ZimmerFrei. I La domesticazione degli spazi.

ZimmerFrei è una realtà molto conosciuta in Italia e all’estero, impegnata sul piano della ricerca e dell’esplorazione applicata agli spazi urbani e non solo, attraverso filmati, fotografie, videoinstallazioni, interventi di ascolto sul campo. Un’attività che si svolge ormai da un ventennio (il gruppo è stato fondato nel 2000, a  Bologna), con un lavoro molto consistente all’attivo, solidità di pensiero, di esperienza, coniugati a una capacità di ripensare, ridiscutere le loro metodologie di lavoro e le loro proposte nel tempo.

Ci rivolgiamo allora ad Anna de Manincor e a Massimo Carozzi, i due fondatori, per sapere che cosa ci possono dire riguardo le nostre ormai “canoniche” parole chiave: Spazio, Personaggi, Trame-intreccio, rapporto con il Pubblico, definizione del termine “Drammaturgia Urbana”.

Inizio quindi con il chiedere ad Anna come si relazioni con il termine

Drammaturgia Urbana.

A: “Difficilissimo. Passiamo alla seconda.”

Frame dal film doc a episodi Saga, di ZimmerFrei, Bologna
Un frame con Yakub in Piazza Maggiore a Bologna, da “Saga”, film documentario a episodi di ZimmerFrei. 2017-2020

Propongo allora il secondo punto, riguardante lo

SPAZIO.

e chiedo: Come vi relazionate con lo spazio, che cosa rappresenta per voi, quando pensate a una produzione? Mi puoi fare esempi pratici riguardo a come usate lo spazio urbano, naturale, rurale, domestico, quello che volete….Dimmi tutto quello che vuoi insomma sullo Spazio.

A: Risata. Vorresti un pamphlet?

S: No vorrei delle immagini di quello che pensate. Non voglio risposte accademiche, ma spontanee e dette nella massima e assoluta libertà. Nel vostro lavoro, ho visto un’esplorazione a tutto campo di spazi urbani e non solo e sono molto curiosa di sapere come agite, come vi muovete. Puoi partire da un esempio, o puoi dirmi che cosa ti colpisce di più dello spazio, di come lo senti/vedi.

A: Nel documentario a episodi Saga, il soggetto è costituito da ragazzi e ragazze che rappresentano un nuovo tipo di cittadinanza. Alcuni sono immigrati di prima generazione, nuovi arrivati. Qualcuno è venuto a Bologna per studiare, altri sono nati qui per puro caso. Il documentario voleva essere uno sguardo su una generazione con cui finora non avevamo avuto contatto.

Noi abbiamo cinquant’anni, frequentiamo i bambini tardivi dei nostri coetanei, siamo due generazioni totalmente distanti. Volevamo vedere come si trasforma chi da teenager diventa adulto. Una specie di cittadinanza condivisa tra coetanei, nata dall’esperienza di crescere in un posto specifico, al di là del luogo da cui parti.

Questa era la nostra intenzione, quando sono usciti gli episodi qualcuno ci ha detto che avevamo fatto nuovamente un ritratto di città. Dopo Marsiglia, Mutonia, il CERN, una Bologna ad altezza dello sguardo di questi quattro-cinque ragazzi e ragazze che avevamo messo al centro dell’attenzione. Perciò è come se il luogo fosse sempre una personalità tra quelle che noi abbiamo ripreso. Fra quelle viventi ce n’è un’altra anch’essa vivente, ma con un arco temporale che ci supera.”

S: E questa altra creatura è lo “spazio”.

Lumi, film. Zimmerfrei
Frame da “Lumi”, un film di ZimmerFrei. 2020

A: “In questo senso, per noi è stato interessante fare un ritratto della città di cui noi siamo adottivi. Siamo diventati abitanti, cittadini, attraverso lo sguardo di qualcun altro, per interposta persona, un ritratto, tuttavia, involontario, perché non era nostra intenzione farlo. Ecco, questa modalità di guardare qualcosa per “interposta persona” credo sia qualcosa che stiamo provando a fare da un po’ di tempo.

