La conversazione con Cinzia Delorenzi, coreografa, ricercatrice, danzatrice prosegue con la condivisione di riflessioni attorno al concetto di Personaggi e di Pubblico, sebbene nella fase attuale di lavoro, la finzione e il contatto con il pubblico siano o sembrino estranei alle pratiche della nostra interlocutrice. Di certo, attraverso questa ricerca emergono, in modo sorprendente, aspetti molto particolari, problematici del percorso creativo e del rapporto con chi guarda, osserva, fruisce un prodotto artistico.
Tutto questo è interessante perché l’osservatore è obbligato a immaginare, pensare, farsi domande, proprio sul concetto di creazione in sé, oltre che su quello di iperproduttività mediatica, determinata dalle invasioni di immagini che ci circondano.
….PERSONAGGI
“Il personaggio è una creatura particolare che provoca un piccolo shock”, dice Cinzia. Un’affermazione che, di per sé, destabilizza. “È qualcosa che nello spazio urbano si stacca dal contesto e porta altri piani di lettura” In particolare si riferisce a Io sono qui, atto unico realizzato per Danae Festival nel 2008 lungo il corso Garibaldi (performance realizzata con Matteo Bologna, Marta Lucchini, Eleonora Parrello, Valentina Sordo, Veronique Turri- si, Silvia Zerbeloni, Marina Rossi, Lucia La polla, Marilena Crosato, Valentina Fariello, Da- vide Fior,Barbara Forte, Rosa Lanzaro, Barbara Nevano, Camilla Voegeli). “Mi sono molto scostata in questo caso dal linguaggio della danza. Si è trattato di una performance visionaria, itinerante, composta da sette quadri o stazioni. Un percorso site-specific, in sette tappe fra alberi, carreggiate, slarghi, sagrati di chiese, vetrine dei negozi. Ho cercato più punti di vista da cui guardare la via e instaurare una relazione che intrecciasse la vita dei luoghi, la scrittura ed il pubblico.
Nel primo decennio del nuovo millennio eravamo nel pieno dell’esperienza della danza urbana (Festival Danza Urbana di Bologna ) e c’era una forte connotazione del costume, del travesti. Per quanto mi riguarda, era un momento in cui stavo utilizzando delle maschere di animali che alimentava un immaginario zoomorfo. Tutto era iniziato con due performance per il gruppo Care estinte delle quali una, Body stop, sulla banchina del tram di corso Magenta.”
A questo punto Cinzia racconta i dettagli di quello che a tutti gli effetti prende le forme di un presepe pop al quale partecipano molti strani personaggi e che, fatalmente, si sovrappone con la realtà drammatica di un giorno particolare. “Il giorno dell’azione, la mattina aveva avuto luogo il funerale dell’artista Pippa Bacca. Quando abbiamo cominciato c’era la televisione turca in diretta, alla quale si è aggiunta l’inizio di una funzione religiosa nella chiesa di San Simpliciano, con la partecipazione di molti anziani. C’era un flusso di persone che entravano e uscivano dalla chiesa”.
La performance Io sono qui prende forma un po’ come una festa patronale e un pò come dramma a stazioni. Sul marciapiede, sotto un albero, una pastora inginocchiata e una performer vestita da pecora sembrano usciti da un presepe vivente. Appollaiata sull’albero, una madonna vestita di azzurro. Un’apparizione in piena regola. Il suono di una chitarra amplificata spinge la folla in avanti, di fronte a un negozio di arredamenti. Avviene un primo momento di danza: tre donne e un uomo raccontano una storia di nostalgia, passandosi di mano in mano un cuore di velluto porpora venato d’oro, simbolo pop e cristiano allo stesso tempo.
Sul sagrato della chiesa di San Simpliciano un tenore con parrucca nera e occhiali da sole officia il matrimonio tra un uomo-orso e una donna-coniglio, cantando “Eja Mater” di Pergolesi. Nonostante le grottesche pecorelle che fanno da sfondo all’evento, sembra un matrimonio in piena regola: sotto le note di una canzone di De Andrè, la folla invade anche la strada, ferma il traffico, ride. Si forma un corteo che accompagna l’improbabile coppia fino all’ingresso di una nota galleria d’arte. Dietro le vetrine, i danzatori con il cuore di velluto, sullo sfondo la chitarra dal vivo di Dario Buccino.
