Cinzia Delorenzi, coreografa e danzatrice, svolge la sua attività di ricerca e formazione attraverso il corpo, in stretto contatto con l’ambiente e gli elementi naturali. Nel periodo compreso fra il 2007 e il 2013 come coreografa si è particolarmente interessata a lavori collocati negli spazi urbani e, più in generale, nella dimensione extrateatrale, nei diversi contesti ai quali ha partecipato (Danae Festival, Armunia Festival, Polverigi-in teatro, fra gli altri), in ambiti diversi accomunati da una forte impronta di sperimentazione.
In rapporto a questa attività abbiamo pensato di raccogliere le riflessioni di Cinzia a proposito dei punti chiave attorno ai quali stiamo conducendo la nostra ricerca sulla teatralità fuori dal teatro. In particolare, l’attenzione si concentra sulla definizione del concetto di “drammaturgia urbana”, il rapporto con lo spazio nella realizzazione del proprio lavoro, quello con il pubblico e il concetto di “trama” inteso come intreccio di storie e al contempo di relazioni.
Drammaturgia Urbana
“Quando parliamo di drammaturgia urbana penso a una scrittura. La scrittura come partitura, flebile, ma tenace e persistente, che resiste, come l’albero che cresce in mezzo al traffico, in mezzo ai flussi scavati dall’abitudine e dai ritmi delle attività umane. Partitura che rimane porosa, sensitiva, accogliente senza perdere la direzione, in un tempo infinito.
Mentre ti parlo mi sto riferendo allo spazio abitato e metropolitano, anche se ho agito in spazi diversi. E comunque, la dimensione dell’aperto, in generale, rimanda a molteplici punti di vista e interpretazioni. Si attivano infiniti percorsi percettivi, tanti quanti sono gli osservatori, occasionali e non. Ogni luogo poi ha la sua anima da incontrare, che spesso si rivela in spazi della memoria e persone situate nella marginalità. Il tessuto di una città è complesso, intrecciato al vivente e al non vivente, come nella natura.”
Penso ad una “scrittura aperta…”
Ma ciò che precede questa scrittura aperta è l’esperienza dell’ascolto. Vado per conoscere, non per sapere, ma per incontrare. Nella mia esperienza di creazione in ambiente urbano, cerco di sintonizzarmi con lo spazio facendo esperienza del tempo, nel senso che fisicamente scelgo di stare molto tempo ad osservare. Così sono nate le prime mappe che mi orientavano, fatte di attese, gestualità, attrazioni verso luoghi situati in alto, sotto, visibili o nascosti e flussi, abitudini, incontri, presenze, sogni, visioni……
Nel caso di queste mie esperienze, la drammaturgia in urbano, nasce incontrando, emerge e poi scompare nell’esistente ed entra a far parte della memoria del luogo. Parte dal guardare, in una dimensione fondamentale di co-creazione, con i performer e il pubblico che diventa parte integrante, innesco e attivazione dell’accadimento.
Cinzia spiega che la scrittura riferita alla drammaturgia urbana, per lei significa quindi scegliere la complessità, rispetto all’immagine parcellizzata. “Scegli di fare parte del tutto, nella consapevolezza delle potenziali, infinite, possibili scritture che continuano ad accadere. Ci sono cose poi che restano nascoste. Qualcuno non le vedrà, altri, invece, se ne accorgeranno. Perché, per esempio, spesso si arriva a piedi da lontano nello spazio oppure ci sono azioni o figure che nascono senza voler attirare attenzione. Nella vita esistiamo anche grazie a cose che non vediamo e così la scrittura non si impone , fa spazio, sostiene l’esistente.”
Dopo aver raccolto i pensieri e gli spunti che Cinzia Delorenzi ci ha offerto nelle sue considerazioni riguardanti i significati e il concetto di drammaturgia urbana, spostiamo l’attenzione su un secondo aspetto ovvero il rapporto con….