Non è una cosa che abbiamo deciso, ce ne stiamo accorgendo ora. Sia per la serie di performance e l’installazione video Family Affair, incentrata sul ritratto di famiglia, con gruppi famigliari e di convivenza di tutti i tipi; sia per i documentari, che riguardino luoghi conosciuti o che non abbiamo mai abitato, abbiamo bisogno di più di una “interposta persona”. Ne adottiamo la posizione, il punto di vista da cui sporgerci per guardare e di solito di ascoltare, prima di filmare.

I luoghi che usiamo sono principalmente i posti dove abitiamo, dove viviamo, anche temporaneamente. Non sono un oggetto su cui ci mettiamo a ragionare: sono tutto. Non puoi fare a meno di vivere se non c’è un luogo in cui vivi. Se facciamo un film, una serie fotografica o un’intervista siamo in un luogo. Non ci siamo ancora smaterializzati!

Un’altra questione che ci siamo posti da lungo tempo è come funziona la domesticazione degli spazi. Fino a due anni fa siamo stati molto mobili, spesso anche “spaesati”, per quanto con il beneficio, un vero e proprio privilegio esistenziale, di accendere e spegnere la condizione di expat appartenenti all’élite intellettuale (ride). Non si tratta quindi di un vero spaesamento da sradicamento, ma di una piccola ricostruzione domestica di ciò che ti circonda, quando non hai il tempo per esplorare e devi subito produrre, vedere, scoprire.

Un frame con Yakub sul Crescentone a Bologna, da "Saga", film documentario a episodi di ZimmerFrei. 2017-2020
Frame dal film doc a episodi “Saga”. Sdraiati sul Crescentone. Bologna. 2017-2020

Hai invece un tempo molto breve, compresso per instaurare una dimestichezza con un luogo totalmente estraneo. Questa è una piccola procedura di domesticazione. In questa situazione, per esempio, Massimo fa il suo lavoro preliminare eleggendo un bar o un tabaccaio come punto di riferimento, io compro una tazza e uno strofinaccio da cucina, uno spremiagrumi di metallo o di vetro, ne ho vari…

Molti film-ritratto di città partivano da un luogo stazionario, per esempio i progetti Temporary Cities. Noi tentiamo di prendere tempo e di solito ne perdiamo un sacco, troviamo un luogo privilegiato di osservazione che di solito è un caffè, una collina, una vetrina, un dock di un porto, o la casa di qualcuno. Un posto dove torniamo ripetutamente e che diventa una specie di luogo di deposito, dove facciamo altro. Nel frattempo stratifichiamo qualche cosa che ci fa riconoscere i posti e familiarizzare con i medesimi.

Questo processo di domesticazione, in particolare nell’ultimo film Saga, ha avuto alcune coincidenze con le strategie di adattamento attuate dalle persone che abbiamo seguito. Per esempio, con quelle di Yakub, un ragazzo nigeriano che aveva diciassette anni quando è arrivato a Bologna e che noi abbiamo seguito da allora, ora ne ha venti e passa. All’inizio parlava poco l’italiano, si esprimeva in inglese. Diceva che non gli piaceva il dormitorio dove stava, così camminava tutto il giorno.

Puntava verso il centro e camminava perché dal posto dove veniva lui, Edo State in Nigeria, si dice che se non hai niente da fare è meglio “camminare per niente piuttosto che stare fermi per niente”. Questo gli ha salvato la vita in più di un’occasione, perché pare che ogni volta che succedevano cose gravi, Yakub era sempre da qualche altra parte. Quindi, partito a sedici anni da casa, aveva camminato sempre, fino ad arrivare fin qui, a Bologna. Man mano che ci raccontava tutto questo, si sdraiava sempre più sul “crescentone”, questa specie di grande focaccia di pietra, nel centro della piazza Maggiore di Bologna.

