Elisabetta Consonni – Linee di confine – II Parte

Nel riprendere la conversazione con la coreografa Elisabetta Consonni, a proposito delle problematiche legate allo

SPAZIO

Desidero capire meglio come la medesima intervenga nella dimensione urbana, con altri esempi.

La nostra ospite fa riferimento al suo lavoro intitolato Il secondo paradosso di Zenone, un’opera “che prende le forme dei contesti in cui è collocato e del tema con cui deve dialogare”. La sua nascita è legata alla ripresa di un esperimento realizzato per un laboratorio con il collettivo Alterazioni Video a Quarto Oggiaro. Connecting Culture, responsabile dell’organizzazione di questo laboratorio, in occasione di una mostra in Triennale, chiede ai partecipanti di pensare a una proposta. Mi sono chiesta come si potesse portare le persone di Quarto Oggiaro in Triennale, due contesti urbani e sociali completamente diversi.

Il secondo paradosso di Zenone Elisabetta Consonni
Secondo Paradosso di Zenone – Elisabetta Consonni. Foto di Diego Bianchi

Mi sono riallacciata al lavoro che avevamo fatto con Alterazioni Video, incentrato sullo spazio, o meglio, sul lancio di una torta nello spazio. Infatti, eravamo tutti vestiti da astronauti. Ho pensato che l’astronauta si muove al rallentatore e ho deciso che sarei arrivata al rallentatore in Triennale da Quarto Oggiaro. Ci ho messo circa sette o otto ore, in tutto eravamo quattro astronaute. L’intuizione era divertente, ma nello spazio pubblico capisci che ha un impatto gigantesco.

Se sali su un tram al ralenti vestita da astronauta, attraversi la strada, cammini sul marciapiede sempre al rallentatore, la gente si trova davanti una situazione destabilizzante. Il risultato era potentissimo. Qualche anno dopo mi hanno chiesto di ripensare a questa intuizione attraverso un processo partecipativo, in concomitanza con un progetto urbanistico di mobilità dolce nella zona di Savona-Tortona, Solari (2016).

Il percorso è stato fatto insieme agli studenti di antropologia estetica della Bicocca, con interviste delle varie realtà, piccoli laboratori di educazione alla lentezza. Per esempio con un gruppo di signore anziane che si ritrovava al quartiere umanitaria Andavo tutti i mercoledì a prendere il tè con loro e a riflettere con loro su alcune problematiche. Si è trattato di coltivare l’ascolto, relazioni. Infine c’è stata una parata di quindici astronauti sulla pista ciclabile, al centro dell’attenzione del quartiere.” Ovvero si trattava dello spazio generatore di dissenso verso l’amministrazione, alcuni cittadini erano in disaccordo con la realizzazione del corridoio riservato ai ciclisti, poiché si sentivano “depredati” di posti auto.

Quindi un progetto simbolo della mobilità dolce aveva generato uno strascico di polemiche che anche attraverso questo intervento di coreografia urbana potesse essere attenuato. “La camminata di quindici astronauti passava sempre, attraversava il quartiere e in questo attraversamento la drammaturgia è costituita da ciò che incontri nell’attraversamento di un posto, che tema emerge e come lo affronti.” Certamente il costume da astronauta amplifica, segnala che c’è qualche cosa da guardare. Questo travestimento inoltre permette di evidenziare la presenza aliena, di un visitatore che proviene da un altro mondo.

“Questo è emerso molto quando l’ho ripetuto nel contesto di un festival di cinema in Abruzzo e i territori erano i paesini di una valle, di un’area interna. Vedere un astronauta in un paese di 150 abitanti era bizzarro, così come passare attraverso spazi naturali da parte nostra. Questo è emerso dalla documentazione fotografica di Diego Bianchi. L’idea di abitare dei contesti non antropizzati e di attraversarli con la meraviglia di una persona che sta scoprendo un nuovo mondo è un tema delineatosi spontaneamente dalla documentazione visiva realizzata dalle immagini di Diego.

Sempre per restare nell’ambito delle riflessioni sullo spazio, chiedo a Elisabetta di parlare di un suo lavoro intitolato Plutone.

“È il mio lavoro preferito. È il più semplice di tutti ed è un lavoro che porto avanti da tantissimo tempo. Gli sono molto affezionata. Si tratta di un dispositivo coreografico semplice e complesso, dipende da me e dalle persone che sono dentro. In Plutone c’è tantissimo della potenza delle relazioni e dello “spazio tra”. Tutto consiste nel modo in cui le performer si avvicinano, nel modo in cui riescono a curare l’arrivo al contatto. La danza è portata a quel livello minimo lì.