…LO SPAZIO
“Penso a potenza e pienezza”, dice la nostra interlocutrice. “Questa percezione è maturata nel tempo e anche grazie a esperienze “iniziatiche” come quella di andare nel deserto. É in quell’ambiente che per la prima volta ho potuto comprendere ciò che altri prima e meglio di me hanno descritto come la pienezza del vuoto. Una percezione, di potenza vitale, che si è integrata nel quotidiano. Al ritorno da questo genere di immersione notavo come non era la qualità dello spazio a cambiare ma come ero io a focalizzare i miei sensi su altro, fino a sopirli. Nel deserto è l’orecchio ad aprirsi, per il silenzio, ma anche per la stimolazione del movimento in uno spazio grande e aperto, le palpebre invece si abbassano calibrandosi sull’esperienza dell’ascolto.
Ascoltare lo spazio è cruciale e ho sempre pensato che il mondo non abbia poi così bisogno della nostra creazione. Ancor più oggi, che siamo sommersi da una iperproduzione di immagini, sento la necessità di immergermi e di cercare una sintonia con ciò che esiste, da sempre, con la creazione sempre presente e interrogarmi piuttosto sul concetto e l’esperienza dell’“increato” e dell’“immaginale”, di ciò che precede e sostiene senza bisogno di rendersi visibile.
A questo punto, però, Cinzia sente il bisogno di fare una premessa, rispetto allo spazio e, quindi, specifica che ci sono due parti nella sua esistenza e nel suo lavoro. La prima riguarda il periodo compreso fra fine anni’90 e il 2013, quando ha iniziato a realizzare i miei progetti come autrice. “Nell’ambito di questa produzione, sono stati fatti tanti lavori, anche attraverso la frequentazione di posti comunitari, spazi di occupazione storici. Nei primi anni – dove ho incontrato molte persone attraverso momenti di trasmissione-formazione coreografica – si sono formati gruppi, per me molto importanti, che sono stati Care Estinte (2003-2007) e la Compagnia (2009-2013), insieme a loro, tra altre produzioni, ho risposto a quattro commissioni in ambito urbano grazie al festival Danae, costruite su vie, piazze e percorsi della città di Milano.
Prima di lavorare con i gruppi, ci sono stati progetti miei solistici, durante i quali ho incontrato luoghi e paesaggi, in particolare, uno intitolato “Studio per primavera” (2003). Nato come improvvisazione, diventato poi un solo teatrale, questo lavoro ha trovato la sua dimensione per il Festival Armunia dove ho potuto consegnare la scrittura scenica al paesaggio. In questa tappa sono stata accompagnata dallo sguardo della videomaker Francesca Marconi e da quella esperienza ne abbiamo tratto una scrittura per il video.
Sono partita dal borgo di Guardistallo, in cui ho abitato lo spazio antistante l’uscio di una casa, sotto un grande glicine fiorito. Osservata dal pubblico e dai passanti occasionali, ho ricostruito un percorso in cui la scrittura scenica è diventata una nuova forma di traduzione del luogo. Poi abbiamo costruito un percorso che partiva dalla ruralità della campagna per arrivare fino alla spiaggia di Rosignano Solvay. Il percorso, che copriva una distanza di una ventina di chilometri circa, attraversava le trasformazioni del paesaggio che dalla campagna incontrava le strade provinciali, costeggiava gli impianti, fino alla spiaggia, per arrivare al mare. L’azione terminava lì.
Il seme iniziale della scrittura scenica di “Studio per primavera” è stata un ricerca che indagava il tema della rimozione della memoria in relazione a postura e gestualità del corpo. Sono entrata quindi nel paesaggio portando quella domanda e chiedendo ai luoghi di essere informata della memoria del territorio che, attraversato da intrusioni, cambiamenti imposti dall’umano, ha rilanciato la scrittura coreografica in una prospettiva più larga e profonda.
Una creazione per me ti lascia qualcosa, ti informa. Ti fa crescere. Se fai un certo tipo di creazione, partendo dall’abitazione del vuoto, non decidi che cosa succederà a priori. Devi farti piccolo, entrare in un processo, anche di scontro. In alcuni casi ho dovuto scegliere di non fare, deviare. In ogni caso e’ un processo in cui impari a negoziare la relazione con tutto ciò che arriva ad incontrarti.
