Elena Cologni – III parte – Pubblico e Personaggi

Dopo esserci soffermati sui concetti di “drammaturgia urbana” e, specialmente, di “spazio pubblico” , in questo ultima parte delle riflessioni condotte insieme a Elena Cologni, ci dedichiamo a due altri elementi: al rapporto con lo “spettatore” e all’idea di “personaggio”, in modo separato, o nel groviglio che può nascere fra i due ruoli. Chiedo così alla nostra ospite di parlare del suo approccio con il….

….Pubblico (inteso come audience)

“Quando facevo performance ed ero io il soggetto, mi mettevo di fronte al pubblico e quest’ultimo era partecipe in termini percettivi. In Mnemonic Present, Un-folding del 2004 (presentata alla Brown University, Stati Uniti; GAMeC, Bergamo; Villa delle Rose, GAM, Bologna; Whitechapel Gallery, Londra, tra gli altri), la memorizzazione era centrale rispetto al lavoro, in rapporto alla proiezione live ritardata con uno scarto temporale. Per questo lavoro avevo progettato una performance basata sulla generazione di uno stimolo percettivo negli spettatori.

Il lavoro consisteva in una scansione temporale dei tre schermi che l’audience era chiamata a osservare, con un ritardo di 8 secondi. Nella seconda versione della performance si vedevano le immagini nei tre schermi, ma uno era una collegato ad una videocamera che indossavo. L’azione del piegare la carta delle bobine bianche di un quotidiano locale era interrotta da una fase in cui ripercorrevo a memoria le abitazioni in cui ho vissuto.

Successivamente, mi fermavo e mentre guardavo i partecipanti, interagivo con quello che facevano, li descrivevo. A quel punto, il pubblico cominciava a giocare su quello che dicevo, mi metteva alla prova facendo movimenti molto veloci, o non faceva assolutamente niente, rimaneva immobile. Quindi non potevo dire niente, non potevo descrivere alcunché se non i dettagli, inclusi quelli relativi all’abbigliamento.

Elena Cologni: Mnemonic Present, Gamec, Bergamo
Mnemonic Present, Un-Folding #3, 2005, video live installation (3 projectors + 1 live video feed+ 2 video delay video feed + 3 screens + paper + 2 trestles) Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, Bergamo, Italy

Il pubblico diventava partecipante e personaggio insieme a me. Ho realizzato una performance live intitolata The morning toilette per la Tate, quando non era esploso questo genere di opere. In quel caso, mi truccavo e lavavo, in uno dei bagni del museo e lo mandavo in live. C’erano due proiezioni mandate in tempo reale, una con me e l’altra con la mia immagine riflessa nello specchio, a mostrare  che l’immagine mancante era quella speculare di fronte al pubblico stesso.

Mi interessava il rapporto fra me e l’audience, ma quando ho capito che la mia immagine risultava troppo centrale, ho iniziato a sottrarmi a questa situazione in diversi modi. In seguito, ho avuto una reazione all’essere soggetto della performance, non sopportavo più di vedermi. Già in Autoritratto in assenza, performance per video (in occasione della mostra La polvere curata da Elio Grazioli nel 2004 per AssabOne Milano) la mia immagine era decentrata. In questa occasione, ho realizzato un autoritratto video, come dice il titolo,  mentre mi mettevo farina sulla faccia, girato da un punto di vista in cui il mio viso era accanto allo spazio della ripresa. Era realizzata su sfondo nero e si vedeva la mia mano che prendeva la farina e la usavo. Io ero spostata, fuori dal centro.

Il discorso di stare sul palcoscenico, anche se facevo performance, per me è sempre stato inconcepibile , non tanto per l’esibizione in sé, quanto per la staticità dell’audience. Quest’idea di immobilità mi disturba e ho fatto azioni diverse per smuovere questa situazione. Dal mio punto di vista, fare cose nello spazio pubblico significa porre l’attenzione su accadimenti di tutti i giorni che avvengono nello spazio pubblico e renderli più espliciti. Per questo li chiamo esercizi esperienziali.

Quello che il nostro corpo esperisce tutti i giorni, appartiene alla nostra quotidianità, non viene evidenziato nel ruolo che ha nell’evoluzione rispetto al nostro rapporto con gli altri, nel sociale. Il privato è politico, secondo una riflessione di stampo femminista, una questione di responsabilità. Tutto quello che facciamo in ambito domestico e pubblico ha un impatto sugli altri. Portare l’attenzione sulle dinamiche della vita di tutti i giorni, sul modo di porci reciproco ed evidenziarlo attraverso la scultura dialogica, mostra come la distanza fra di noi abbia un ruolo, nel modo in cui noi percepiamo l’altro.

