Danae Festival – Teatro delle Moire – III Puntata

 

Pubblico (in teatro e nello spazio urbano).

Assaggi da vetrina, Danae Festival, Teatro delle Moire
Assaggi da vetrina, Danae Festival, foto di Valentina Bianchi, gentilmente concessa da Teatro delle Moire

Un altro aspetto sostanziale sul quale desideriamo riflettere con Alessandra de Santis e Attilio Nicoli Cristiani, direttori artistici di Danae Festival e di Teatro delle Moire è la diversità di rapporto che si crea con il pubblico nel contesto della drammaturgia urbana. Quali sono le differenze per un attore che agisce in una sala “tradizionale”, in un contesto di “quarta parete” e in ambito urbano?

Il punto di vista di Alessandra: “Una differenza sostanziale è che in una situazione urbana, a meno che tu non sia in un luogo dove il pubblico è seduto come se fosse in teatro, c’è sia uno spettatore informato che viene a vedere perché sa che ci sarà una performance, sia lo spettatore capitato per caso, perché è un passante. In particolare, la prima condizione che cambia è la sorpresa che puoi generare nelle persone che non sono venute lì apposta. Succede qualcosa di inaspettato. La seconda è la maggiore libertà che ti puoi prendere sull’improvvisare, sulla relazione con lo spettatore, sulle prossemiche, sulla distanza.”

Per esempio, nel progetto Assaggi da vetrina

buona parte del pubblico era colto all’improvviso, l’altra parte era quello del festival al corrente dell’appuntamento. Lavorare in una dimensione urbana richiede una grande capacità di ascolto e una certa potenza del performer. Quello che tu fai è come se si dovesse irradiare molto più lontano. Inoltre devi essere così forte che qualsiasi incidente, qualsiasi imprevisto, o atto di sabotaggio di un eventuale “disturbatore” diretto contro il performer non ti turbi più di tanto, devi essere come protetto da uno scudo spaziale (!).

Il nostro lavoro pedagogico con il laboratorio Corpo scenico mira proprio al lavoro sulla “presenza”, una ricerca della potenza della presenza che nella dimensione urbana deve essere ancor più amplificata. Sostanzialmente per me come attrice e performer è questa la differenza.

Qualche volta è più divertente lavorare in un contesto urbano. C’è la dimensione improvvisativa che ti dà una maggior libertà, per quanto è un improvvisare restando in ascolto di tutto. Si segue una traccia, ma ci si possono permettere guizzi, fuoriuscite in base a quello che accade, perché le persone diventano parte integrante della performance.

Per esempio, Assaggi da vetrina era così. Noi stavamo nella vetrina e quando si usciva ci mescolavamo con le persone. Inoltre le persone che si affacciano al di là del vetro creano una struttura. In pieno giorno, vedi le espressioni, le facce. Si può instaurare un gioco con lo spettatore – sia con quello che è venuto apposta, sia con chi si è trovato lì – e lo si può contattare fisicamente dove si intuisce che questo sia possibile, senza creare imbarazzi. Ci sono altre modalità di coinvolgimento del pubblico, senza passare per un contatto “invasivo”. Noi non siamo di quell’idea. Secondo me, il pubblico lo coinvolgi facendo, poi capisci se puoi fare qualcosa di più. Costringere le persone, stare loro troppo addosso non lo ritengo interessante, necessario.

Tuttavia, talvolta, c’era questa possibilità di contatto, a volte anche di danzare, o di abbracciarli, insomma la possibilità di entrare in un contatto più stretto, a seconda di quello che accadeva. Questo è impossibile in un’idea di teatro con la “quarta parete”, con il pubblico posto frontalmente, a meno che non ti rivolga direttamente e lo chiami in causa, ma non è il nostro caso.

C’è una specie di corrente, direi di “alta tensione”, che passa nel teatro urbano.

Violently Snow White, Teatro delle Moire, mercato di Bassano del Grappa
Violently Snow White, foto di R. Rognoni, gentilmente concessa da Teatro delle Moire

Il punto di vista di Attilio: “Anch’io penso che la questione fondamentale stia nelle barriere. La differenza sta nella loro assenza, o presenza. Ovviamente, se sono seduto a teatro, con la “quarta parete” (che a volte comunque viene abbattuta) in generale, lo spettacolo è in una zona e lo spettatore è in un’altra. Nello spazio urbano, invece, non ci sono barriere per lo spettatore. Può essere coinvolto e si trova in scena. Il performer lavora nello stesso posto del pubblico.

Anche per l’artista vale la stessa cosa. Se c’è un cane, un bambino, se capita qualcosa, tu inserisci tutto nella performance. Accadono cose meravigliose se sei forte nell’ascolto. Come se tu avessi reclutato il pubblico a fare cose bellissime, o anche spiacevoli, ma importanti.

Per esempio durante una performance al mercato di Bassano del Grappa, il fatto che io, un uomo, fossi vestito da Biancaneve provocava commenti, battute di scherno, c’era imbarazzo, da parte dei venditori e a me questo interessava. Non reagivo, però sentivo quelle voci e riflettevo che per me era normale essere vestito da Biancaneve, non mi creava alcun problema. Lo creava, invece, a un contesto di persone meno abituate a vedere un uomo en travesti.

In questi casi scattano le battute per prendere le distanze. È un modo per generare reazioni e fare i conti con la situazione. E secondo me è qui che la performance diventa in qualche modo “politica”. Anche in Assaggi da vetrina, al di là del vetro si creano reazioni che noi possiamo percepire. Questa “vicinanza” con lo spettatore ci porta indietro ad esperienze antiche, con un salto indietro nel tempo. Penso per esempio al modo di fruire l’opera lirica nell’Ottocento, quando il pubblico in platea si muoveva ed era a stretto contatto con i cantanti. O al teatro elisabettiano, dove analogamente, lo spettatore era molto vicino agli attori.

