Drammaturgia urbana, spazio, personaggi, pubblico.
Nel parlare di Drammaturgie Urbane legate al contesto milanese è imprescindibile fare riferimento a Danae Festival (fondato nel 1999) e all’attività del Teatro delle Moire (fondato nel 1997) diretti da Alessadra De Santis e Attilio Nicoli Cristiani.
Una forte attenzione al dialogo con gli spazi cittadini si riscontra sia nella progettazione di spettacoli propri, o curati in prima persona (Assaggi da vetrina 2002, Violently snow white 2004, Pop mobile 2006, Elvis Stardust 2009, Caleidoscopio 2011), sia nella scelta della programmazione del festival.
Nelle diverse edizioni di Danae, l’uso dello spazio urbano diventa uno dei connotati della manifestazione, i luoghi coinvolti sono molteplici ed eterogenei, in centro e in periferia, in esterno e in interno: le vetrine di corso Garibaldi per Assaggi da vetrina, il Ponte delle Gabelle per Metempsychosis degli Animanera nel 2007, la banchina del tram di fronte a Palazzo Litta e sede dell’omonimo teatro, in Corso Magenta per ospitare il format Body Stop-performance da banchina, comparso per la prima volta nel 2007 nel quale confluisce il lavoro di diverse compagnie anche negli anni successivi.
L’attenzione si rivolge a intere vie, come in Io sono qui di Cinzia de Lorenzi collocato lungo Corso Garibaldi, o a spazi-iconici come quello antistante le Colonne di San Lorenzo dal 2009, ad aree commerciali e pulsanti di vita: da Piazza Beccaria (2012), a via Paolo Sarpi (2013), a un caffè al quartiere Isola (2015) con Hamlet Private di Scarlattine Teatro. Nel 2016 il progetto di Salvo Lombardo (L’archivio delle cose che passano) è ambientato al Mercato Isola, in via Garigliano
Anche le periferie e le aree dell’hinterland sono coinvolte: Davide Tidoni porta il suo Listening intervention ad Affori, San Siro e Villapizzone. Ne’ mancano le aree verdi, in quanto compare anche il parco nord nel 2017, che ospita Rudi van der Merwe e Beatrice Graf con Trophée. Al 2018, edizione del ventennale della fondazione del festival, appartiene un progetto complesso (L’uomo che cammina del collettivo Dom) che si sviluppa in molteplici spazi urbani, vie piazze compresi fra piazza Duomo e la periferia sud di Milano (museo del 900, abbazia di Chiaravalle, Piscina Mincio, Hotel Corvetto, Parco avventura Corvetto, Bosco di Rogoredo).
L’interesse per l’esplorazione si estende alla ricerca di interni di natura particolare, diversa dalla sala teatrale, showroom (Annamaria Ajmone e Caned Icoda con Slide in B), palestre di istituti scolastici (Vero de Cendoya: La partida al liceo artistico Boccioni), altre strutture sportive come la piscina Natta (2018) che ha ospitato Enrico Malatesta e Attila Faravelli con No island but other connection.
A fronte di questa ricchezza di esplorazioni dello spazio cittadino ho chiesto ai due direttori artistici di spiegare/rivelare quale siano la loro interpretazione, visione di drammaturgia urbana.
Il punto di vista di Alessandra: “Il nostro lavoro nell’urbano è partito dall’esigenza di poter lavorare e renderci visibili, dal momento che avevamo difficoltà nell’inserire il nostro lavoro nel circuito dei teatri, perché c’era e c’è tuttora una certa difficoltà ad accettare nuove forme di linguaggio. Siamo usciti. Punto. Non ci siamo posti la questione drammaturgica. L’abbiamo capito sul campo questo, non abbiamo teorizzato qualcosa prima, ma ci siamo sperimentati con il corpo nell’urbano. Inizialmente abbiamo lavorato su figure molto riconoscibili dell’immaginario pop”.
In particolare si trattava di personaggi disneyani “figure che esercitassero un certo impatto, fossero popolari, riconoscibili” ma trasfigurate, spogliate da tutto quello che poteva rischiare di farci diventare Disneyland”. Ovvero gli attori hanno lavorato attraverso un “altro taglio, molto più pazzo, grottesco. Un aspetto nervoso rispetto ai corpi e alle azioni compiute dai personaggi. Questa maschera forniva una possibilità d’impatto sulle persone che erano destabilizzate dal nostro modo di stare sulla scena all’aperto. La drammaturgia in questo senso ha cominciato così.”
Il modo di muoversi nello spazio, di attraversare lo spazio, di compiere percorsi diventa centrale per queste figure rispetto al rapporto con il pubblico: “sicuramente era una parte fondante della questione drammaturgica e del modo nel quale ci ponevamo in relazione con la città e con chi incontravamo all’improvviso.”