Le persone che io chiamo facilitatori sanno che faranno esercizi e che mi interessa la loro esperienza di quel momento. Non sono audience, sono chiamati e possono contribuire, sanno che contribuiscono in modo fattiva”

Quindi diventano “personaggi” dico io, vivono di vita propria,

“Sì perché io sono esclusa, sono una specie di drammaturgo, li invito a fare alcune cose. C’è da dire che questo mi fa riflettere su cosa succede quando sono dentro con loro a fare azioni e quando invece non ci sono. È un modo completamente diverso. Uno dei lavori realizzato in residenza al dipartimento di psicologia sperimentale di Cambridge, si chiama Spa(e)cious, titolo che fa riferimento al termine specioso e spazioso, con riferimento al Presente specioso di William James, psicofilosofo ottocentesco. Si tratta di un esercizio su una piattaforma basculante, ospitante cinque persone. In quel caso, ho chiesto di fare alcune azioni, ma in alcuni momenti il modo in cui questa piattaforma reagiva agli spostamenti dei partecipanti ha reso tutte le mie richieste irrilevanti.”

Elena Cologni - Spaecious, Cambridge 2012
Elena Cologni-Spa(e)cious-2012, at Wysing Arts Centre, curated by Elionor Morgan with participants (here Becky, Elionor, Elisabeth) event of exhibition Wysing Arts Contemporary: Recollect

Invito Elena a spiegarci che genere di indicazioni desse.

“C’erano due momenti. All’inizio chiedevo ai presenti chi volesse partecipare, quindi mi trovavo in un certo senso al cospetto di un pubblico. Quest’ultimo, subito dopo, però, accettando di salire sulla piattaforma instabile, da seduto e statico diventava “personaggio”, seguendo il tuo ragionamento. A quel punto, domandavo a ciascuno di posizionarsi in modo da bilanciarsi e di dirmi quando erano pronti. C’erano dinamiche di gruppo tali per cui non era semplice realizzare la richiesta, data la precarietà di restare in equilibrio.

Nel momento in cui avevano trovato una posizione sostenibile, li rinchiudevo tutti insieme con un elastico. A quel punto li invitavo a spostarsi portando l’elastico, così si incrociavano dentro questa matassa e quindi di dirmi quando avevano trovato un’altra posizione statica che andasse bene per loro. Quando anche questa era stata realizzata, segnavo con lo scotch le posizioni che avevano sulla pedana e chiedevo di scendere.

A quel punto c’erano due riprese video, con una telecamera fissata a uno di loro e un’altra da sopra, per ottenere un effetto sulla memorizzazione dell’evento. Li invitavo, infatti, a camminare molto lentamente sullo scotch e poi a scendere. Toglievo il nastro adesivo e domandavo di farmi un disegno del percorso compiuto e di dirmi in quanti minuti l’avevano realizzato. Ciò indicava il livello di concentrazione e di memorizzazione, la soggettività della percezione temporale.

Emergevano gli scarti fra realtà e percezione individuale. Si parlava dell’illusorietà del presente e della durata, molto legata ad aspetti teorici specifici, nel momento in cui loro salivano sulla piattaforma e dovevano comunicare soprattutto con il corpo. Dirigevo quell’esperienza, ma non potevo controllarla e questo era il nodo di interesse. Il fatto di togliermi quando si crea un’esperienza tra due persone, come sta succedendo a Venezia, mi piace, perché a quel punto mi pongo come audience, osservatrice.”

Sottolineo che in questo caso l’artista si trasforma in pubblico ed Elena riprende il discorso:

“Questo continuo spostamento di posizione c’è da sempre nel mio lavoro, anche all’epoca in cui realizzavo performance e io ero la performer. Nella fase progettuale c’era l’idea di lasciare uno spazio per l’interazione dell’altro e di pensare di immedesimarmi, mettermi nella posizione dell’altro, per capire come potesse essere percepita. Si tratta di una situazione quella del desiderio di “mettersi nel posizione dell’altro” su cui ho riflettuto in termini lacaniani durante il dottorato. Anche se poi ho seguito e sviluppato più da vicino le linee di pensiero di Merlau-Ponty.

Quando ho fatto il dottorato, ho cominciato a capire i limiti della visione. Ho collocato il mio lavoro performativo dentro a una reazione alla visione, intesa come il senso più importante nell’ambito occidentale. Mi sono spostata da tutto ciò anche attraverso la performance. Il rapporto con l’audience è diventato ancora più importante, insieme agli aspetti messi in luce dal “triangolo di Kanizsa”. Nel mio dottorato ho teorizzato il concetto di fruizione del lavoro dentro la performance e la non simultaneità dello scambio che avviene in essa, attraverso riferimenti alla pittura.

Ho posto l’assenza di sincronia come possibilità, anziché come problema. Il fatto che siamo tutti nello spazio fisico dove avviene una performance in presenza, ci illude che ci sia sincronismo con l’altro. C’è, invece, sempre uno scarto spazio-temporale. Come scriveva Derrida, nel momento in cui senti quello che dico, un suono diventa una parola, passa del tempo. Cito questo perché è evocato il concetto di distanza che nel lavoro che faccio adesso è centrale. Sto lavorando su di essa nel dialogo.

