un certo tempo.

Mi rendo conto che ora sto passando a un altro discorso, però con Filmon è stato molto interessante affrontare temi molto grandi che riguardano il film documentario in generale: come approcciare le persone, come costruire la fiducia, perché ti dovresti affidare a qualcun altro.

Quando escludiamo l’uso della vista dobbiamo ridiscutere il piano di alleanza anche per quanto riguarda la realizzazione del lavoro di ripresa. Se pensi allo spazio solo e sempre in termini visivi è molto limitante. Noi associamo lo spazio al paesaggio, a un luogo fisico e lo descriviamo sempre da un punto di vista visivo. Il paesaggio è una porzione di territorio osservato da un umano in situazione di calma e tranquillità. Se corri, non chiami quello stesso posto “paesaggio”.

Zimmerfrei, Un frame dal film "La città dentro", Bologna, 2020
Zimmerfrei, Un frame dal film “La città dentro”, Filmon, sala borsa, Bologna, 2020

In realtà, lo spazio è fatto del tempo che impieghi ad abitare il luogo. Anche al buio o mentre dormi. Questo è stato un aspetto interessante che ha ridato molta importanza alle nostre procedure di “avvicinamento”.

La registrazione, l’ascolto, implicano il costringersi a non fare nulla, ad aspettare prima di iniziare a riprendere. Guardarsi attorno può anche essere fuorviante: vedi quello che vuoi vedere. Hai una visione selettiva a priori, un preset stilizzato, vedi linee, pattern, tutto estetizzato. Invece, se per un po’ non guardi, ma stai fermo e assorbi, inizi a diventare parte di quel posto. In questo Massimo è maestro.

Questo approccio è uno degli strumenti che abbiamo usato durante un laboratorio, per arrivare al documentario Tentativi di esaurimento di alcuni luoghi bolognesi. Il titolo è ispirato a un libro di Georges Perec del 1974, Tentativo di esaurimento di un luogo parigino.

Per Perec stare in un luogo non è esattamente osservare, è rubricare. Non solo devi guardare intorno, ma ascoltare quello che sta passando, suoni in movimento, un frammento di frase, e devi elencare solo quello, senza barare, senza inferire ciò che viene prima o dopo. Devi tenere a mente quello che hai sentito, noti le ricorrenze e le trascrivi in modo diverso rispetto alle cose che accadono una tantum.

In questo lavoro di elenco diventi un dattilografo pazzo. Devi impedirti di raccontare subito delle storie, elaborare personaggi, fare il “macchiettismo” della situazione. Devi superare l’ansia da prestazione che ti induce a estrarre immediatamente qualche cosa da una situazione.

Una situazione difficile da gestire se la proponi a qualcuno che frequenta un laboratorio per tre giorni. In ogni caso, è una procedura, una pratica presa in prestito, utile, in quanto antidoto al consumo estetico delle immagini. A questo siamo abituati, sia a causa del cambiamento di molti luoghi legati all’estrema mobilità e al consumo turistico, sia con l’adozione della forma snap shot con cui guardi fotograficamente qualsiasi cosa, anche se non la fotografi. Questo sguardo snap può essere divertente, fa parte delle tue note immaginarie, però può diventare riduzionista, estetizzante.”

S: Mi puoi dire qualcosa riguardo ad Argon e Temporaneamente Bucaletto? Vorrei capire meglio quei due progetti…

A: Argon è un progetto per il Museion di Bolzano. Abbiamo realizzato la proiezione sulla facciata, un video-wall e Fabrizio Favale ha creato una composizione coreografica all’interno del museo. Fabrizio ci aveva chiesto luoghi di ispirazione per la coreografia e noi ne avevamo proposti due e mezzo: uno era il sotterraneo del CERN, l’altro un cratere di un vulcano (con le mucche lì vicino che bevono acqua sulfurea).

Questi luoghi non hanno un rapporto fra loro, ma per la coreografia avevamo trovato un elemento di unione allo stadio inferiore della materia, quello degli elementi chimici e Argon è un elemento che si è imposto come se fosse un personaggio eroico in uno scenario omerico. Le immagini costituivano una forma di ispirazione reciproca.

Luoghi sotterranei, o comunque di comunicazione fra sottosuolo e superficie, fra infinitamente grande e infinitamente piccolo, fra la terra e il sostrato. La coreografia lavorava su temi analoghi riferiti all’interno del corpo, delle viscere, su alcuni elementi di rarefazione, in particolare l’aria. Nel complesso era un lavoro di trasfusione fra architettura e coreografia.

Temporaneamente Bucaletto invece funziona come Zona U: è una “soundwalk”, un’immersione in uno spazio delimitato da un punto di vista sonoro. Bucaletto è un quartiere di Potenza, edificato in fretta dopo il terremoto. Massimo è stato invitato dal festival di Potenza “Le cento scale” e ha tenuto un laboratorio di ascolto-registrazione in un quartiere che doveva essere temporaneo dopo il terremoto dell’Irpinia del 1980.

