La ricognizione in questa puntata e nelle due prossime riguarda il punto di vista di Elena Cologni, artista e ricercatrice italiana, residente in Inghilterra dove è Senior Research Fellow alla Cambridge School of Art, Faculty of Arts, Humanities and Social Sciences (Anglia Ruskin University).Per quanto riguarda la sua posizione lascio direttamente a lei il compito di presentarsi:
“Ho iniziato il mio dottorato alla fine degli anni 90, quando Philip Auslander ha contribuitio a definire la disciplina di perforance studies negli Stati Uniti. Il mio progetto contribuiva anche a quel contesto, ma attravero la pratica artistica come ricerca. Attualmente il mio lavoro trasdisciplinare si inserisce come fine art in Art and Design. Nel Regno Unito allora si faceva largo il contesto di Live art –Ci ho fatto parte all’inizio, il mio approccio è legato alla psicologia e alla filosofia, abbastanza concettuale, non facilmente collocabile, etichettabile. L’arte contemporanea è dove io sto.”
Come è ormai nostra (mia) usanza parto dal chiedere alla nostra interlocutrice una definizione del termine “Drammaturgia urbana” al singolare o al plurale, come meglio crede.
“Bella denominazione, mi fa un po’ paura, nel senso che mi sento abbastanza “ignorante” su quello che può significare “drammaturgia”. Il richiamo potrebbe essere a un ambito abbastanza tradizionale, in cui si indica una narrazione che viene seguita e, possibilmente, anche provata, per arrivare a una rappresentazione definita. Tutte cose che io respingo nella maniera più assoluta (risata).
Forse non del tutto. Sto scherzando. Ci sono elementi che mi interessano. L’approccio all’ambito urbano, mi appartiene assolutamente. Per quanto riguarda la narrazione, specifico che creo “partiture”, schemi, disegni, diagrammi grazie ai quali indago le possibilità di intervento nello spazio urbano e li metto a disposizione dei facilitatori, perché loro le interpretino. Quindi, esiste in questo caso un aspetto drammaturgico, visuale anziché verbale e che, poi, si traduce in movimento.
Dal punto di vista dell’aspetto urbano mi interessa l’intervento nello spazio pubblico condiviso, in quanto problematizza la sua stessa essenza di spazio pubblico. Nella mia esperienza, attraverso diversi progetti, mi sono trovata ad affrontare problemi pratici nell’intervenire nello spazio urbano.
A parte la questione attuale Covid che è complicatissima e impone limiti, la questione dello spazio pubblico e del fatto in sé che sia pubblico mi interessa molto, fin da prima del lavoro in mostra a Venezia alla Fondazione Bevilacqua La Masa, per esempio in un’opera pensata per il Museums Quartier di Vienna, nel 2016. Si tratta di un complesso architettonico con diverse piazzette al suo interno. Quando usi uno spazio all’aperto, in un ambito simile, in realtà, è come se tu realizzassi un lavoro, un evento dentro una galleria. Però c’è una percezione sfalsata, illusoria, di quello che succede e della sua connotazione.

Il punto di riferimento è Henry Lefebvre, quando parla della manipolazione dello spazio da parte delle istituzioni, della società. Se ci si riflette, anche un parco è completamente manipolato dall’istituzione città. Allo stesso modo, quando siamo in mezzo alla natura, nel mezzo del nulla, almeno in Inghilterra, ci si illude di essere in spazi assolutamente liberi, accessibili a tutti. In realtà, ci sono proprietà di privati, o statali dove non ci puoi andare per svariati motivi.
Alla fine, perciò, emerge che c’e’ un controllo assoluto di questo spazio che noi percorriamo, sia urbano, sia presunto naturale, sia rurale. Questo è un argomento che mi interessa molto ed è diventato centralissimo in questo momento della pandemia a Venezia, dove ho appena realizzato il progetto per la Fondazione Bevilacqua La Masa, curato da Gabi Scardi.”
Fra gli aspetti più interessanti che emergono nel rivolgere la domanda circa la definizione di “drammaturgia urbana” data dai nostri ospiti sono le reazioni raccolte. Sostanzialmente se ne possono individuare due: nella prima, le persone associano l’idea della drammaturgia a qualcosa di molto “vecchio”, superato, o schematico, perché probabilmente la collegano al concetto di teatro tradizionale. Reagiscono quindi in un primo momento con un netto rifiuto del termine, o con una presa di distanza.