Lo spazio è definito da traiettorie e ognuno è portato a percorrere la propria orbita, ma nel mantenerla c’è la possibilità dell’incontro con gli altri. La ricerca ha riguardato “il come incontro questi altri” come posso avvicinarmi senza scontrarmi, che tipo di evoluzioni nascono dal condividere un’orbita, condividere una forza centripeta o centrifuga, condividere un centro. Parliamo di un lavoro che ho sempre tenuto in spazi convenzionali.

Per quanto si potrebbe improvvisare per giorni sul pattern, su questo dispositivo largo, ad un certo punto per creare un oggetto performativo l’ho scritto, così da escludere milioni di possibilità evolutive del dispositivo. Io sono in contatto con il gruppo “Workshop Ricerca X che si occupa di ricerca artistica e drammaturgia legata alla coreografia e agli studi performativi, si viene coinvolti attraverso call, inviti rivolti agli artisti sui processi di creazione.

Elisabetta Consonni-Secondo paradosso di Zenone
Elisabetta Consonni: Secondo paradosso di Zenone. Fotografia di Lodovico.

Quest’anno con loro ho avuto il tempo di guardare tutti i miei lavori e andare più in profondità nella traiettoria artistica. È stato proprio il dramaturg Bart Van den Eynde che mi ha chiesto perché lo lasciassi solo sottoforma di performance negli spazi convenzionali e non lo rendessi invece una pratica partecipativa. Così adesso ai Cantieri Culturali Isolotto, faremo un laboratorio in cui si ritorna sui passi della pratica di Plutone cercando di capire quale tipo di pensiero, di conoscenza, una pratica del genere può produrre.

Immagino che Bart porterà anche le sue competenze, posto che oltre a essere dramaturg ha fatto un master in gestione del conflitto che, in Plutone, è un elemento fortissimo. Tu vai sulla tua traiettoria e puoi scontrarti, o incontrarti con le altre persone. Quindi sarà fare esplodere il lavoro che è stato già fatto e approfondirlo. Si chiamerà Plutone esploso. Questa scelta è necessaria anche per cercare di fare dialogare il lavoro con uno spazio pubblico, aperto, così da lasciare che la pratica sia sperimentata anche da persone che non siano danzatori.”

Analizzato il nodo inerente il rapporto con lo spazio dal punto di vista di Elisabetta Consonni, passiamo a considerare quello con il…

PUBBLICO

In particolare desidero sapere che rapporto ha la nostra ospite con lo spettatore che non è poi tanto spettatore, perché dagli esempi descritti, il medesimo partecipa attivamente.

“Ci tengo molto a far sì che il pubblico sia estremamente agganciato a quello che faccio. Non so se sia un bene o un male, però è una riflessione che faccio sempre. Tenere agganciato un pubblico ad una performance in uno spazio convenzionale penso sia più difficile, e lavori come Plutone e “And the color” ci tengo sempre a immedesimarmi in chi vede per capire qual è la traiettoria della motivazione e dell’attenzione, della fruizione. Non so se sia un’operazione utopica.

Sono appassionatissima di Plutone, quando lo vedo mi galvanizzo. Non so cosa provino loro, immagino che ci sia un’ipnosi, mi piace pensare questo lavoro come un incantesimo collettivo temporaneo. Nei lavori per uno spazio pubblico, invece il pubblico è super-attivo. Devono muoversi tutti affinché succeda qualcosa. I lavori che ho fatto sono attraversamenti, percorsi, quindi già in sé sono attivi. Cerco di creare le condizioni perché i partecipanti facciano un’esperienza radicale. In Ti voglio un bene pubblico devono azionare il gioco, aprire i cancelli, chiuderli, ricordarsi dove hanno messo la chiave, cercare l’indizio.

In Ti voglio un bene pubblico realizzato a Gorizia avevo coinvolto un gruppo che poco prima che arrivassi, aveva fatto una manifestazione contro la proposta avanzata dal governatore del Friuli, di creare un muro anti migranti. Dove c’era il confine, queste persone avevano creato un muro di cartoni che poi abbattevano. Loro ci tenevano tanto a che la loro azione entrasse dentro il progetto Ti voglio un bene pubblico, quindi ho colto la loro richiesta e abbiamo creato questo muro, per giocare a pallavolo.

Capita sempre che in questo lavoro usi un muro per giocare. Non tanto a pallavolo, quanto a dieci passaggi con una palla gigante. La squadra che gioca dall’altra parte non sa dov’è il campo. Sono campi sfalsati, quindi questo ti fa capire come devi immaginarti quello che sta al di là e come adattarti.” Si tratta di un lavoro dove l’empatia di fatto è al centro dell’attenzione, posto che bisogna capire come stanno di là e servire a questo passaggio dall’altra parte. Devi essere particolarmente percettivo, drizzare tanto le antenne per immaginare che cosa sta capitando al di là del muro. “Sì e devi cercare, immaginare che cosa c’è di là, le strategie di gioco quando manca la visibilità, come nella considerazione di George Perec: “dato un muro che cosa c’è dietro?”.