Mi interessa oltrepassare questa distanza per ottenere una sincronia. Un altro aspetto che mi interessa è la reciprocità. Ho realizzato un lavoro a Castelvetrano, incentrato sulla maieutica di Danilo Dolci che in quel paese aveva lavorato dopo la seconda guerra mondiale. In questo caso, l’idea di reciprocità si traduce nella possibilità da parte di chi pone la domanda di scambiare i ruoli, nel momento in cui riceve una risposta. Infatti, la conduzione del discorso non è univoca come nella maieutica socratica, ma c’è una reciprocità fra i partecipanti al dialogo.

Elena Cologni, 'Lo Scarto', serie di laboratori, Castelvetrano (2015)
Elena Cologni, ‘Lo Scarto’, serie di laboratori, Castelvetrano (2015)

Mi piace il termine “scarto” perché contiene l’idea del superamento, ti dà la possibilità di andare “oltre”, non è solo qualcosa che rifiuti. Lo spazio fra sé e l’altro nel dialogo è quasi sempre scartato, io, invece, lo rendo centrale: su questo concetto ho condotto un lavoro di tipo laboratoriale, come quasi tutti i miei progetti, con alcuni ragazzi. Fra le varie iniziative, abbiamo realizzato una serie di sculture da mano, piccole, basate sulla posizione delle mani accostate. La persona poteva tenere  l’oggetto e andare da qualcun altro, senza parlare ed aspettare la loro reazione.

Un gruppo di lavoro formato da allievi del liceo classico e della scuola di teatro andavano a relazionarsi con altri ragazzi che si trovavano nella piazza appartenenti ad un altro ambito sociale .  Abbiamo lavorato in questo spazio pubblico per tre giorni e perciò questi frequentatori abituali sapevano che stavamo facendo attività. Alcuni non vedevano l’ora di fare parte della ricerca, erano curiosi, altri decisamente più impacciati.

Nel dialogare con i ragazzi è emersa la parola “l’ascolto”, quando ho chiesto a una ragazza che cosa servisse per comunicare. Lei ha infatti risposto: “l’ascolto”. A quel punto, le ho chiesto di ripeterlo una volta e più volte, fino a che tutti l’hanno urlato e abbiamo avuto una risposta da parte del resto della piazza, con un risultato potente.

Tendo a lavorare con gruppi piccoli, se non uno a uno, così è difficile che divengano teatrali. Mi piace la casualità dell’azione nello spazio pubblico, parte della vita quotidiana. Le parade sono assai poco interessanti, al contrario, lo sono l’intimità e la naturalezza dello scambio. In questi esempi il lavoro non diventa una performance, anche se altri mi chiedono di usare questo termine, non lo trovo rappresentativo di quello che faccio.

In un’opera per la National Portrait Gallery di Londra, intitolata Ancora cerca (1999), ho usato il circuito di sicurezza e ho pianificato il mio lavoro, in un periodo in cui stavo studiando Lacan. Ho girato per le sale con uno schema preciso dopo aver analizzato la posizione delle videocamere, quindi sono andata a riprendere dallo schermo quello che era rimasto delle registrazioni. Mi sono ritrovata a fare riprese di me stessa (otto riprese di durata analoga, dove si vede che esco da una stanza e entro in un’altra).

L’ho presentata nel 2002 come video installazione al Museo Tosio Martinengo di Brescia. Il titolo si riferiva alla mia immagine sullo schermo, ma aveva una doppia possibilità di lettura:  sia alla terza persona singolare, al mio girare per le stanze, con una rosa rossa in mano (“tu cerca!”), sia un riferimento all’audience a cui con un’imperativo si dice “cerca lei”. In particolare, questo concerne il modo di conservazione istituzionale del materiale video che in alcuni casi si mostrava mancante di alcuni fermo- immagine.

Così, quando sono andata a riprendere il materiale originario, mi rendevo conto che si vedeva il mio passaggio, ma poi sparivo come un fantasma. Questo è un lavoro che definisce proprio la mia idea della doppia posizione, dell’essere all’interno del lavoro e al contempo di vedermi dall’esterno.”

La consapevolezza espressa da Elena rispetto ai processi che legano l’artista, come drammaturgo, al di là del linguaggio scelto per esprimersi, al pubblico, la difficoltà e persino un certo “fastidio” nel vestire i panni dell’attore da parte della nostra ospite sono nodi importanti da considerare. Meritano sviluppi in articoli a parte in quanto pongono problematiche al centro anche della nostra/mia visione dei rapporti con la teatralità in generale, e con l’audience, i concetti di esibizione, finzione, maschera, in particolare.

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