Performance?

TRADUZIONE, DIFFERENZE ED EGEMONIE CULTURALI

Drammaturgie Urbane, Sonia Arienta, Milano.

Nelle letture e ricerche ci si imbatte sovente nelle specificità con cui ciascuna nazione definisce e usa le parole, assegna significati e campi semantici a volte estranei al proprio idioma. Nelle principali lingue della cultura occidentale, in ambito teatrale e drammaturgico, per esempio, si possono segnalare difficoltà nella traduzione di alcuni concetti chiave  in quanto mancano termini equivalenti; o alla molteplicità dei significati racchiusi in una sola parola di una lingua corrisponde l’impiego di più termini in un’altra.

Lungi dall’essere mera curiosità da eruditi, questi casi rimandano a questioni concettuali primarie complesse, a differenze di mentalità e di cultura, alle conseguenze dell’egemonia economica di alcuni Paesi che si riflette anche sul piano delle arti. Fatti da evidenziare, per meglio comprendere situazioni e relazioni.

Pensiamo alla parola “PERFORMANCE“. Scelgo l’inglese da molti anni la lingua internazionale per eccellenza, per quanto riguarda gli studi e l’attività teatrale e non solo, ovviamente. Una condizione che – sottolineiamo – è una conseguenza diretta del postcolonialismo e del potere detenuto (fino a questo momento) dagli Stati Uniti e prima dall’impero britannico. Le cose potrebbero cambiare in futuro.

Il termine “PERFORMANCE” (riscontrabile anche in francese, dal quale origina, attraverso l’antico verbo “performer”, a sua volta preso dal tardo latino “preformare”= foggiare, dare forma, Castiglioni-Mariotti, in Il Dizionario della lingua latina) non ha un diretto equivalente nel vocabolario italiano. Nella nostra penisola, si ricorre, quindi, al prestito linguistico di una parola che, nel corso degli anni, è ormai superinflazionata ed è intraducibile con un solo termine. Infatti, a seconda delle specifiche occasioni, dei diversi contesti si dovrebbe ricorrere rispettivamente a: PRESTAZIONE, AZIONE, RAPPRESENTAZIONE, INTERPRETAZIONE.

Per tornare invece all’inglese, la definizione che si legge nel Cambridge Dictionary (edizione on line) di PERFORMANCE è la seguente:

The act of doing something, such as your job; 

The action of entertaining other people by dancing, singing, acting, or playing music.

An action or type of behaviour that involves a lot of attention to detail or to small matters that are not important.

in business:

How successful an investment, company, etc. is and how much profit it makes, how well a computer, machine, etc. works; how well someone does their job or their duties; the act of doing what is stated in a legal agreement.

L’Oxford Dictionary on line propone le seguenti definizioni:

1 An act of presenting a play, concert, or other form of entertainment.

1.1 An act of performing a dramatic role, song, or piece of music.

1.2 British informal A display of exaggerated behaviour or a process involving a great deal of unnecessary time and effort; a fuss.

2 The action or process of performing a task or function.

2.1 A task or operation seen in terms of how successfully it is performed.

2.2 The capabilities of a machine, product, or vehicle.

2.3 The extent to which an investment is profitable, especially in relation to other investments.

2.4 Linguistics An individual’s use of a language, i.e. what a speaker actually says, including hesitations, false starts, and errors.

Often contrasted with competence

 

Come si nota, il termine ha un significato legato all’ambiente produttivo e al settore dell'”ENTERTEINMENT” – vocabolo con cui entrambi i dizionari di Cambridge e di Oxford indicano le attività artistiche, ridotte a mero “spettacolo”, “intrattenimento” – più che a un’operazione di “avanguardia”, sebbene il medesimo sia abitualmente applicato per definire molti lavori di quest’ultimo genere, fin dagli anni Sessanta del XX secolo.