Diceva di essere stanco che tutti gli chiedessero la stessa cosa, cioè da dove venisse. “E dopo che te l’ho detto?” si domandava “Se dico Nigeria, non sai neanche dov’è. È un paese grande tre volte l’Italia e non ti interessa, perciò che domanda fai?”. Quindi, per lui era molto più importante che gli si chiedesse quello che era successo dopo il suo arrivo, anziché quanto avvenuto prima.

Noi abbiamo aderito al suo proposito di non annoiarsi nel raccontare sempre la stessa storia. Di per sé si tratta di un’aspettativa totalmente indotta dal fatto che le persone inanellano pensieri simili a questi: “ti vedo strano, diverso da me e mi viene da chiederti da dove vieni.” Invece sarebbe meglio chiedere che cosa abbiamo in comune con l’altro. Per esempio “Abbiamo voglia di un gelato?”

un frame da Saga, video di ZimmerFrei
Un frame con Yakub in Piazza Maggiore a Bologna, da “Saga”, film documentario a episodi di ZimmerFrei. 2017-2020

Yakub aveva questo modo di familiarizzare con noi: indietreggiava sempre di più dalla camera e ci obbligava a seguirlo, per trovare la giusta distanza con cui lasciarsi guardare e si sdraiava fino ad assumere una posizione totalmente orizzontale.

Questo ci ha sempre molto incuriosito, perché di conseguenza abbiamo “sdraiato” sempre più, anche la camera, fino a una posizione rasoterra, tanto da dover ribaltare il cavalletto. Proprio questo continuare la ripresa da rasoterra ci ha dato un’impressione molto fisica, da sviluppare anche in altri lavori. Si tratta di trovare un “correlativo oggettivo”, si direbbe in poesia. Una cosa visibile che sta là e fa le veci di qualcos’altro che da dire è troppo complicato. In questo caso alludo alla conquista dello spazio palmo a palmo.

Il fatto che tu ti sdrai come un tappetino, a pelle di leopardo, per “fare casa” diventa molto significativo… Come nel momento in cui giochi “a tana” e ti spalmi, diventi invisibile, perché prendi la forma di quel posto così che nessuno ti noti. Ecco, questa compenetrazione, questo spiattellarsi, questo sdraiarsi per terra in una piazza mette in luce il potere ambivalente degli spazi collettivi.

Uno spazio pubblico è una vera piazza quando è calcata da tanti corpi, ma una piazza non è tale se non è lasciata libera. L’uso “improprio” di uno spazio pubblico, usato come se si fosse a casa propria, con la stessa dimestichezza e impudicizia, in realtà permette di sentire l’appartenenza a quel luogo, di poterlo chiamare casa. In realtà, per chi passa da lì, stai semplicemente tra i piedi, impedisci il passaggio, sei sconveniente, ossia brutto da vedere… per lo meno, da un punto di vista borghese.

Invece Yakub in quel metro quadrato si sentiva “nel suo”. È una cosa che io intenzionalmente noto a Bologna. Ci sono luoghi che permetto una specie di “accasamento” nello spazio pubblico. Questo rimanda a due espressioni verbali contrapposte: “usare uno spazio come fosse casa tua”, nel senso di prenditene cura, e il suo contrario “non sei mica a casa tua. Dove pensi di essere?”. Mi colpisce perché lo stesso oggetto “casa” è usato per esprimere due condizioni opposte.

"A travers les murs." Rue du Midi. Videoinstallazione, ZimmerFrei, Bruxelles.
“A travers les murs.” Rue du Midi. Videoinstallazione, ZimmerFrei, Bruxelles.

