Riprendiamo la conversazione-riflessione con Francesca Marconi, visual artist particolarmente impegnata nell’esplorazione delle zone di confine, sul piano culturale e sociale, nonché nel fare interagire elementi opposti e dissonanti, alla ricerca di nuovi collegamenti, di nuove forme di convivenza possibile. L’attenzione resta ancora incentrata per qualche passaggio sul concetto di spazio, inteso in questo momento nella sua essenza di luogo connesso alla fruizione del pubblico.
“I miei lavori sono stati fatti, creati e restituiti nei quartieri o nei luoghi vissuti dalle comunità incontrate. Di rado sono stati collocati in luoghi istituzionali, posto che tutti i miei lavori al novanta per cento sono stati fatti in situazioni, contesti di confine, dove non c’è questa aderenza al mondo dell’arte, al mondo istituzionale. I luoghi protagonisti della ricerca, sono gli spazi di restituzione delle mie opere e del mio lavoro.
Così la mia “galleria” è l’insieme dei negozi di via Padova, le piazzette, il parchetto, o i posti sotto al ponte della ferrovia; questi luoghi ospitano lavori, performance, proiezioni di video. Sarei felice di restituirli in situazioni anche più istituzionali, legati al mondo dell’arte, ma c’è ancora un gap reciproco da superare. In ogni caso, il lavoro è stato pensato per essere ridonato alle persone con cui è stato fatto. Attraverso queste persone se ne conoscono altre, così da aprire nuove possibilità e scambi.
Nell’esempio di Internazionale corazon, alla fine, abbiamo usato le vetrine dei negozi vuoti, o lo spazio On OFF di Fabrizio Fortini (una splendida ex macelleria vuota in via Padova 94), per danzarvi dentro, mentre all’esterno c’era un dj set. Suonava la magnifica dj Sonia Garcia con cui collaboro e ballavano un susseguirsi di cittadinə. Fra loro c’era Sulmon ballerino di origini bengalesi, mentre fuori lo guardavano i suoi amici; dopo di lui si è esibita una ballerina di danza classica con decine di bambine di ogni dove, che guardavano trasognati con il naso appiccicato alla vetrina.
La comunità di spettatori riuniti insieme diventa importante. Anche in questo caso si è creato un “teatro”, sia dentro che fuori. In un’altra occasione, più di dieci anni fa, abbiamo realizzato il progetto Ulysses, con Alessia Bernardini, alla galleria Assab One, a Cimiano in via Padova, in collaborazione con la biblioteca di Crescenzago, la nostra biblioteca di quartiere. Abbiamo lavorato con le comunità straniere, in un periodo in cui le questioni legate all’immigrazione erano molto diverse da quelle attuali.
Nella prima fase siamo partiti dall’Odissea, in particolare dal V canto, dove è descritto il naufragio di Ulisse. Abbiamo chiesto ai nostri vicinə di farci avere il libro di Omero nella loro lingua madre. Abbiamo aspettato i pacchetti in arrivo da ogni parte del mondo. Sebbene alcuni si siano persi, alla fine sono arrivate tredici edizioni, corrispondenti ad altrettante lingue. La loro lettura effettuata da cittadinə dei diversi Paesi, abitanti nel quartiere, in spazi aperti, sui tetti delle case, negli spazi pubblici della zona è diventata il nucleo di una videoinstallazione.
La prima restituzione è avvenuta nella biblioteca di Crescenzago. C’è stata una connessione fra le comunità e quest’ultima che, per la prima volta, poteva disporre di un libro nella lingua dei residenti provenienti dai diversi Paesi e avviare simbolicamente acquisizioni di testi in idiomi diversi da quelli più noti.
In un secondo momento, abbiamo presentato in una mostra il progetto e i video nei negozi della via legati alle comunità di riferimento, con la presentazione della videoisnstallazione e di un libro d’artista nella galleria Assab One.”
L’interesse per la drammaturgia urbana e il materiale ricchissimo offerto dalla quotidianità intercettabile sulle strade per Francesca Marconi parte da lontano.
“Quando avevo diciassette anni, il mio primo lavoro è stato fare “l’animatrice di strada” o operatrice di strada ( riduzione del danno, prevenzione alle tossicodipendenze, disagio sociale…). Ho imparato a relazionarmi con persone apparentemente molto lontane da me. Così, se prima facevo l’animatrice di strada, ora in qualche modo faccio “l’artista di strada” lavorando su progetti di arte pubblica.