Elisabetta Consonni - Ti voglio un bene pubblico
Elisabetta Consonni: Ti voglio un bene pubblico. Foto di Lenardi

Mi ricordo una recensione per Abbastanza spazio per le più tenere delle attenzioni, dove si parlava di “pubblico attivissimo” e questo mi è sembrato un grande complimento. Rendere attivo chi guarda, chi esperisce è proprio quello che cerco di fare, però sempre con un’attenzione di cura, non mi piace mettere in brutte condizioni il pubblico. Quello che ho fatto per esempio in Ti voglio un bene pubblico è immaginare come un gruppo di venti persone possano reagire a una cosa.

C’è un dialogo con le persone che lavorano con me, in questo caso Sara Castellani e c’è un dibattito continuo su come il pubblico potrebbe reagire o no se lo metti in una certa condizione per attraversare un prato, se può essere una cosa positiva o meno. Non mi piace sfidare il pubblico, non fa parte della mia ricerca.” Chiedo quindi se i partecipanti devono intrecciare relazioni fra di loro, creare un gruppo, per sopravvivere, coalizzarsi per trovare una soluzione.

“Non sempre succede e questo non mi è dato controllarlo. Per esempio quando l’ho fatto a Milano, su tre repliche, in un caso c’erano persone che non avevano voglia di “fare gruppo”, questo si è sentito. Basta una persona che non abbia voglia. Sono questioni di dinamiche di gruppo.”

Mi viene la curiosità di sapere, posta la scelta di proporre lo stesso lavoro in luoghi diversi, se ci siano state reazioni anche diverse a livello culturale. Chiedo per esempio se a Milano i partecipanti siano più o meno disposti a fare gruppo rispetto ad altre città, o in provincia. Se abbia potuto capire se ci sono inclinazioni più legate all’ambiente urbano, alla competizione, oppure no.

“Non lo so. Il lavoro è sempre inserito in festival di arti performative, a questi festival ci vanno per la maggior parte artisti e addetti ai lavori. Un artista si diverte. Per esempio, artisti che vengono con gruppi di amici e si conoscono fra di loro si divertono. Chi si avvicina in modo estremamente critico, da ispettore, si dimentica che si tratta di un’esperienza da vivere. Piuttosto questa differenza che riguarda i vari contesti sociali nelle città, lo vedo non tanto per il pubblico, quanto sulla possibilità di entrare in alcuni spazi. Questo è un elemento che si sente in modo forte. Dove c’è ricchezza c’è molta meno accessibilità agli spazi privati.”

Dalle reazioni più o meno destabilizzate dei cittadini di fronte alle proposte di aprire i cancelli, ovvero di lasciare esplorare il proprio spazio “privato” da estranei, per quanto ben intenzionati, emergono le diffidenze non solo legate al terrore di assalti di rapinatori, ma anche da proposte che esulano dalle abituali e convenzionali aspettative legate al concetto di teatro, rappresentazione, danza, teatralità e pratica artistica in genere. All’ambiguità tipica dei lavori legati alla drammaturgia urbana e alle reazioni altrettanto ambigue generate nei fruitori, possiamo aggiungere le riflessioni legate al concetto di

PERSONAGGI

Così chiedo a Elisabetta Consonni che cosa le faccia venire in mente il termine “personaggio”, che cosa siano per lei, oppure che invece possa anche non esserci. Anche in questo caso, come è capitato già in altri contesti la prima risposta non è detto sia davvero quella che conta….

“Una questione che sento lontanissima da me.” Risponde. Una risposta in apparenza che ci si può aspettare, perché questa ospite lavora con le persone e di conseguenza sembrerebbe inutile o quanto meno estraneo il concetto di personaggio. “Siamo sicuri?” Mi chiedo dentro di me….

Elisabetta Consonni-Plutone
Elisabetta Consonni: Plutone. Fotografia di B. Arenella

“Nel lavoro coreografico che faccio, la coreografia si crea per effetto, cioè un effetto di qualcosa. Più che sui personaggi lavoro sugli stati, tipo in Plutone. Devi continuare a girare, devi girare in verticale, in orizzontale, in contatto con qualcuno. Quel che si deve creare appunto è uno stato, a volta neanche piacevole. Nelle ultime prove di Plutone la gente vomitava perché se continui a girare e a rotolare vomiti. Il corpo si deve completamente destrutturare da qualsiasi impalcatura che si presenta all’esterno, ancorarsi a una presenza così com’è, a una verità, anche se la parola verità è una parola che non mi piace tanto.”