Attraverso queste definizioni “ufficiali”, istituzionalizzate dall’inserimento nei vocabolari più prestigiosi/conosciuti, traspaiono i segni dell’economia, della società capitalistica. Emergono riferimenti all’arte come mercificazione di eventi deputati allo svago (di persone molto occupate durante il giorno a fare affari si presume) e più esplicitamente agli “investimenti”  (finanziari), al “profitto”, all’efficienza di macchine, o del lavoro di lavoratori-macchina, indipendentemente da come gli artisti o gli accademici anglofoni percepiscano questo termine.

Definizioni molto diverse da queste abbondano, infatti, proposte da studiosi o artisti anglofoni e francofoni. Scegliamo quelle di Richard Schechner, fondatore dei Performance Studies negli anni Sessanta e di Erwin Goffman per il suo contributo fondamentale agli studi sul comportamento e sul linguaggio nel corso della sua carriera di pensatore fra i più importanti del XX secolo, le cui riflessioni hanno una parte fondamentale per i lavori che troverete in questo blog e nel sito di DRAMMATURGIE URBANE.

Per quanto riguarda il significato di “performance” inteso da Goffman nel suo saggio “The presentation of self in everyday life” (p. 15-16, 1959) si leggono queste parole:

A performance may be definited as all the activity of a given participant on a given occasion which serves to influence in any of the other participants. Taking a particular participant and his performance as a basic point of reference, we may refer to those who contribute to the other performances as the audience, observers, or co-participants. The pre-established pattern of action which is unfolded during a performance and which may be presented or played through on other occasions may be called a “part” or a “routine”.

La performance in questo caso implica l’idea di “influenza”, di persuasività e di persuasione circa il ruolo che si sta “recitando” in una data situazione della vita quotidiana, mentre si è osservati. In questo senso la parola italiana rimanda al concetto di “interpretazione” e “rappresentazione” di un ruolo, di una parte-routine. La questione posta dallo studioso riguarda atteggiamenti e comportamenti in pubblico e in privato delle persone e non pone problemi di traducibilità, di imprecisione semantica. Né si sono verificati in tal senso “abusi” nell’uso della parola “performance”, poiché abitualmente si è ricorso a termini alternativi italiani: come “rappresentazione di sé”, o “maschere sociali”.

Drammaturgie Urbane, Sonia Arienta, MilanoRichard Schechner definisce la Performance in senso generale “as ritualized behavior conditioned/permeated by the play” (Performance studies: an introduction, Routledge, 2002, p.90). Un comportamento condizionato/permeato dalla giocosità e dalla recitazione/interpretazione. Nella nostra lingua, sul piano concettuale, rispetto alla traduzione e alla ricezione di questo passaggio si aggiunge un problema, generato dal sostantivo “PLAY” che apre un abisso di indeterminatezza e di ambiguità. In italiano i termini equivalenti di tale parola sono più d’uno, ovvero “GIOCO” e “RECITAZIONE”.

Lo stesso Shechner spende molte pagine sulla definizione di “PLAY”, per distinguerla da quella del sostantivo “GAME”, rivela pertanto una situazione critica anche in inglese, riguardante in questo caso i due termini (“it is not easy to separate play from games, one can say that generally games are more overtly structured than playing”, in Performance studies: an introduction, Routledge, 2002, p.92).

La questione è che egli, ragionando e scrivendo in una lingua egemone,  trascura la dimensione dell’assenza/mancanza di un termine unico di analogo significato a PERFORMANCE, in altri contesti linguistici come in italiano, o in spagnolo. Si limita a dire che il medesimo non si riscontra nelle lingue latine (in particolare egli si riferisce allo spagnolo, non compare alcuna allusione all’italiano).

La problematica è proprio questa. La parola è assente non perché sia assente sul piano concettuale e quindi ne serve una “importata” da una cultura implicitamente magari percepita come più “avanzata”, ma perché è sostituita da più parole che definiscono i diversi livelli di significato. Non è una questione di povertà linguistica, o arretratezza culturale, ma, al contrario, di ricchezza e di complessità di pensiero.