Il pubblico aveva una duplice composizione, alcuni di loro, infatti, andavano appositamente a vedere la performance perché conoscevano la programmazione, altre persone erano invece sorprese per caso dallo svolgimento della medesima. Con questa diversità nel grado di consapevolezza del pubblico, per gli attori, spiega Alessandra “è stato importante capire quale fosse la distanza da tenere. Con distanza non intendo solo quella fisica, ma di relazione, in modo da raffreddare qualsiasi possibilità di equivocare queste figure come personaggi da animazione nel modo più tradizionale. L’idea era che ci si trovasse di fronte a figure aliene.
In un contesto di performance urbana la questione è il dove, il relazionarsi allo spazio al luogo, eventualmente al percorso, se c’è un percorso e capire la modalità di approccio e come stare/situarsi, cioè come i corpi stanno agli spazi e alle persone.”
A questo proposito Alessandra propone un esempio di relazione, un cammino-azione realizzato nel settembre 2019 dal tramonto all’alba, costruito con altre persone. Si è trattato “di un’azione politica e poetica” conseguenza di “un momento molto buio legato ai noti fatti occorsi a Mimmo Lucano”, in Calabria (durante il governo Lega-5 Stelle presieduto da G. Conte).
Alessandra aveva scritto una lettera aperta “a lui e ai nostri governanti ponendo una serie di questioni su che tipo di società ci immaginiamo, che esseri umani vogliamo essere. Dopo la lettera, firmata da moltissime persone, ci si è incontrati e si è cominciato a ragionare se ci fosse la possibilità di creare un’azione artistica, performativa che potesse tradurre con i corpi quel sentimento, quelle richieste, quelle domande, scritte nella lettera.”
Il cammino è stato realizzato in questo contesto. “Un fatto molto potente. Abbiamo lavorato a priori drammaturgicamente perché dovevamo tenere conto di una serie di questioni di sicurezza, non sapevamo quante persone avrebbero aderito, prima pensavamo 200, 250, trecento…Alla fine erano 500. Non avevamo una struttura alle spalle, eravamo tutti volontari. Ognuno si è assunto una responsabilità. In questa situazione il discorso drammaturgico era molto chiaro. Durante il percorso, al di là delle tappe, c’era un pensiero che legava il nostro “movimento”: sottolineare ed esaltare i principi che ci muovevano.
“C’è stata la scelta di un percorso preciso che andasse a toccare zone periferiche di Milano e quella di partire al tramonto, di andare cioè dal buio verso la luce, verso l’alba. Abbiamo toccato luoghi che secondo noi erano interessanti.”
Fra questi ci sono stati: una scuola elementare dove i genitori italiani ritirano i figli a fronte di una presenza al 90% di bambini stranieri di seconda generazione. “In questa situazione di emarginazione, noi abbiamo prima contattato le maestre e di notte quando siamo passati abbiamo lasciato un segno del nostro passaggio. Rappresentava un intreccio con loro: abbiamo annodato nastrini colorati alla balaustra della scuola.”
Un altro luogo che abbiamo attraversato lungo il cammino è stata la Casa dell’Accoglienza Enzo Jannacci dove ci si prende cura di persone senza fissa dimora e di immigrati. “Abbiamo toccato luoghi che avessero forte risonanza simbolica. Tutto questo è avvenuto anche con riti. Per esempio l’uso dei nastrini alla scuola, ma anche nell’accogliere i camminanti alla partenza, andando ad annodare ai polsi di ciascuno il nastrino rosso del cammino Nel Cuore Della Notte. Abbiamo lavorato quasi come in uno spettacolo, pur non volendo fare uno spettacolo, perché non desideravamo che le persone venissero per vedere, ma per esperire qualcosa, quindi queste azioni non le abbiamo dichiarate, sono state sorprese avvenute durante la notte.”
Il punto di vista di Attilio: “Nel costruire una performance urbana, la prima cosa da considerare è lo spazio, inteso anche come percorso nella città e anche prendendo in considerazione l’architettura… A volte nasce proprio qualcosa da lì, attraverso l’osservazione del contesto urbano nel quale ci si deve inserire.
Abbiamo attraversato questo tipo di esperienze in maniera molto intensa, secondo la nostra modalità. Un secondo fattore importante è ovviamente la relazione con il proprio corpo e con il cosiddetto personaggio. Poiché avevamo deciso di lavorare con la dimensione urbana, questa scelta implicava trasformare noi stessi in qualcosa che catalizzasse l’attenzione di chi ci incrociava nel frastuono e nella confusione della strada. Da questo punto di vista occorre prendere in considerazione il discorso drammaturgico. Per esempio, quando abbiamo deciso di lavorare sul personaggio di Biancaneve (in Violently Snow White), il personaggio era triplice, tre Biancaneve identiche ognuna però incarnata da un corpo differente: una giovane e piuttosto caratteristica figura di Biancaneve, una matura Biancaneve dal corpo extralarge, e una Biancaneve incarnata da un corpo maschile. Questa scelta già parlava, generava di per sé un senso, o una stratificazione di sensi. Con questa performance siamo andati in scena in tantissimi contesti diversi, dalle vetrine dei negozi, al mercato rionale (ad Operaestate a Bassano del Grappa), in piazze e strade, come in teatri e spazi non teatrali. In tutti questi casi l’impatto delle nostre tre figure, il nostro agire astratto e surreale, la facile riconoscibilità del nostro travestimento (ci siamo ispirati iconograficamente al personaggio disneyano), hanno permesso di creare una relazione intensa tra noi, lo spettacolo all’aperto e lo spettatore.