Nell’analizzare la fase in cui Cinzia lavorava con i gruppi, tutti e quattro i lavori commissionati da Danae Festival (“Body stop”, “Io sono qui”, “Take this Waltz”, “Aquamama”) sono stati atti unici con una preparazione di due o tre mesi, durante i quali si sono effettuati sopralluoghi, osservazioni, raccolte di materiale e prove dei performer. In particolare la coreografa sottolinea come “L’approccio iniziale è stato sempre quello di osservare i luoghi per un certo periodo di tempo, coinvolgendo gli artisti che stavano collaborando con me insieme ad allievi e amici. Sono stati lavori di ascolto dello spazio, nel luogo e nella durata del tempo. In una continua domanda, mettendo i corpi nei flussi del luogo e osservandoli, conoscendo gli abitanti, i negozianti e le abitudini del quartiere. Siamo entrati in un processo che sfociava poi nell’accoglienza del pubblico.
Nel tempo precedente la realizzazione della performance Cinzia osserva per molto tempo ciò che avviene lungo la via oggetto del suo lavoro. Spiega: “In questo genere di lavoro, la questione della marginalità nella dimensione urbana emerge in modo molto evidente. Mettendoti in una dimensione di ascolto, rallenti e ti fai da parte rispetto ai flussi della quotidianità e della produttività. É così che cominciano ad apparire figure che prima erano in secondo piano, marginali, come gli zingari, la malattia mentale, i senzatetto, insieme alla presenza delle piante e degli animali. Questo è un aspetto interessante. Emerge quel che normalmente non viene visto. Diventano annotazioni, parte dell’esperienza.
Per quanto riguarda “Aquamama” (2012), commissionato e co-prodotto, da Danae Festival, con altri partner, Cinzia Delorenzi ha deciso di seguire la strada dell’acqua. “Ho pensato di seguire i percorsi d’acqua di Milano. Nella ricerca di informazioni sono stata aiutata in particolare da Pietro Lembi autore del libro “Il fiume sommerso: Milano, le acque, gli abitanti”.
Pietro mi ha spiegato alcuni dettagli importanti: storia, topografia milanese, ha evocato la geografia delle acque sommerse, le loro origini montane, le zone in cui vedere le risorgive, i tombini nei cortili dove scorrono le acque. Dopo un lungo lavoro di preparazione, ha iniziato a comporsi l’immagine di una popolazione nomade – sullo stile dei portatori d’acqua dell’africa del nord, zoomorfa – che nel seguire il flusso dell’acqua, potesse arrivare a Milano, lungo la traccia di una di queste linee fluide sotterranee, per portare la sua ritualità.
In realtà, il campo si è ristretto molto rispetto alla ricerca, perché in città non puoi andare sempre dove vuoi, soprattutto se si tratta di zone storiche, per cui l’azione infine è stata costruita su due tempi: uno pomeridiano itinerante e uno serale con un allestimento nella storica casa occupata nel palazzo dei Morigi (in via Morigi, dalle parti di via Brisa).
Tra le tante immagini di quella giornata ricordo la partenza da una fontanella pubblica in piazza Beccaria, l’incontro con una poesia di Ivan, sulla strage di piazza Fontana, scritta su di una serranda abbassata. Nella piazza abbiamo lavorato con frammenti di specchi rotti, posati a terra e la costruzione rudimentale di una barca. Il viaggio insieme al pubblico passava per piazza Duomo, fino ad arrivare a piazza Mercanti.
La sera, il pubblico è ritornato nel cortile di palazzo Morigi dove ha trovato l’installazione dell’accampamento del popolo nomade. C’erano i nostri suoni, le coltivazioni di piante che ci portavamo dietro, le nostre visioni proiettate sul muro, la presenza dell’acqua, un canto e infine la festa con i partecipanti.
