Nel proseguire i nostri dialoghi a puntate con persone che si occupano di drammaturgia urbana, da diversi punti di vista, attraverso linguaggi diversi, o modi di comunicazione ed espressione diverse, sia sul piano artistico-pratico, sia teorico, segniamo una nuova tappa. Durante questa “sosta” dedicata al confronto e alla riflessione ci occupiamo del lavoro di Francesca Marconi, visual artist particolarmente attenta ai dialoghi fra le terre di confine sociali e culturali, alla ricerca e alla sperimentazioni delle tecniche contemporanee dell’arte visiva.
Come di consueto propongo anche a Francesca di lasciare libero flusso ai pensieri rispetto alle parole della “griglia”, sempre identica, che propongo agli intervistati, così da avere in un secondo momento il materiale necessario per osservare e individuare nodi e criticità, nonché nuovi stimoli di riflessione.
Inizio dalla prima definizione, assolutamente “libera”. Nel senso che l’ospite è invitato ad esprimere le proprie opinioni senza il timore di “censure” critiche, giudizi, forme più o meno auto-inibenti di “non si dice”, “non si pensa” a proposito del termine proposto.
DRAMMATURGIA URBANA-DRAMMATURGIE URBANE
Come definiresti il concetto di drammaturgia urbana o al plurale, dammi per favore, la risposta più libera del mondo.
“È una domanda molto difficile…Rispetto al mio lavoro e come mi pongo io in relazione al mondo, alla città, alla comunità, al quartiere, alle persone, ai luoghi dove lavoro sono loro il testo, è già tutto presente. Le parole, i corpi ci sono già, da sempre sono stata interessata alla realtà e soprattutto di trovare nella realtà qualcosa che ci colleghi. Semplicemente la evidenzio facendo delle scelte: metto insieme, avvicino, associo, voci e parole, come una specie di maestra d’orchestra. Genero un qualcosa che è ottimistico, nel senso che è un pensiero verso un futuro che vorrei vedere e vivere.
Per esempio nel contesto dove vivo e lavoro tantissimo – via Padova – c’è già tutto questo mondo meticcio, c’è già il superamento di confini, prospettive, visioni. C’è un incontro, di corpi che coesistono nello stesso angolo di vicinato. Vai al primo angolo e ti trovi la donna completamente coperta con il velo e due bambini, c’è la cumpa di giovani peruviani che ascoltano musica e si passano una birra, poi c’è il macellaio egiziano, il minimarket bengalese, il bar cingalese, il ristorante cinese. Tutto nello stesso incrocio, negli stessi cinquanta metri quadri.
Semplicemente ti metti fuori, sulla strada. Mi sento superfortunata, mi sembra di essere in un film tutti i giorni. Questo quartiere è talmente pieno di vita, di storie, di estetiche…E’ ricchissimo. Secondo me, la drammaturgia urbana sono le relazioni che la città ha impresse nei luoghi, nel paesaggio, nell’umanità. Quello che faccio io è semplicemente stupirmi, essere affascinata e provare a restituire tutto questo insieme di percezioni/sensazioni. Magari con possibilità anche simboliche, nuove. Si aprono prospettive che non sono meramente documentaristiche. Nel documentario, il mio lavoro tende sempre ad aprire qualcosa di più immaginifico, poetico. Però la sua sostanza è nel presente.
Per me questo quartiere è un teatro di comunità, è una questione di corpi. Lo sarebbe anche un altro quartiere, in un altro modo, con un’altra drammaturgia. A me da sempre interessa, in modo più politico, essere, stare in questi posti di confine. Il confine mi ha sempre affascinato tantissimo perché lo reputo il luogo dove puoi vedere l’orizzonte. Il fine per me è cum-finis. Insieme, alla fine. Messi insieme. Quindi è uno spazio di mezzo dove tutto è una pratica continua, una performance infinita, di cose belle, ma anche di scontri, conflitti, di prospettive e di cortocircuiti culturali che ci possono far evolvere.
È lo spazio dove comunque si può costruire qualcosa di interessante, dove tutto è più possibile, dove sono presenti le dinamiche di movimento, scambio, trasformazione. Un luogo da cui il centro, o il resto prende, assorbe, assume. Anche sul piano culturale, o artistico, linguaggi, o mode, prendono, “rubano” da qualcosa che è sicuramente presente nell’urbano, nella periferia. Per quanto sia tutto completamente relativo, c’è sempre un sud o una periferia di qualcos’altro.