Da un camioncino bianco escono tre donne-foche e la madonna della prima apparizione ora vestita in stile punk. Questa attacca a cantare due pezzi a metà tra il punk demenziale e hard rock, con la coreografia delle donne-foca e un bodyguard scozzese. Al civico 73: l’uomo-orso e la donna-coniglio continuano i festeggiamenti cantando e stonando una canzone in un karaoke, presto disturbati da urla che provengono dalla strada. In un grande slargo i quattro performer danzano coinvolgendo nella loro azione un albero, posto in un’aiuola, mentre si aggiungono la donna pastore, la donna pecora della prima stazione e improbabili figure già presenti al matrimonio.
Siamo ormai alla conclusione. Il corteo grottesco dei performer mascherati si infila nella galleria dell’hotel Ritter. La folla viene scaglionata, come pecore al pascolo, dalla pastora, tra richiami e colpi di bastone in terra. Una natività in piena regola: ci sono i pastori, san Giuseppe, il bambino e la Madonna: peccato che stia suonando una chitarra elettrica giocattolo. La folla viene richiamata sul corso da una splendida versione di Wish you were (Pink Floyd) suonata e cantata da Dario Buccino per un momento corale di saluti.
In questo lavoro i personaggi erano presenti sulla strada come creature oniriche, strane allucinazioni che irrompevano nel traffico urbano.
TAKE THIS WALTZ mette in evidenza quanto siano sottili i confini fra le diverse dimensioni e funzioni degli elementi, nel contesto della drammaturgia urbana. “In questo caso non ci sono personaggi, ma persone eppure, la dimensione in cui recepisco questo racconto durante l’intervista, mi spinge a inserirlo nel paragrafo dedicato ai personaggi. Avrei potuto metterlo anche nello spazio riservato al pubblico e avrebbe avuto altrettanto senso. In questo caso i protagonisti dell’azione sono persone-personaggi, persone che da pubblico si trasformano in personaggi, passano “dall’altra parte”, nel rito collettivo della danza, nella dimensione della piazza cittadina.
Cinzia racconta il processo di preparazione molto complesso di questo lavoro, un progetto della compagnia Cinzia Delorenzi con i ballerini del Ballo Ambrosiano del circolo Arci Corvetto, il pubblico e i performer della comunità artistica danzante milanese. “Il festival Danae mi ha chiesto di immaginare un’azione nel contesto urbano. Ho pensato a un rito intergenerazionale collettivo in piazza, realizzato attraverso il ballo. Quindi c’è stato un momento in cui abbiamo esplorato i circoli milanesi per cercare persone anziane che ballassero il liscio. Finché siamo approdati al circolo Arci Corvetto che ospitava la comunità del ballo ambrosiano, sotto la direzione di Linda Ruotto. Il ballo ambrosiano è un’antica, particolare forma di liscio con sue proprie regole. Il repertorio musicale, legato a una specifica e riconosciuta pratica coreutica reinterpreta i tradizionali balli d’élite, come il valzer, la polka e la mazurca, in chiave popolare servendosi di strumenti quali l’organino a mantice e il pianino.
Quindi ci siamo impegnati per due mesi in un patto con loro: frequentare ogni sabato la pista da ballo per imparare, in cambio, forse, di un ballo insieme in piazza San Lorenzo ad una certa data. In questa impresa abbiamo dovuto unire le forze partecipando non solo come compagnia ma coinvolgendo la comunità di amici e colleghi danzatori e tutto lo staff organizzativo di Danae Festival. Strada facendo, abbiamo scoperto che la relazione tra diverse generazioni non era scontata e che andava costruita nel tempo. Avevamo ritmi differenti da sincronizzare e modi di vestirsi, schemi di comportamento che andavano armonizzati con l’atmosfera del circolo. Mi sono accorta che non avevo preso in considerazione molte cose.