Con il secondo lavoro a cui si riferisce iniziano però a emergere interessanti contraddizioni interne… “In ti Voglio un bene pubblico non ci sono performer. O meglio ci sono ma non si vedono.” Spiega la coreografa. “Perché ci sono finti passanti per strada, e finti partecipanti al gioco che sono quelli che permettono al gioco di continuare.” Eccoci al punto. In realtà, il personaggio è saltato fuori nel modo più inaspettato….Si tratta infatti di particolari categorie di personaggi

“Eh sì”, ammette Elisabetta. “Pseudo-personaggi?” chiedo io. “Personaggi che fanno il ruolo di persone.” La questione diventa parecchio interessante e soprattutto siamo arrivati al centro del problema. O piuttosto della problematica tipica della drammaturgia urbana, quando si coinvolgono persone parte di una finzione, scelte apposta per stare lì

“E per far funzionare il gioco.” Prosegue Elisabetta “Perché io devo inserire qualcuno, perché se c’è un intoppo ci deve essere qualcuno che deve fare andare avanti il gioco, controllare la sua azione.”

Si tratta quindi di un gioco “controllato” dall’interno dalla progettista-coreografa, con persone che hanno un ruolo “mimetico”, come infiltrati. “Hanno il compito di controllare, perché in realtà non vedo il gioco” spiega, “Lo faccio partire, appaio a volte, e alla fine. Basta. Mi affido ad alcune persone, c’è gente che ha lavorato con me ed è infiltrata.

A Bergamo, per esempio, abbiamo fatto un laboratorio con alcuni ragazzi che faranno apparizioni durante il lavoro. Quando i percorsi sono lunghi, onde evitare che il pubblico si stanchi di camminare, loro appaiono, fanno attraversamenti, un concerto sui cancelli usati come strumento percussivo, abbiamo chiamato una scuola di danza classica che fa la sbarra sulla sbarra del carcere. Se vuoi chiamarli personaggi, sono apparizioni, ma fanno loro stessi.”

Attenzione, attenzione dico io: Fanno loro stessi. Questo è interessante perché è molto ambiguo, perché non sai dove inizia il personaggio e dove finisce. “Sì, esatto” risponde Elisabetta.

In conclusione del dialogo chiedo quali siano i pensatori, gli studiosi di riferimento, i libri che hanno suggerito, stimolato eventualmente il suo lavoro, in linea generale. “Penso che ogni lavoro abbia una fonte di ispirazione teorica. Mi piace leggere cose interessanti e ci tengo a tradurre questo in una ricerca pratica. Per me la ricerca non è leggere la teoria, ma è una pratica sul campo.”

Chiedo se ci siano stati libri che abbiano scosso in profondità il modo di pensare “Chi mi ha fatto questo effetto e ha determinato che capissi di avere interesse a portare avanti la coreografia nello spazio pubblico e pensare alla coreografia come strumento per relazionarmi allo spazio pubblico è Giancarlo De Carlo (architetto e urbanista), rispetto al concetto di partecipazione dei cittadini.”

Al termine dell’intervista e dopo aver riflettuto su quanto ho ascoltato e riletto, provvisoriamente mi appunto un paio di spunti che per ora metto da parte in attesa di farli confluire insieme a tutti gli elementi che indicano, sollevano “criticità” da sviluppare, contraddizioni interne, conflitti, insomma quello che sembra indicare un terreno mobile e potenzialmente fertile per ulteriori approfondimenti, da condividere.

Il primo riguarda il fatto che il concetto di personaggio e l’uso del termine crea qualche problema agli artisti che si occupano di collocare i loro lavori nello spazio urbano.  Quali sono i confini fra persone e personaggi non è così chiaro dall’inizio. O meglio, quali sono gli elementi che determinano un personaggio in una situazione in cui si ha a che fare con le persone, i cittadini? (e qui, personalmente non posso fare a meno di continuare a pensare al complesso lavoro inaugurato da E. Goffman).

Il secondo è il fatto che la nostra ospite dichiara di essere affezionata al suo lavoro Plutone che considera il suo preferito. Si tratta di un’opera ambientata in uno spazio teatrale “tradizionale”, non in uno spazio pubblico. Mi piacerebbe meglio capire, quindi, in linea generale quali sono le ragioni (più o meno misteriose) che inducono le persone a lavorare negli spazi pubblici.

Elisabetta Consonni - Plutone
Elisabeetta Consonni: “Plutone”. Fotografia di Macek Rusak

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