Le case prefabbricate, assemblate sul luogo, all’epoca futuristiche, specie di basi spaziali, esagonali, case-container adattabili, adagiabili su qualsiasi suolo anche disastrato, sono diventate permanenti e si sono trasformate in rovine.

Il quartiere si è arrangiato attorno a questa fondazione temporanea nelle intenzioni, ma di fatto diventata permanente e fragile. Massimo insieme ad Agnese Cornelio, regista con cui collaboriamo da circa due anni, hanno effettuato registrazioni, hanno elaborato un percorso su una mappa più estesa, fino a creare un ascolto raddoppiato che comprende sia quel che ascolti direttamente di persona e quel che ascolti nella registrazione avvenuta in un tempo differito.

Si tratta di lavori creati per essere riascoltati nel luogo stesso e ne è stata fatta anche una versione radiofonica, entrambi sono stati trasmessi da TreSoldi, su RadioTre.”

ZimmerFrei, "La città dentro", un frame con Ada, 2020
ZimmerFrei: frame dal film “La città dentro”. Ada, 2021

Personaggi o persone

S: Rispetto ai vostri lavori che esulano dalla fiction, il ruolo dei personaggi o piuttosto delle persone forse è molto ambiguo, nel senso che ci si muove lungo una sottile linea di confine fra i due stati. Hai già detto molto parlandomi dello spazio, quando hai evidenziato come il vostro lavoro parta dal personaggio e dal suo ambiente, ma forse puoi aggiungere qualche altra riflessione.

A: “Noi partiamo dalle persone, di loro dai una versione, perciò questa creatura che ne deriva, la puoi chiamare personaggio, dopo che hai visto tutto il suo sviluppo. Ci muoviamo però da una base documentaria, quindi cerchiamo di far rimanere la persona, di non metterla già dentro a un “vestito”. Abbiamo portato gli esempi dei ragazzi ai quali accennavo prima, ora posso aggiungere anche quello della figlia di Massimo, Ada, di undici anni.

Un giorno ci ha proposto anziché andare sempre in altre città, cambiare casa, di fare un film su Bologna. Allora ci abbiamo pensato. Così, Ada che ha visto e vissuto in tutti i nostri set, in questo caso è entrata nel film, si è costruita un personaggio. Si è messa a servizio del film, ha interiorizzato le aspettative del  documentario.

Ha capito che la successione degli accadimenti, delle azioni quotidiane, non poteva avvenire tutta insieme, ma ognuna si inanellava nell’altra. Tutti questi avvenimenti dovevano succedere “come se niente fosse”, doveva trovare il modo che si verificassero, senza dire “adesso facciamo questo”, altrimenti sarebbe caduto “il palco”. La teatralità di un’operazione come questa non può essere dichiarata, resta immersa dentro il documentario, una specie di ultrafiction. Ada l’ha capito molto bene.

Nel film dove compare, si vede lei che mette un disco, lo ascolta sul divano, poi si addormenta, quindi va sul terrazzo, in seguito si cambia il vestito e chatta con una sua amica, ma in tutto questo non dice nulla. Se hai voglia di seguire queste azioni, la loro sequenza si trasforma in un plot dove succedono molte cose, però devi concedere al tutto un po’ di spazio e un po’ di tempo.

In questo senso Ada aveva inteso molto bene che cos’è il walk the line fra l’azione a favore di camera o quelle che avvenivano nel rifugio della sua stanza. È stata un’esperienza bella che ha esorcizzato la paura di Massimo, come genitore, di assegnare la parte di un adulto a una bambina, spettacolizzare la sua vita, con il rischio di carburare il narcisismo dei bambini. Fortunatamente ad Ada non interessa fare film di fiction, non ha voglia che qualcuno le dica continuamente cosa fare!”

ZimmerFrei: frame dal film "La città dentro". Ada, 2021
ZimmerFrei: frame dal film “La città dentro”. Ada, 2021

S: Puoi riprendere la definizione di DRAMMATURGIA URBANA che avevamo lasciato in sospeso all’inizio del nostro dialogo? Se ti sta stretta, puoi anche dire che non la condividi, o qualunque altra cosa che tu senta la necessità di esplicitare.

A: “Diciamo che non ho una chiosa su questo, o non ho una definizione, perché per me sono due parole comuni. La drammaturgia la puoi applicare a quello che vuoi, il termine “urbano” è riferito a una città, ma se sei in un altro posto è un’altra cosa. Mi posso applicare a questo tipo di lavori, ma non ho una definizione.”

S: A questo punto passerei a chiederti come vi rapportate con il concetto di Trama e Intreccio come li affrontate, che cosa vi suggeriscono.

“Il termine Intreccio l’abbiamo usato molto in un altro progetto che si chiama Lumi, realizzato l’anno scorso. È un momento di transazione tra il documentario che ci hanno detto chiamarsi staged documentary e la scrittura vera e propria, drammaturgia se vuoi, sceneggiatura.

Quella parola l’abbiamo usata prendendola dalla teorizzazione di un antropologo, Francesco Remotti, che ha scritto tre libri sullo stesso tema nell’arco di quindici anni. L’ossessione identitaria e Contro l’identità sono una demolizione del concetto di identità che noi usiamo per indicare molte situazioni in realtà “altre”.