Il terzo elemento da considerare è proprio il rapporto con il “fuori”, con l’esterno. Ovvero la relazione con il pubblico che non è lo spettatore che, pagato il biglietto, si siede per guardare lo spettacolo, ma comprende anche chi in qualche modo ne viene travolto.
La componente dello spazio e dell’architettura sono stati fattori decisivi sia rispetto alla realizzazione di Danae Festival, sia a quella delle nostre performance urbane. Riguardo al Festival è capitato di aver scelto noi i luoghi, per poi chiamare successivamente gli artisti ai quali abbiamo detto “questo è il posto, che cosa potresti fare?”
Mi viene in mente, per esempio, la banchina del tram di fronte al Teatro Litta, in corso Magenta. Quando l’ho vista, ho pensato subito che fosse un palcoscenico. Era bellissima, intorno c’era un caos totale: il passaggio dei tram, delle macchine, della gente. Era una sfida.”
La scelta di luoghi-chiave, luoghi particolarmente critici, nodi, percepiti come tali dagli organizzatori-artisti è stata ed è una delle componenti che rende riconoscibile Danae Festival. “È stato chiaro per noi ad un certo punto che stavamo cercando di restituire la città ai cittadini, stavamo diventando dei “rigeneratori urbani”.
“Queste azioni urbane sono stati capitoli fondamentali del nostro festival” ribadisce Attilio “ci hanno portato a una grande crescita, a una grande possibilità di ampliamento del pubblico. Questo tipo di esperienze immaginate insieme agli artisti, o gli Assaggi da vetrina che avevamo costruito nei negozi insieme ad altri performer, erano accadimenti dal forte richiamo, la gente veniva apposta a vederli e non si limitava a raccogliersi lì, per caso, sul momento.”
Alessandra puntualizza una differenza importante fra drammaturgia urbana, performance nella dimensione urbana e arte di strada, due realtà distinte, anche se in apparenza avvengono in esterno, in luoghi pubblici. La differenza sostanziale riguarda il grado di consapevolezza, di ricerca, inerente il progetto stesso, la dimensione e il respiro del lavoro. Si tratta di una problematica che merita una riflessione a parte e che rimandiamo ad articoli futuri.
Alessandra: “Diciamo che definirei “urbano” il lavoro che si interfaccia con l’architettura, che ha a che vedere con l’uso degli spazi. Non tanto uno spettacolo realizzato all’aperto anziché al chiuso. Sono tantissimi anni che lo “spettacolo in urbano” non è più lo spettacolo di strada. Quello che facciamo noi e altri colleghi si è scostato da quello che tradizionalmente si definisce “teatro di strada”. La nostra attività in situazioni urbane è un lavoro di ricerca, sperimentale, con una drammaturgia. Lo spettacolo di strada ha più a che vedere con la dimensione circense, con l’animazione, anche di grande livello sia chiaro, però solitamente innesca un altro tipo di relazione con chi guarda. Un esempio altissimo di teatro in urbano, sono state le esperienze dell’Odin Teatret di Eugenio Barba, i cui lavori, ad esempio, venivano realizzati anche coinvolgendo le diverse comunità che ospitavano la compagnia, realizzando veri e propri eventi irripetibili che si impregnavano della cultura delle comunità ed era un lavoro in cui la costruzione di figure e la drammaturgia erano assolutamente innovative. Queste loro “incursioni” hanno sicuramente rivoluzionato i canoni accademici del teatro ingessato e borghese, sovente polveroso. Ecco direi che spesso il teatro in urbano può essere in qualche modo eversivo, si prende delle libertà, si prende dei rischi che raramente oggigiorno il teatro si assume.
Attilio esprime qualche dubbio di non avere risposto in modo scientifico o canonico alla mia domanda circa la “definizione ” di drammaturgia urbana….”Noi non siamo dei teorici, siamo dei pratici. Capiamo quello che stiamo facendo, facendolo, sentendolo nel corpo, in zone anche sconosciute di noi stessi, per prima cosa e poi a livello intellettuale, almeno per lo più è così…”.
Il bello di cercare di definire cosa sia la “drammaturgia urbana” è proprio questo. Non c’è una risposta corretta o una sbagliata. La possibilità di differenziare le risposte evidenzia un’area di lavoro e di ricerca estremamente mobile, sfuggente, aperta e per questo molto interessante, adatta alle esplorazioni, a porre domande e sollecitare scavi e riflessioni personali. Solo in un secondo momento si potranno individuare eventualmente i tratti ricorrenti, riscontrabili nelle varie risposte inoltrate ad artisti, a professionisti diversi…
(Fine prima puntata. Continua…)