Schechner trascura di verificare in due lingue importanti della cultura occidentale quanto possano  “funzionare” sul piano concettuale una serie di ragionamenti applicabili al proprio contesto linguistico (e a quello francese, dal quale il termine in questione deriva). Ha compiuto verifiche e controverifiche su lingue lontane – dal giapponese all’indi – con l’atteggiamento political correct ormai abituale nella cultura anglofona (e francofona), dietro al quale si nascondono sovente in modo più o meno inconsapevole, o ipocrita, le dinamiche postcolonialiste.

L’italiano è noto per essere una lingua molto ricca, complessa, immaginifica, tratti che permettono di rivolgere particolare attenzione ai dettagli e alle sfumature. Non generalizza, non usa grossi scatoloni in cui riporre un po’ di tutto. Garantisce una definizione su misura per le diverse situazioni, a volte magari in modo troppo puntiglioso.

Usare una sola parola, d’altra parte, permette di semplificare e, quindi, di aumentare la velocità di comunicazione. Nell’ottica della società capitalistica dove il tempo è denaro, l’efficienza e la velocità sono fattori fondamentali per vincere la concorrenza. Si tralasciano però i dettagli che sono molto importanti, si appiattisce o si sfoca il significato, si genera incertezza, si edulcorano, si piallano, o si narcotizzano i conflitti e le contraddizioni del sistema.

Quanti artisti e non artisti italiani o spagnoli adottano il termine “PERFORMANCE” senza pensare a questa ricchezza di definizioni e alle questioni sottostanti a livello concettuale? Quante volte usiamo questa parola in modo improprio o per dare un tono, una credibilità a un evento?

Se i termini italiani “INTERPRETAZIONE”, “RAPPRESENTAZIONE”, “AZIONE” sembrano troppo poco fashion, o semplicemente non sono precisi per indicare progetti e lavori artisticamente molto diversi, sia sul piano dei contenuti, sia delle qualità estetiche, sia in termini di tipologia di intervento, la parola magica “PERFORMANCE” diventa l’ancora di salvezza. Compare all’occasione opportuna per incuriosire il pubblico, o l’acquirente nei confronti di lavori al “confine” fra arti visive e teatro, o fra teatro e arti visive (o fra letteratura e teatro, fra arti visive e letteratura etc. etc.) e, ormai, anche per quanto riguarda lavori specificamente teatrali (di prosa, o lirica). O per definire operazioni commerciali, scontati, provinciali, riscattate dalla pseudo-internazionalità assicurata dalla parola “esotica”. Applicata a qualsiasi evento, da una comparsata legata a pubblicità nemmeno troppo occulta, a un evento esteticamente e concettualmente di qualità annebbia il contesto reale, impasta in un indistinto differenze sostanziali.

Nel contesto extra-artistico, la parola PRESTAZIONE – uno dei termini con cui si può tradurre in italiano “PERFORMANCE” nel contesto sportivo e finanziario – è molto più problematica del termine inglese/francese.  Evoca una manifestazione troppo scoperta di cinismo “capitalistico” e ha scarsa attrattiva a livello di marketing. Mette a nudo il contesto economico della società in cui viviamo dove la tempestività, la rapidità di risposta, possibilmente h24, sono fondamentali per annientare la concorrenza. Dove è “vietato” perdere tempo con prodotti o persone non all’altezza della situazione, immediatamente buttati e sostituiti appena decelerano, si inceppano.

In ogni caso, PERFORMANCE ha il ruolo rassicurante di parola passe-partout per definire gli ibridi che, ancora nel XXI secolo, imbarazzano critici e accademici amanti della comodità, leggi le certezze dell’incasellamento DOCG (questa è un’opera di arte visive, questa è una pièce teatrale, è importante impilare i maglioni e tenere in ordine icassetti….) e forse gli stessi artisti, timorosi di ritorsioni qualora si scostino dal terreno di produzione abituale. La riconoscibilità e la vendita sono più facili se il prodotto porta un’etichetta in bella evidenza, con ingredienti, luogo e data di scadenza certi (e certificati).