La doppiezza di certi gesti, modi di sentirsi è qualcosa che attraversa vari lavori, Domestic exiles, À  travers les murs, sono un altro travaso di spazi privati e spazi pubblici. L’idea del secondo progetto,  era quella di fotografare alcuni interni e proiettarli all’esterno come vedendoli attraverso un buco. Non era nelle premesse ma è diventata una installazione permanente nel quartiere della Borsa a Bruxelles

Ovviamente avevamo in mente gli interni di Gordon Matta Clark e quel tipo di visionarietà. Fai dei buchi nei muri e vedi dall’altra parte. Matta Clark abbatteva le pareti, o agiva nei luoghi in corso di demolizione. La cosa sorprendente è vedere gli interni in esterno. Quando osservi le case abbattute, con le piastrelle, i manifesti attaccati, le mensole, ricevi un’emozione molto forte, perché è come se vedessi una radiografia di una vita, o una sezione di qualcosa dove si muovono “fantasmi”. C’è sempre molta nudità in questi interni resi pubblici.”

Anna sottolinea l’importanza del corpo “come una specie di misuratore di spazio o di appropriatore di spazio, centimetro per centimetro”, e sul fatto che “se hai insistito nel senso fisico della parola su quel metro quadrato, quel luogo ti riconosce quando torni. Come i cani che hanno segnato quello spazio, nonostante sia stato marcato da tante altre persone,” Così “non è ad uso esclusivo di qualcuno, però si è instaurato questo contatto fisico.”

Quindi, mi spiega che “A Bologna ci sono posti dove questa consuetudine di stare sdraiati è abbastanza condivisa e non si tratta solo dei parchi. Per esempio Piazza Verdi, la piazza dell’Università, del Teatro Comunale, dello spaccio, diventa una specie di “spiaggia”. Sai che è arrivata la primavera quando vedi gli studenti che iniziano a usare il pavé come un prato, oppure le scale della Montagnola, la discesa davanti a Sala Borsa, uno dei posti dove funziona meglio il wifi libero di Bologna.

In questo caso si tratta di una specie di stazione di comunicazione a cielo aperto, dove tutti comunicano con tutti, con i presenti e con i distanti; un posto frequentato da varie comunità, sia di provenienza, di comunità, sia di età. La leggera pendenza e i gradini predispongono a questo spiaggiamento.

Se diventi sensibile a un gesto fatto in uno spazio, inizi a riconoscerlo quando lo vedi, lo rubrichi. Diventa una sezione orizzontale che fai di un luogo. Naturalmente si tratta di visioni soggettive, interpretate, una torsione verso una cosa che ti interessa, perché per te è significativa, porta fuori cose non esplicite. Per esempio, aver bisogno di sentirsi nel tuo posto nella città, per comunicare che ci sei. Non puoi stare solo nel tuo appartamento, quindi vai spesso nel “tuo” posto, anche se ci resti per un minuto.

L’appropriazione dello spazio attraverso la postura delle persone, di contatto con il materiale di cui è fatto il luogo è molto interessante da osservare. Una postura quasi desueta adesso, ma che si riconosce molto nelle persone che vengono da altri luoghi è quella di appoggiarsi al muro con un piede, con la conseguenza di lasciare l’impronta sul muro, di sporcarlo. Una postura che a Bologna è sconsigliata perché i muri sono intonacati e rimane l’impronta. Dove invece i medesimi sono di pietra o mattone questa consuetudine diventa un perfetto sunto di free-standing e resting position.

Quest’uso resiste, in piazza Maggiore perché la pietra è alta fino a un metro, ed è la postura spesso adottata da gruppi di maschi, bolognesi e forestieri.

Massimo ti potrebbe parlare a lungo dei rapporti con i luoghi veicolati dal suono, attraverso registrazioni di lunga durata, perché questa è la caratteristica dell’immersione sonora dove tu, in movimento o da fermo, rimani concentrato solo sui suoni dell’ambiente, senza emettere altri suoni, senza parlare, senza altre azioni che non sia “captare” ciò che ascolti. Anche senza registrare.

(Prosegue la prossima settimana)…

Frame dal film a episodi Saga, di ZimmerFrei
Un frame con Yakub in Piazza Maggiore a Bologna, da “Saga”, film documentario a episodi di ZimmerFrei. 2017-2020

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