Nel 2011, incontravamo una generazione che allora aveva tra gli ottanta e i novant’anni. Le ragazze hanno dovuto iniziare a cambiare il loro abbigliamento: ci siamo presentati con anfibi, scarpe basse, pantaloni larghi, spettinati, mentre loro avevano acconciature, vestiti eleganti se non lunghi. Ti guardavi attorno e capivi che dovevi adeguarti ai codici, gli accostamenti tra noi e loro erano molto belli. Molto interessante vedere le posture antiche, molto eleganti, una verticalità d’altri tempi.
Noi, benché più giovani, eravamo al confronto come “sformati”, come se avessimo perso anche la nozione del passo, avevamo meno il senso dell’eleganza. Inoltre in quel contesto l’uomo invita e conduce la donna. Per cui le ragazze venivano invitate dagli anziani esperti e questo non permetteva ai ragazzi di imparare. Abbiamo dovuto passare oltre le nostre questioni di genere. Poi le signore hanno preso in mano la situazione ed hanno iniziato ad invitare i ragazzi. C’erano diversi tipi di balli e situazioni corali. Uscivamo nutriti e divertiti da queste antiche gestualità e posture d’altri tempi.
Eravamo seduti a piccoli gruppi, ai tavoli del circolo a bere, a mangiare spuma e patatine. Poi è arrivato il momento in cui i ragazzi hanno iniziato ad invitarci e abbiamo iniziato a provare insieme. Pian piano si migliorava. La relazione si era costruita. Più ci avvicinavamo all’evento, più mi rendevo conto che non era affatto scontato che i ballerini del circolo si presentassero il giorno dell’evento in piazza. Avevamo lavorato per due mesi ai fini di un atto unico, spontaneo, senza una garanzia, perché fino all’ultimo non sapevamo se nel giorno stabilito sarebbero venuti davvero. Dopo due mesi di preparazione ci trovavamo di fronte a grosse incognite. E’ stato un accordo sulla parola.
Il giorno dell’azione abbiamo preparato il luogo, la piazza, con le sedie disposte in circolo, l’apertura di uno spazio nella curia della chiesa di San Lorenzo per il guardaroba e i bagni. L’appuntamento era verso le 14.30 e a quell’ora ho visto arrivare Linda e in modo scaglionato, anche tutti gli altri. La piazza si è riempita, ha inglobato tutti i vari gruppetti di giovani ignari, seduti sui muretti sotto le colonne di San Lorenzo. Questi ultimi prima hanno incominciato a ridere, poi alcuni sono entrati nel “gioco”.
Claudio Merli, cantante di liscio ambrosiano ha cantato per l’occasione. Ci siamo divertiti tantissimo, c’era molta gente, un grande assembramento, la sensazione di vivere una situazione che si stava creando da sé: miracolo e bellezza. Ho provato molta gratitudine verso tutti, verso il nostro mestiere artistico, verso quell’attitudine ad affidarsi al vuoto e alle forze che si mettono in campo con sincerità.”
Persone-personaggi convivono sul filo del rasoio, in uno spazio pubblico soprattutto, poiché ogni essere umano che si senta “osservato” diventa potenzialmente un attore, attua una serie di schemi protettivi, indossa una maschera sociale, problematiche messe ampiamente in evidenza da Goffman nel suo fondamentale libro La vita quotidiana come rappresentazione.
PUBBLICO
“Il pubblico contribuisce all’apparizione, alla natività.” Esclama Cinzia Delorenzi appena le chiedo di dirmi qualcosa riguardo alla sua idea di pubblico. “Le esperienze sono molto diverse. Se ora vado in mezzo ai boschi, non significa che rinnego l’incontro con il pubblico o che non l’abbia amato. Il pubblico nel caso della drammaturgia urbana entra a far parte della scrittura e permette con il suo sguardo la manifestazione, la rivelazione dell’ accadimento.