Questo mi capita soprattutto con le persone che non hanno a che fare direttamente con il teatro e con i suoi aspetti più “esibizionistici”. Quantomeno, finora i performer e le persone che incentrano la loro attività sul teatro di ricerca non hanno avuto questo tipo di reazione: sentono il termine già come una parola “amica” e che include ogni possibile libera espressione. “Drammaturgia” in ambito urbano non significa necessariamente la presenza di un copione, né della mimesis e nemmeno di situazioni fittizie. Vuol dire semplicemente scrivere un testo, una scrittura compiuta attraverso qualunque forma di linguaggio e il testo può essere un’immagine, un gesto, un segno o un disegno.
Non solo. Si può far convivere nella propria produzione copioni veri e propri che necessitano della pratica “tradizionale” dell’arte attoriale e di uno spazio in cui collocare la rappresentazione (un teatro, o qualsiasi altro luogo) e lavori dedicati a forme di teatralità legate alla vita quotidiana.
In ogni caso, appare importante approfondire meglio la questione, chiedersi perché ci sia questa idiosincrasia verso il termine “drammaturgia”, da cosa sia determinata, a quale percorso concettuale faccia riferimento. Se tu costruisci, prepari un lavoro nello spazio pubblico, interagisci con i cittadini, in qualche modo stai facendo una drammaturgia urbana. Ora, verificare, sondare meglio la situazione dà modo di capire questa indagine e queste reazioni; il tipo di preconcetti, pregiudizi, le allergie personali verso tale termine. Posto che, in questi casi, sembra proprio che si associ questa parola a un contesto tradizionale, abusato, scontato, assai poco propositivo.
“Se questa è la reazione, vuol dire che il lavoro che stai facendo è necessario.” Mi dice Elena e mi fa molto piacere che lo pensi, mi sembra interessante far emergere i nostri modi di approcciarci a queste parole. In attesa di raccogliere ulteriori dichiarazioni da altre persone a questo proposito, passo a dedicarmi alle riflessioni concernenti lo
SPAZIO
Così chiedo a Elena di dirmi tutto quello che si sente di comunicare/condividere sullo spazio, sul suo rapporto con lo spazio, inteso come spazio urbano, domestico, o naturale, sulle modalità con le quali vorrebbe che il pubblico si rapportasse con il medesimo nelle sue opere.
“Ho fatto diversi progetti nello spazio urbano, senza necessariamente volere cercare elementi specifici in quell’ambiente. Nel senso che posso solo avanzare osservazioni “a posteriori” che mi hanno portato a capire e a rendere quest’ultimo così centrale, in tempi più recenti. Il mio interesse per lo spazio, parte dal rapporto con i luoghi in cui ho vissuto. Quando sono partita dall’Italia, a metà degli anni Novanta, alcuni aspetti sono diventati fondamentali. In particolare, la questione della memoria in relazione allo spazio, perché la distanza dal luogo di origine mi ha posto questa questione.
Si trattava di qualcosa legato soprattutto agli spazi domestici, così il rapporto fra lo spazio privato e quello pubblico-sociale è diventata una costante, sotto forma di una rete di rimandi. In un lavoro nel 2011 sviluppato nel corso di una residenza nel dipartimento di Psicologia Sperimentale a Cambridge, che ho chiamato Rockfluid, la questione fondamentale era costituita dal mio interesse per la memorizzazione nel presente e in rapporto ai luoghi. Quando ci ricordiamo un fatto e lo comunichiamo, succede qualcosa alla memoria originaria di quell’evento.

Per indagare tutto ciò, avevo invitato le persone a indicarmi luoghi legati ad accadimenti che loro avrebbero condiviso con il gruppo. Abbiamo esplorato la città di Cambridge in questo modo, prima che si affermasse la walking art come corrente.”
O piuttosto, aggiungo io, a quella che ha l’aspetto di un’epidemia, di un qualcosa che scivola sempre più verso l’intrattenimento turistico, la valorizzazione del patrimonio architettonico, o, in alcuni casi, qualcosa di molto simile al programma di animazione di un villaggio turistico. “Ho un problema con le etichette.” Precisa Elena. D’altra parte, io nutro uno spiccato fastidio verso le mode, la ripetitività, la standardizzazione e la serializzazione, la sostituzione della ricerca con quella di un prodotto che “tira”, mera trovata commerciale.