Alessandra esprime alcune ulteriori considerazioni. “In linea generale, definirei il lavoro in urbano un’azione che si interfaccia con l’architettura, che ha a che vedere con l’uso consapevole degli spazi. Non significa solo creare uno spettacolo all’aperto anziché al chiuso. D’altra parte, sono tantissimi anni che lo spettacolo in urbano non è più teatro di strada, quello che facciamo noi e altri colleghi, si è scostato da quello che tradizionalmente si definiva così.

La nostra attività è calata in una situazione urbana, ma si muove in un contesto di ricerca, sperimentale, con una drammaturgia. Lo spettacolo di strada ha più a che vedere con la dimensione circense, o l’animazione. Per esempio, le prime proposte dell’Odin Teatret di Eugenio Barba andavano a mescolarsi con i cittadini, ma lo facevano con figure e un tipo di drammaturgia del tutto innovativa.”

Per alcuni progetti ospitati da Danae Festival nella dimensione urbana di Milano, la grande partecipazione di pubblico inatteso è stata sorprendente. In queste occasioni la folla aveva invaso la strada e le macchine creavano difficoltà alla circolazione, un fatto che ha causato agli organizzatori qualche fonte di preoccupazione per la gestione dell’ordine. In particolare ciò è avvenuto con due lavori molto significativi della programmazione.

Metempsychosis, Animanera, per Danae Festival
Metempsychosis, Animanera, foto di Cristiano Morati, gentilmente concessa da Danae Festival

Il primo di essi, è stato Metempsychosis (2007) della compagnia Animanera realizzato al Ponte delle Gabelle. Il performer raccontava storie di coppie provenienti dalla tradizione classica, intese e declinate in accezioni diverse. In questo caso c’era un lavoro drammaturgico molto preciso e una ricerca di un luogo dove poterlo mettere in scena. Si trattava del tunnel costituito dal ponte, sul quale passa la strada e sotto al quale un tempo scorreva il Naviglio. Nel 2007 il luogo era degradato. La compagnia aveva collocato nel tunnel sotto il ponte dei materassi, a mo’ di letti, su ognuno di essi si trovava un performer insieme a uno spettatore (uomo-donna). Il luogo è stato occupato durante il giorno e la sera è avvenuta l’azione che ha richiamato un gran flusso di pubblico.

Il secondo lavoro è stato progettato e attuato da Cinzia Delorenzi (e la sua Compagnia) in Corso Garibaldi e intitolato Io sono qui (2008). La performance, in questo caso, era distribuita lungo tutta la strada. Attilio mi ricorda che “La coreografa aveva costruito una drammaturgia con le persone. A partire dal luogo di incontro, alcune figure ci guidavano verso altri luoghi dove accadevano altre cose, deliranti, esilaranti, poetiche, folli, in un continuo slittare su vari piani, numerosi personaggi (animali, sante, madonne), c’erano balletti, azioni. I luoghi diventavano una perfetta scenografia.

Ad esempio, a un certo punto si vedeva una figura su un albero. La via era stata completamente invasa e una massa di pubblico seguiva ciò che stava accadendo. L’artista ha investito moltissimo, con molta generosità, ha voluto essere accanto al festival e ci ha donato qualcosa di grande. Anche il pubblico. Si è creato un incrocio meraviglioso.”

Con un salto temporale di una decina d’anni arriviamo a una delle ultime opere di drammaturgia urbana, fra le più interessanti del panorama italiano in questo ambito, ospitata da Danae nel 2018 e nel 2019.

“Dopo un periodo in cui abbiamo alleggerito la parte urbana e ci siamo orientati verso la sala (anche in seguito allo slittamento della programmazione dalla primavera all’inizio dell’autunno) nelle ultime edizioni siamo ritornati in esterno, ma in modi e forme diverse, con altri numeri, più piccoli anche in base alle esigenze dei progetti degli artisti.

L’uomo che cammina del collettivo DOM, per esempio, è un’esperienza strettamente legata all’urbano realizzata in partnership con Zona K e la collaborazione di Terzo Paesaggio, anche perché si trattava di un progetto molto impegnativo economicamente prevedendo la partecipazione di soli venti spettatori a replica. Si potrebbe definire un progetto per così dire “anti economico”, ciononostante l’abbiamo replicato per due anni e siamo felici di averlo fatto, perché per noi, non solo è vitale, ma è anche eticamente fondamentale, assumerci delle responsabilità quando crediamo in un progetto. La risposta del pubblico è stata infatti esaltante, molti spettatori hanno voluto rifarlo e non abbiamo, purtroppo, potuto soddisfare tutte le richieste.”

Nel corso delle tre puntate che ci hanno permesso di conoscere il punto di vista di Alessandra e Attilio (ai quali siamo molto grati per la disponibilità) abbiamo raccolto una grande quantità di elementi su cui soffermare l’attenzione circa l’uso della dimensione urbana come luogo di accoglienza per progetti teatrali-performativi.

Dallo stretto rapporto fra spazio e personaggio, fra spazio e pubblico, all’importanza dell’ascolto da parte dell’attore nei confronti del pubblico, dalle questioni legate alla gestione dell’ordine pubblico poste da un’azione in uno spazio cittadino, fino alle considerazioni di ordine economico-organizzativo, aspetti questi ultimi ai quali dedicheremo approfondimenti, poiché sono importanti quanto le riflessioni di ordine concettuale, estetico e di poetica.

Io sono qui, performance di Cinzia Delorenzo
Io sono qui, di Cinzia Delorenzi, foto di Alessandro Scarano, gentilmente concessa da Danae Festival

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