Al di là della patina glamour del termine d’importazione che rende, con un tocco di bacchetta magica, qualsiasi azione catalogata con questo nome già proiettato nel bianco accecante di una galleria d’arte newyorkese o londinese, o nell’efficienza portentosa di un prodotto tecnologico sofisticato e potente (con un riferimento erotico implicito) ci sono i rapporti di produzione e il contesto storico-economico ai quali è impossibile sfuggire, negare.

Drammaturgie Urbane, un progetto di Sonia Arienta, Milano, 2021

Fatte queste considerazioni, è tempo di porsi alcune domande.

  • Che cosa si nasconde in termini concettuali dietro l’apparenza della diversità linguistica?
  • Quanto pesa il dominio culturale anglofono nella formulazione di teorie e riflessioni riguardanti il teatro a livello internazionale e nella loro imposizione-circolazione?
  • L’uso dell’inglese o del francese nella società contemporanea quanto rende più appetibile, invidiabile, glamour un concetto, un’idea o un evento a priori? Quanto incide nel distribuire e accettare qualcosa che viene dall’esterno?
  • Nel tempo, l’uso dell’inglese quanto altera il significato di un’azione o di un evento, una volta “rifiutata” la definizione in italiano?
  • Siamo sicuri che la lontananza linguistica escluda malinterpretazioni delle parole latine o italiane usate come supporto teorico?

Sul piano culturale, la mancanza di un’adeguata riflessione attorno al concetto di traduzione e di come “riempire”, “comprendere” i termini inesistenti in altre lingue, o la capacità di una lingua di definire con più ricchezza i concetti e gli eventi è una grave mancanza sul piano della coscienza critica.

I PERFORMANCE STUDIES e la loro fama non potevano nascere in Italia o in Spagna non solo perché manca una parola equivalente che sintetizzi i molteplici significati. In una società postcolonialista che adotta l’inglese come lingua franca non poteva avere un successo planetario se divulgata in italiano, lingua parlata da un numero ristretto di individui, seppure di una nazione membro del G7, o in spagnolo, per ragioni più complesse.

La maggior parte delle teorie più innovative degli ultimi anni, o intese come tali, sono nordamericane, inglesi o francesi, anche se attingono in modo generoso dai lasciti teorici dell’antichità classica (Aristotele e Cicerone in particolare, come nel caso delle teorie sull’argomentazione, o sulla persuasione).

Sul piano culturale e delle politiche culturali internazionali, nonostante la ricchezza linguistica sia una risorsa, l’indizio di una capacità di pensare complessa, articolata, problematica, la scarsità di diffusione dell’italiano (a differenza dello spagnolo, una delle lingue più parlate al mondo) per quanto riguarda soprattutto le discipline umanistiche pone alla lunga gravi problemi.

Impedisce di confrontarsi e comunicare a livello internazionale, mantenere, restaurare una credibilità/autorevolezza intellettuale, situazione che porta all’esclusione dal dibattito internazionale, dalla leadership culturale. Si è fuori dai giochi. Arroccarsi sdegnati su posizioni di difesa di passati gloriosi è deleterio. A meno che non si scelga di comunicare in latino, gli ecclesiastici cattolici hanno fatto una scelta interessante da questo punto di vista.

La scelta è “drammatica”. O si torna a usare il latino, in modo provocatorio, o si sceglie una lingua  internazionale per comunicare con il resto del mondo (l’inglese in questo periodo, ma potrebbe diventare il mandarino). Ci si può accodare, fare gli epigoni, o scegliere di trovare nuove vie di ricerca e di studi da “esportare” nel modo più adeguato ai tempi, alle situazioni, ai luoghi. Di certo il tempo per indugiare è scaduto.

D’altra parte non serve tradurre letteralmente le parole straniere. Se si mettono da parte pigrizia mentale, soggezioni e complessi di inferiorità culturali, si possono trovare parole sostitutive che rendono anche in modo più preciso il genere di progetto a cui si lavora, abitualmente o di volta in volta. Per quanto riguarda, per esempio, il termine PERFORMANCE, inadeguato dal nostro punto di vista a definire i nostri percorsi di ricerca, l’abbiamo sostituita con Drammaturgie Urbane.

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