“L’idea dell’identificazione del luogo della memoria e la modalità con cui tale identificazione cambia, quando si ritorna in quello stesso ambiente, sono al centro del progetto realizzato a Cambridge” – riprende Elena – “Si inscrivono nuove memorie negli stessi luoghi, per cui si ha la possibilità utopica, addirittura di cambiare la memoria.”
Elena approfondisce la questione in un altro lavoro a Milton Keynes, new town, fondata nel 1967 a nord Ovest di Londra, nel Buckinghamshire, al fine di decongestionare la pressione abitativa sulla capitale.
“In quel caso, il lavoro intitolato Navigation diagrams mi ha dato la possibilità di avere un feedback su una città molto particolare, progettata sul modello di Los Angeles, caratterizzata da stradoni e rotonde infiniti. L’opera era composta da una serie di quattordici pedane rotonde di un metro per un metro, collocate in una piazza, parte di un evento legato alla galleria MK. Consentono movimenti diversi, in quanto alcune hanno rotelle, altre una semisfera che le fa basculare, due un cilindro che garantisce il movimento in una sola direzione.

Hanno altezze diverse, recano scritte a grafite parole riferite agli scambi con le persone e linee. Dentro quel progetto c’era la parola “trust” (fiducia) ed è un elemento che in quel contesto si riferiva a come la città si percepisse “sicura” (“safe”). Le combinazioni consentivano di giocare su questo. Torniamo, quindi, all’idea della drammaturgia a cui ci siamo riferite prima.

In questo progetto, si prevede la possibilità di combinazioni create dalle persone che spostano le pedane, ci salgono, creano frasi, oppure disegni. Posto che era collocato in una piazza fra il teatro, la galleria, i ristoranti in una zona frequentata della città, le persone, i ragazzi, i bambini, gli adulti potevano interagire con le pedane, spostarle nel dirigersi verso le loro mete. Grazie a questo lavoro conclusivo dell’interazione con quella città, mi sono resa conto del significato di “disturbo”.
In particolare, ciò è avvenuto quando è arrivato un gruppo di skateboarders. È stato meraviglioso: hanno fatto di tutto, componendo un’immagine. Io non mi ero neanche resa conto di quella possibilità di disegno…Dal punto di vista della progettazione erano state pensate a coppie, sette e sette. I segni che avevo inserito, con un’inclinazione dei raggi di un eptagono, potevo intuire che potessero essere ricostituite in una forma coerente, ma non l’avevo provata, non era alla base della mia idea.
La geometria è meravigliosa. Nel momento in cui usi un criterio, il risultato emerge in modo inaspettato, al contempo implicito rispetto al modo in cui hai organizzato il lavoro e le immagini. I ragazzi con lo skateboard hanno ricreato una stella che non avevo previsto. Ci hanno “giocato” e hanno trovato un risultato che li soddisfaceva molto. Le pedane di per sé consentono molte combinazioni.
Uno pensa a determinati criteri in fase di progettazione, però è bello mettere in gioco gli elementi che vengono così riconfigurati, riorganizzati. Lo ritengo fondamentale. Questo aspetto del lavoro da me concepito e che rimanda all’“effetto Kanizsa”, in riferimento al triangolo della psicologia dell’illusione ottica descritta a metà degli anni Cinquanta da Gaetano Kanizsa. Aspetti inconclusi di una geometria, di un disegno necessitano l’intervento dell’altro. Da sempre lavoro così, per me è un punto di riferimento fondamentale.”
L’interazione con l’altro, nello spazio, costituisce uno degli elementi cardine nel lavoro di Elena che a questo proposito aggiunge:
“Quando studiavo a Brera ho frequentato i corsi di Grazia Varisco, sulla psicologia della percezione, quegli insegnamenti sono rimasti un punto di riferimento nel mio lavoro.”
Restano ancora molti aspetti da approfondire con la nostra interlocutrice riguardanti lo spazio e così per il momento ci fermiamo qui, in attesa della prossima puntata…
(prosegue la settimana prossima)