Durante il mio percorso c’è stato un passaggio dall’eredità del passato, legato al regime della rappresentazione, alla nozione di pubblico come fruitore di un prodotto. Quindi un pubblico separato da me, del quale temevo il giudizio e la conseguenza di una ripercussione fisico- emotiva. Poi c’è stata una graduale trasformazione nel cercare la relazione, la connessione con una parte, più nascosta, che mi accomuna in quanto parte del vivente, non separato da chi mi guarda. Cercare l’identità comune con le persone presenti, immanente, nel caos e nel cosmo.
Quindi lo “stare in scena” è diventata l’esperienza della porosità dei nostri confini che mi ha fatto crescere nel tentativo di restare in piedi e di continuare a cercarmi, interrogando il vuoto. Un grande allenamento alla presenza mai risolto, mai concluso. Come spettatore non è mai facile, vieni investito da un campo di forze. Non tutto il significato di ciò che vedi viene compreso dalla mente, ma captato da parti inconsce e dal corpo, immerso tra corpi presenti nell’accadimento. Come performer a volte qualcosa di inatteso si compie nell’abbandono al rigore di una partitura.
La presenza degli altri è fondamentale. Penso che la presenza del pubblico mi abbia aiutato a ritrovarmi. Anche lo stare “in scena” può essere visto come una pratica interiore, così come l’atto del creare quando non è destinato alla fretta di diventare un prodotto. Il rapporto che abbiamo con le immagini, ultimamente mostra una sovrapproduzione. Di pari passo forse dovremmo cercare di bilanciare recuperando la capacità di prendere contatto con l’immagine interiore, con la propria immagine interna.”
Gli ultimi lavori di Cinzia non sono “visibili”, o piuttosto sono visibili solo da lei, registrati da una videocamera, o da un gruppo ristrettissimo di persone che al contempo partecipano al laboratorio e guardano il lavoro degli altri componenti. Sono quindi attori e pubblico nello stesso momento.
Si tratta di una creazione senza uno spettatore “tradizionalmente inteso” che pone problematiche complesse dal punto di vista concettuale. Il fatto di escludere volutamente il pubblico, inteso come “massa” o, quantomeno, come “numero consistente” di individui, non impedisce la creazione di un prodotto artistico. Costringe a porsi una serie (pressoché infinita) di domande, una volta informati delle intenzioni, delle scelte di un simile progetto: si crea per sé o per il pubblico? perché stai fa- cendo questa scelta? Perché stai creando? Che motivazioni ti spingono? A chi ti rivolgi? Stai esplorando una cosa che interessa a te, stai esplorando una cosa che vuoi condividere con qualcun altro, stai esplorando un qualcosa che “tira” che è l’argomento del momento? Quest’ultimo aspetto implica una questione legata all’autenticità personale di chi produce, alla sincerità di chi sta creando.
Le azioni solitarie, o per pochi fortunati, nelle quali Cinzia è impegnata al momento sono gioielli segreti custoditi in uno scrigno. Possono essere nascosti per sempre, o rivelati in pubblico a un certo punto. In ogni caso si crea un senso di attesa e lo si sollecita nello spettatore. La concentrazione nel scendere sott’acqua, il cercare il contatto con la sabbia acquistano una potenza straordinaria perché sono atti nascosti. Nel momento in cui non posso essere uno spettatore, sono “escluso” dalla visione, dalla partecipazione sono costretto a immaginare quello che mi stai raccontando.
L’azione acquista per questo una forza incredibile, come accade per tutte le cose “proibite”, nascoste, oltre a implicare un notevole sforzo immaginifico-creativo. Nel senso che ti domandi in che cosa consisterà mai questo lavoro. Uno sviluppo inatteso e sorprendente rispetto al ruolo dello spettatore, il partner di ogni artista legato alla teatralità, abituato a “farsi guardare” per “esistere” in quanto tale (sia attore, danzatore, cantante, musicista). Al di là del fatto che lo spettatore ha anche un ruolo di “mecenate”, o quantomeno di sostenitore economico. Sganciarsi dallo spettatore, implica scegliere nuove possibilità, nuove strade al di fuori delle logiche abituali, più scontate di retribuzione, nel momento in cui ridiscutere il modo stesso di fare teatro è ormai più che prioritario.