Todes è una ricerca drammaturgica sul paesaggio – visto come un corpo ed il corpo visto come un paesaggio – effettuata attraverso la registrazione audio delle riflessioni di una cinquantina di persone molto eterogenee, abitanti nel quartiere di Via Padova. Alcune di queste erano molto retoriche, altre molto razziste, altre molte illuminanti, toccanti, divertenti, drammatiche. Il materiale durava alcune ore. Ho quindi setacciato, filtrato e montato il tutto fino a realizzare un’installazione acustica, con le musiche composte da Francesco Venturi. Questo lavoro è un corpo collettivo, rappresentante il quartiere.
Ogni micro-frase confluita nel lavoro è pronunciata da una persona diversa, originariamente incontrata per strada o nei negozi, al parco Trotter. Nella fase iniziale, preparatoria, infatti uscivo alla mattina, mi portavo un libro, magari il microfono, iniziavo a chiacchierare con una signora, o una sex workers, o una mamma con bambini, un/a badante, un barista. Ci conoscevamo e se nasceva una connessione, chiedevo di dedicarmi del tempo. Abbiamo dovuto costruire relazioni, un rapporto di fiducia, di conoscenza, di scambio e piano piano sono arrivati questi audio.
Quando nasceva la fiducia mi invitavano a casa loro, o venivano da me, per lavorare insieme in uno spazio più intimo. I negozi, per la maggior parte etnici, sono stati davvero un ponte fondamentale, grazie a loro, sono riuscita a conoscere le persone.
Tutto si crea in strada. La drammaturgia si costruisce a mano a mano, facendo, ho sempre scelto così. Naturalmente, so il percorso da affrontare, so che cosa mi interessa, ma è impossibile determinare gli sviluppi. Per esempio, Todes, me lo immaginavo diverso, completamente diverso. Ero partita pensando a un lavoro iper pop, molto peruviano, grafica chicha, stile calle, di strada, dei quartieri e di barrios e invece è cambiato completamente. La musica, la grafica le ho scoperte lungo il percorso. Elementi che mi interessavano di meno hanno guardagnato invece il centro dell’attenzione.
Due gemelli italo-egiziani sono quasi diventati il punto fermo della narrazione. Chi se lo sarebbe aspettato? Non lo sapevo. Inoltre è emersa una parte ironica, profonda di donne che lavorano nel quartiere. Per me è stato interessantissimo, perché con questo genere di ricerca ti rendi conto di quanti pregiudizi hai, di quanto bisogna lavorare su aspetti colonialisti della nostra cultura che possono emergere anche dentro a chi pensa di non condividere quel genere di ideologia.
Ti rendi conto che nelle relazioni con gli altri tu dai per scontato alcune domande, o questioni. Per esempio, pensiamo che la danza sia universale. Invece non lo è. Ci sono persone che mi dicono “un vero musulmano non balla e non canta.” Anche se non tutti i musulmani la pensano così. Il gruppo di peruviani sotto casa si fanno girare fra loro la stessa bottiglia di birra sono considerati molesti. In realtà, semplicemente usano lo spazio pubblico in modo diverso da noi, stanno insieme, fa caldo e si godono una birra insieme.
Ci sono modi differenti di stare nello spazio pubblico. Per esempio nel mio cortile c’è un parcheggio privato enorme, chiuso, ma non ci può entrare nessuno. Allora, e io dico giustamente, il ristorante peruviano ha realizzato il suo déhors: fanno feste, musica dal vivo. Non mi piacciono particolarmente le loro scelte, ma mi interessa quella situazione, come mi piace vedere la gente per strada adesso, con i tavolini al posto delle macchine.
Vedere lo spazio pubblico vissuto è segno di sanità mentale, in un posto dove le architetture ospitano spuntoni per evitare lo stazionamento dei senza fissa dimora o si fanno campagne politiche per i diritti degli automobilisti. Per esempio, qui nel quartiere ci sono due giardinetti dove in passato si sono create situazioni conflittuali. La risposta ottusa e molto costosa dell’amministrazione di zona è stata recintarli perché così le persone sgradite che li frequentavano si allontanassero.
In realtà proprio le medesime stanno sedute sul muro di recinzione di uno dei due giardinetti e sui bordi di un altro non ancora recintato, poco lontano. Credo che i conflitti siano utili se si crei una forma di reciprocità, le dinamiche di soppressione o occultamento sono inutili. Emerge una dissociazione rispetto allo spazio pubblico, alle norme perché la recinzione annulla proprio l’essenza dello spazio pubblico medesimo e la sua umanità.”
Le problematiche legate allo spazio pubblico “negato”, le recinzioni in particolare, costituiscono uno dei principali nodi messi al centro dell’attenzione da parte di alcuni dei nostri ospiti e come tale sarà uno degli aspetti da valutare e considerare, mettere meglio in luce in seguito, quando inizieremo a confrontare nei dettagli le riflessioni raccolte.
(Prosegue…)