Nel corso degli anni Cinzia Delorenzi ha intrapreso nuovi percorsi. “E’ da alcuni anni che ho fatto un passo di lato, una forma di ritiro, ma non per togliermi, per rientrare dentro e dare la mia presenza in un altro modo. Da una parte c’è una trasformazione, svolgo un lavoro di trasmissione che si è spostato ormai da anni nella natura; dall’altra, la mia parte artistica ha nuove domande ed esigenze interiori che ho bisogno di ascoltare. Non è l’aspetto romantico di ritirarmi da sola nella natura ma il desiderio di immergermi nella natura come frequenza.
Quello che io agisco da un po’ di tempo, sono progetti che incrociano la dimensione artistica e l’aspetto della trasmissione attraverso la pratica del movimento somatico nell’ascolto.
Si tratta di agire nella modalità della creazione come la conosco, abitando nello spazio, nella luce che cambia, a volte nel buio. Faccio molte sessioni in foresta, sott’acqua, nel deserto: resto in questi luoghi per molto tempo e agisco in una relazione artistica, senza bisogno di essere vista. Trovo delle cose. Lo spettatore non c’è più, ma sei guardato da tutto quello che c’è. Di questi accadimenti effettuo registrazioni video, registrazioni ambientali di suoni. Su di esse costruisco canti, musiche che mi piacciono. A volte le riporto in una sequenza video, a volte sono in compagnia dello sguardo di un’amica videomaker, Semira Belkhir che fa da testimone con la sua camera
Mi piace abitare nell’acqua, fare il nido, esprimermi con i colori. Ho individuato alcune pratiche per vivere con gentilezza la dimensione della pressione dell’acqua e contrastare la spinta che ti porta in superficie. Mi piace stare con le pietre. Scendo in apnea ma non cerco la profondità, né la danza, tantomeno la performance sportiva. Sono in una dimensione artistica ed estetica esperienziale. C’è un indagine sullo stare, lo stato, il divenire a mano a mano corpo invertebrato, più come una medusa, o una seppia. Sono abitazioni, tragitti fluidi, in cui scendo per abitare le pietre, per confondermi nella sabbia, o per proiettarmi su un piano orizzontale e restare lì. Mi piace moltissimo farlo e, successivamente, riguardare. La relazione artistica si compie al momento e continua dopo, con lo sguardo, con l’immagine.
C’è il passaggio occasionale, continuo di pesci, di cose che magari non vedo quando sono sotto e vedo in un secondo momento. A volte indosso vestiti, un giorno mi sono fatta confezionare un abito per l’occasione. Immagino e progetto di portare un gruppo, di essere magari in più persone a fare queste che chiamo “abitazioni”. In foresta lavoro appesa ai rami degli alberi, come in una sorta di grembo sospeso, grazie a tessuti usati nel circo, oppure con delle corde, imbragata.
Quando esco da giornate così, ho una mente diversa, non cerco il benessere, ma un altro modo di stare, di essere nella creazione del mondo. Tutto questo mi sta dando molto. C’è della mistica, mi interessa l’aspetto mistico-politico della creazione. C’è un pensiero in queste azioni e tutto questo ascolto, sicuramente, andrà da qualche parte, come la preghiera, come una forma di presidio. Non mi interessa che diventi uno spettacolo. Qualcosa sarà destinato e condiviso con gli altri, ma prima ha bisogno dello scorrere del tempo per emergere come immagine della memoria.”
Le parole di Cinzia Delorenzi rimandano in sintesi all’interpretazione della Drammaturgia Urbana come scrittura di una partitura gestuale nello spazio e a un’esplorazione dello spazio compiuta, sia in modo trasversale, nell’attraversamento di luoghi, di punti più o meno lontani, con percorsi che esplorano le distanze, sia come abitazione dello spazio, un’esplorazione quasi da “fermi” di un punto preciso, nella verticalità e nell’orizzontalità della coordinata. Attraversamento e sosta-mobile, sosta esplorativa convivono nel percorso di ricerca condotto rispettivamente nello spazio urbano, complesso e in quello naturale. Un invito a guardare le relazioni diverse o ad acquisire una consapevolezza accresciuta nella percezione del mondo, un affinamento della sensibilità nell’entrare in contatto con l’altro, con la multidimensionalità dello spazio e non solo.