Mi sembra di essere perennemente in viaggio, nel mio lavoro, nella mia ricerca, in questo quartiere, o a Buenos Aires dove ho vissuto per alcuni anni. Lì ho lavorato con altri progetti comunitari, dal basso, c’è una grande differenza. Dove c’è più emergenza c’è anche più desiderio. Là ci sono un’energia incredibile e importantissime dinamiche di comunità, di partecipazione.”
A questo punto, dopo aver esaurito le riflessioni riguardanti il concetto di drammaturgia urbana legandola soprattutto a zone di “confine” culturale e sociale, di prodigiosa convivenza fra individui provenienti da esperienze ed educazione, contesti molto diversi, passo a chiedere a Francesca Marconi che cosa sia per lei lo spazio, come si relazioni con esso, come lo usi, che cosa le rappresenti per sé e per il suo lavoro:
“Per me lo spazio di ricerca è il “fuori”. Lo spazio di indagine è la comunità geografica, umana, che convive. Persone e luoghi per me viaggiano insieme. Gli spazi sono quelli che indago, dove lavoro, quelli vissuti dalle persone con cui lavoro. Diventano protagonisti assoluti insieme alle comunità. Sono gli spazi delle narrazioni. Anzi, anche gli spazi stessi sono narrazioni. I segni, i simboli impressi nel paesaggio sono sempre dinamici. Cambiano ovunque, ma qui, in via Padova, con tante persone diverse vedi molto di più questa trasformazione.
Tutto questo apporta al paesaggio qualcosa che lo trasforma, lo definisce, lo cambia in continuazione. Cambiano le persone, cambiano le comunità, come cambiano e si costruiscono le relazioni tra i suoi cittadini. Mi piace pensare che i luoghi, gli spazi siano soggetti narranti della storia, o della ricerca che intraprendo. Ogni spazio potrebbe essere interessante da indagare, perché ha una relazione con le persone, quindi con la sua trasformazione e con quella verso il futuro che vorremmo.
Il lavoro di Internazionale corazon è nato dall’incontro con il gruppo Sambos de Corazon, composto per lo più da ragazzi di seconda generazione, provenienti principalmente dal Perù, dalla Bolivia e che danzano danze tradizionali caporales nello spazio pubblico. Hanno un costume ricchissimo, molto particolare. Così, la mia idea è stata quello di proporre un percorso insieme ai loro coetanei del liceo artistico Caravaggio. L’idea era osservare il quartiere, raccogliere tutti i segni di questo paesaggio e provare a reimmaginare un nuovo abito tradizionale meticcio, rappresentativo di tutta la comunità.
Sull’abito sono ricamate le parole “Via Padova state of mind”, prese da una scritta su un muro di via Padova e che gli studenti hanno raccolto. Sul medesimo compaiono inoltre il termine “kebab”, il serpente che allude alla comunità bengalese, nonché il fuoco che ne ricorda lo spirito e il carattere ma anche i diversi cibi cucinati nel quartiere. Gli elementi raccolti, i colori mappati (è stata fatta una tabella cromatica) sono stati trasformati in ricami dai sarti di abiti tradizionali, nel Barrio di Alto Atacagu, a La Paz in Bolivia, origine da cui è partito il nostro racconto.
Quindi, il paesaggio ci ha restituito una drammaturgia che poi abbiamo utilizzato per costruire un immaginario simbolico per un habitus, un abito tradizionale meticcio e genderless per tutti. Ogni cittadino desideroso di indossarlo e di danzare nello spazio pubblico lo può fare. Uno può decidere di mettersi la gonna, i pantaloni, la camicia, la camicetta, la cintura, il cappello, l’elemento che vuole, o gli elementi che vuole, rimixandoli con i propri.
Continua così l’azione di “meticciamento”, presente in questa trasformazione. Le chiamo performance di cittadinanza. Le persone indossano un abito tradizionale che rappresenta una nuova forma di cittadinanza. La danza dà la possibilità di rappresentare in modi infiniti la propria identità, attraverso l’esposizione del proprio corpo. Ognuno mostra la sua identità che cambia in continuazione e si costruisce, come il paesaggio. I cittadini provengono da contesti completamente diversi per generi e stili. Ballano caporales, tip tap, danza classica, krump, hip pop, danze tradizionali bengalesi. In sostanza, c’è un po’ il mondo.
Chi vuole indossa il costume e danza in una stessa porzione di spazio pubblico, manifesta se stesso in relazione con gli altri e il paesaggio di cui fa parte. Questo per raccontarti come tutto si intreccia ed è un ricamo, costruito con diversi livelli di immaginari nei quali si rispecchia ed è rappresentato il quartiere. Ognuno diventa responsabile e esplica un atto di appartenenza.