Il terzo libro Somiglianze è la parte costruttiva in cui propone di sostituire l’identità univoca con un “intreccio di somiglianze e differenze”. Mi sono permessa di adottare la sua proposta e abbreviarla in “treccia”, perché così la vedo meglio.

Perché se dico trama o intreccio, da una parte penso a Deleuze, trama, dall’altra Donna Haraway  entaglement, e penso a riflessioni così note da essere diventate “di moda” e molto abusate. Sono diventati balocchi, termini pigliatutto. Fino al ‘95 se scrivevo “identità” nella presentazione di un progetto era cool, ora la parola magica è “intreccio”.

S: A proposito, dedicheremo presto un articolo alle parole chiave di moda nel linguaggio culturale contemporaneo, accanto a “intreccio”, possiamo aggiungere “interazione”, “cura”, “interspecie”; “resilienza”, tanto per citare quello più fruste, diventate tali anche in seguito alla pandemia.

A: “Lo scenario che Remotti propone è quello dove la singola persona, il gruppo sociale o il luogo specifico esprimano da dentro o da fuori, una treccia in movimento di relazioni, di somiglianze, o differenza con l’interlocutore. Non c’è mai una situazione di “immobilità”, anche se l’elemento in questione non è interpellato, si attiva sempre nella relazione; è un intreccio di somiglianze e differenze.

Per esempio, io ho 47 anni, Yakub ne ha 17, tutte e due abbiamo caldo e vogliamo il gelato, tutti e due quando prendiamo una botta ci viene un ematoma, ma a me viene verde e a te viene viola perché hai la pelle marrone, tutti e due abbiamo avuto la pertosse.

Questo intreccio in cui continuamente siamo vicini, lontani, diversi, simili, questa treccia che scopriamo man mano che presentiamo l’uno all’altro informazioni, o ci accordiamo per l’azione che facciamo è una visualizzazione, uno scenario su cui mi interessa costruire molte cose, situazioni, esperimenti, film, eccetera.

Un’azione totalmente diversa dallo sbozzare luoghi o personaggi, identificandoli, comprimendoli in una dimensione formale, o stilizzata, di forte appeal perché  si staglia contro uno sfondo e culturalmente abbiamo imparato ad attribuire a tutto ciò molto valore. Al contrario, è molto difficile dare una visione dell’intreccio, ti lascia un po’ insoddisfatto.

Per questo facciamo spesso delle serie, perché vuoi capire come va avanti. In questa proposta di demolizione di un concetto e sostituzione con un altro approccio, mi sono impegnata in un esercizio: per un anno e mezzo mi sono sforzata a non usare mai la parola “Identità”, né nel parlare, né nello scrivere. È stato difficile, però permette di togliere lo strumento-dispositivo della parola e di dire direttamente la cosa, mettere allo scoperto le tue intenzioni. Provare per credere.

Remotti ha riflettuto sui diversi tipi di conflitti identitari, di contrapposizione, di costruzione identitaria. Spiega che noi ci arrocchiamo quando nascondiamo realtà più complesse da rivelare. Per esempio si desidera esprimere un bisogno di affermazione, richieste che si teme non siano soddisfatte, quindi si sceglie di prendere in contropiede l’altro e avanzare una dichiarazione perentoria (per esempio “noi siamo fatti così” o “sono arrivato prima io”).

A questo proposito egli faceva l’esempio del conflitto israelo-palestinese, derivato da elementi molto concreti come la gestione/controllo dell’acqua e usufrutto del territorio. L’abitudine a pensare in termini di “e…e”, anziché “o… o”, credo l’abbiamo appresa dalla filosofia e dall’antropologia che tenta di decolonizzarsi, e per quanto mi riguarda soprattutto dal pensiero femminista contemporaneo.

Così si può considerare contemporaneamente il punto da cui guardi e l’oggetto dell’osservazione, senza negare il fatto che sei una certa persona, con caratteristiche proprie e limitazioni. Con Remotti abbiamo avuto un contatto diretto. Gli abbiamo chiesto di scrivere un testo per il libro Lumi che ha accompagnato il progetto omonimo.

E’ stato molto emozionante chiedergli di scrivere un saggio accanto alle nostre sceneggiature nate alle luce del suo concetto di intreccio continuo di somiglianze e differenze. Un complesso che lui chiama “So-Dif”. Così anziché parlare dell’identità dei bolognesi, lui ricorre all’espressione “so-dif di Bologna”. Se la usi ti cambia subito la visione, non vedi più i mattoncini rossi, il tortellino e il lauro sulla testa di studenti ubriachi…”

S: Ultima domanda. Come vi ponete con il rapporto con il pubblico?

A: “Diciamo che a noi piace essere il pubblico. Ora più che mai ci piace fare il pubblico.”

ZimmerFrei, La beauté, proiezione a Noailles
Pubblico che assiste alla proiezione di “La beauté c’est ta tête”, di ZimmerFrei, a Noailles, Marsiglia, 2014.

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